anarchici
Da Verona a Dachau
di Giovanni Domaschi
Esce in queste settimane, curata da Andrea Dilemmi, l’autobiografia di Giovanni Domaschi, limpida figura di militante operaio, anarchico, antifascista, confinato, partigiano, morto in un lager.
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«Occorrerebbe lo spazio di un volume per seguire il nostro compagno nelle sue gesta», scriveva Randolfo Vella sul «Libertario» nel lontano 25 aprile 1955. Oggi quel volume esiste: lo aveva scritto lo stesso Domaschi, prima di finire i suoi giorni in un campo di concentramento. Con il titolo Le mie prigioni e le mie evasioni, memorie di un anarchico veronese dal carcere e dal confino fascista, è in uscita a cura di chi scrive presso la casa editrice Cierre (www.cierrenet.it). Due fortunati ritrovamenti, il primo risalente ad alcuni anni or sono a opera di Adriana Dadà, il secondo con il concorso del felice intuito di Maurizio Zangarini, direttore dell’Istituto veronese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, hanno permesso di portare alla luce due quaderni di memorie dell’anarchico veronese i cui manoscritti, incompiuti, sono oggi conservati nel fondo Ugo Fedeli dell’International institute of social history di Amsterdam e nell’archivio dell’Istituto storico veronese.
Le memorie di Giovanni Domaschi costituiscono un documento al tempo stesso raro e importante. Raro perché, al contrario di quanto è avvenuto per altre correnti politiche, una sorta di riservatezza militante ha fatto sì che la memorialistica sia stato un genere assai poco frequentato nel movimento anarchico. Importanti perché, oltre a costituire un nuovo tassello nel ricco puzzle della memorialistica degli antifascisti sul carcere e sul confino nel periodo fascista, mettono in luce la mentalità, le convinzioni e la vita di un operaio anarchico nella prima metà del Novecento. Un intreccio tra la storia comune di un “militante di base” e una vicenda biografica eccezionale (al pari di molte altre storie di vita di quegli anni) che contribuisce ad approfondire la storia sociale dell’anarchismo italiano.
Andrea Dilemmi |
Le origini
Sono un operaio meccanico figlio di poveri contadini la cui paga non bastava per sfamare tutti i loro otto figlioli, forse fu una fortuna che tre di loro se ne siano andati sotterra in tenera età poiché il periodo in cui essi sarebbero stati destinati a vivere avrebbe riservato dei momenti di sconforto. Nacqui lassù quasi sulla vetta di un monticello del veronese, a dieci anni entrai in una bottega da fabbro ferraio che abbandonai ben presto per fare il meccanico che preferivo maggiormente; a contatto col cigolio delle macchine, coi consueti rumori di centinaia di ordegni, vicino a degli uomini incalliti dal lavoro e dalla miseria la mia mente incominciava a comprendere le prime ingiustizie sociali, incominciava a dividere il mondo in due grandi campi: poveri e ricchi, coloro che producono la ricchezza e coloro che la usurpano. A sedici anni feci parte del “Circolo Giovanile Socialista” del mio paese al quale diedi tutta la mia possibile attività; in seguito a migliori riflessioni divenni Anarchico e partecipai a tutte quelle iniziative che credetti utili al miglioramento morale e materiale della mia classe. Come anarchico avversai la guerra europea e non volli fare il soldato, per qualche mese indossai la casacca militare ma solo per sdrucirla sul pancaccio delle celle buie del mio reggimento. Passai, e sto passando ancora, degli anni tristi, come, del resto, li stanno passando tristi tutti coloro che non vollero o non vogliono piegare dinnanzi al manganello ed alle leggi fasciste.
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Giovanni Domaschi |
Contro i fascisti
La sera del 21 aprile 1921 i fascisti fecero tutti gli sforzi che erano nelle loro possibilità per penetrare nel rione popolare di S. Stefano, la lotta avvenne soprattutto al “Ponte Pietra”, le due forze contrastanti erano poste alle estremità del ponte, di tratto in tratto si udivano dei colpi di arma da fuoco, il Gruppo Anarchico locale era sul luogo che incoraggiava e consigliava ma vedeva che di fronte alle preponderanti forze avversarie, appoggiate, come di consueto, dall’intervento della polizia sempre equipaggiata coi mezzi più moderni, avrebbe avuto la peggio. Cosa si doveva fare allora? Non era forse meglio attendere in pochi in qualche nascondiglio che gli avversari avessero oltrepassato il ponte e da là uscire al momento opportuno per scagliare sulle loro teste il poco materiale esplosivo che era nelle nostre mani? Infatti ci appostammo in tre di fronte al ponte sulla strada diroccata che conduce al Castello S. Felice: […] mancava poco alla mezzanotte, la parte delle botteghe e le finestre delle case erano tutte chiuse fin dalle prime ore della sera, regnava un silenzio sepolcrale come tutto fosse stato della massima tranquillità, decisi di uscire disarmato dal mio nascondiglio per vedere come stavano le cose e mi trovai di fronte ad una moltitudine di guardie regie, fascisti e poliziotti d’ogni colore […]; costoro mi intimarono “l’alto là!”. Sentii subito un suono come quello di un ciottolo quando viene lanciato dall’alto sul lastricato di una strada: era una bomba SIPE che il Boresi aveva lanciato contro i funzionarî appena li vide avanzare silenziosamente con tutti i loro uomini verso di noi […]. La bomba batté ai miei piedi, vicinissima quindi anche ai funzionari che si trovavano in testa; ero di fronte a due pericoli: ucciso dallo scoppio della bomba, o, l’altro minore, essere arrestato; non so come mi svincolai dalle mani degli sgherri che mi circondavano, scattai come una molla verso il ponte col preciso intento di tuffarmi nell’Adige e prendere il largo a nuoto […]. Sentivo le voci dei commissarî che gridavano: “Fermate il Domaschi! Fermate il Domaschi!” Fui fermato infatti, poiché la via formicolava di nemici i quali mi misero subito le manette.
Il confino:
Favignana
I giornali pubblicarono che i confinati politici percepivano dieci lire al giorno, somma misera nei confronti del costo della vita di quel tempo, ma la nostra situazione si presentò ancora più problematica quando constatammo che invece di consegnarci la cosiddetta “mazzetta” di lire dieci ce la consegnarono di lire due. […] Eravamo quindi condannati a soffrire anche la fame. Noi Veronesi abbiamo incominciato a formare la prima mensa in comune, tutto ciò che avevamo veniva messo a disposizione di questa, ma era poco quello che possedevamo, perciò decidemmo di fare un solo pasto al giorno, all’una del pomeriggio.
[…] Eravamo a contatto continuo coi comuni, mi avvicinavo volentieri a loro anche per conoscerli maggiormente, per vedere insomma se in loro vi era ancora qualche cosa di buono, qualche corda sensibile; in seguito li aiutavamo, passavamo loro i francobolli e la carta per scrivere alle loro famiglie quando le nostre finanze divennero più floride.
Avvicinando questi disgraziati mi sono convinto che una buona parte di loro, se vivessero in una società che li aiutasse ad uscire dal fango in cui sono caduti, diventerebbero degli uomini che potrebbero dare il proprio contributo al bene comune. Certamente ve ne sono anche di coloro che difficilmente sarebbero riabilitabili, poiché la natura li ha forgiati così, tutt’al più questi disgraziati potrebbero essere messi in condizione di non nuocere alla società però anche la società stessa non dovrebbe mai abbandonare l’idea di non nuocere a loro.
Lipari
amore al confino
Dopo il compagno Galleani, e più precisamente nel settembre del 1927, vidi giungere pure una giovane donna con un bambino il cui stato mi fece veramente compassione: a nome dei compagni Anarchici mi occupai di trovarle una abitazione conforme ai suoi bisogni e dopo qualche giorno raggiunsi lo scopo.
In quel frattempo fui colpito dalla “liparite”, una epidemia che costringeva a letto per alcuni giorni, noi la denominavamo così perché si era diffusa solo a Lipari, e la nuova compagna confinata, che non era altra che la Maria Ciarravano, mi assistette con vero affetto fraterno. Nei giorni della convalescenza, essendo che nella mensa dove andavo di consueto non vi era che un vitto comunissimo, ella si offrì di cucinare anche per me. Divenimmo subito come due fratelli che si sorreggono nelle proprie pene e gioiscono insieme nei piaceri dell’uno o dell’altro, ma quel genere di amore non durò e non poteva durare molto, poiché eravamo giovani entrambi e tutti e due avevamo altri bisogni, a poco a poco maturavano così in noi altri sentimenti. Che cosa impediva a noi di divenire compagni magari per tutta la vita? Avevamo forse bisogno del consenso del Parroco oppure del nulla osta del Sindaco? Che valgono tutti questi padri eterni di fronte all’amore di due cuori i quali si sentono attratti l’uno verso l’altro? Eravamo giunti ad un momento che non si poteva vivere insieme senza che l’alito dell’uno non vibrasse nel cuore dell’altro. Facemmo la vita in comune, così come la fanno marito e moglie nella società borghese, ma avvalorata dal fatto che non erano le leggi che tenevano uniti i nostri cuori, ma l’affetto, il puro il grande affetto.
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Dachau (Germania) - Scultura alla memoria |
Un prete anomalo
in fuga
Nelle primissime ore della sera del venti Luglio 1928 uscii col Michelagnoli, dal camerone dove ci trovavamo entrambi, mediante una chiave che adattai alla serratura del cancello nei giorni precedenti; uscimmo con tutto ciò che ci sembrava indispensabile alla riuscita, cioè: lampade tascabili, funi e vestiti per camuffarci, tutto avevamo ricevuto clandestinamente lo stesso giorno insieme con dei quattrini. Ci recammo immediatamente ad aprire la cella dove erano rinchiusi il Canepa ed il Magri e dove ci camuffammo coi nuovi vestiti. […] Il primo a salire sulla piccola terrazzina che livellava con l’estremità della cinta fui io, vi salii per mezzo di una scala umana che facemmo tra tutti ed aggrappandomi ad un tubo che serviva per incanalare l’acqua piovana; appena giuntovi gettai una fune agli altri compagni ed uno alla volta salirono tutti. […] Scendemmo dalla cinta dalla parte opposta con la stessa fune e ci trovammo fuori dalle carceri.
[…] Proseguimmo tutti verso la montagna che ritenemmo la più conveniente per raggiungere “Canneto” senza incidenti. Ad un crocevia udimmo il “Chi va là?” delle sentinelle le quali si erano spostate dal luogo consueto attirate dal sospetto che provocò l’abbaiare continuo dei cani, il Canepa, il Michelagnoli e la Ciarravano i quali si trovarono alcuni passi indietro da noi e non erano ancora stati visti si sbandarono, io ed il Magri ci fermammo ed all’invito delle sentinelle rispondemmo che eravamo gente di Lipari, avvicinatesi maggiormente, essi videro che dalle vesti trattavasi di un prete e di una donna e ci lasciarono proseguire scusandosi. Camminammo ancora per un centinaio di metri e poi decidemmo di aspettare gli altri, i quali, secondo noi avrebbero dovuto prendere qualche sentiero attraverso la campagna e raggiungerci.
Aspettammo i compagni un paio di ore, più di quello che potevamo aspettare; insistetti in questa attesa non solo per un senso di dovere verso loro tutti ma anche perché ritenevo un po’ difficile metter in moto l’imbarcazione e raggiungere una qualsiasi costa solamente tra noi due. Sentimmo battere le due del mattino all’orologio della “cattedrale”, era impossibile attendere ancora.
[…] Decidemmo di proseguire ed incominciammo a salire la montagna non guardando ai pericoli di qualche mortale scivolone; eravamo bagnati di sudore, la sottana e specialmente la forma del colletto sacerdotale m’impedivano di essere del tutto agile come occorre essere in questi momenti.
Giunti a metà della salita costeggiammo la montagna verso “Canneto” il luogo in cui dovevamo recarci; camminammo a lungo a passo accelerato senza permetterci un minuto di sosta, ma il tempo passava e già potevamo intuire che ben difficilmente saremmo giunti a “Canneto” nelle ore convenienti; […] infatti scendemmo a “Canneto” verso le cinque, il personale addetto ai lavori del piroscafo era già in servizio, a noi non ci restava altro che nasconderci nelle montagne ed attendere una nuova occasione.
Giovanni Domaschi
Giovanni Domaschi nasce a Verona nel 1891, Aderisce all’anarchismo mentre lavora, come operaio meccanico, presso le officine ferroviarie di Verona. Fermamente contrario alla Prima guerra mondiale, si impegna nel movimento sovversivo della città e in particolare nell’attività della Camera del Lavoro, che dalla fine di febbraio del 1919 aderisce all’USI. Apre un piccolo laboratorio in proprio a Veronetta e, nel 1920, fonda nel quartiere un Gruppo operaio anarchico. Nell’aprile del 1921 è arrestato in seguito a un conflitto a fuoco con una squadra fascista. Esce dal carcere nel luglio 1922. Dopo la salita al potere del fascismo prosegue la sua attività politica e sindacale: per questo nel novembre del 1926 viene arrestato e inviato al confino. È l’inizio di un’odissea che lo vede risiedere o transitare da numerosi luoghi di detenzione durante tutto il ventennio fascista, sempre fedele alle idee anarchiche e protagonista di numerosi tentativi di fuga. Nel 1928 è condannato dal Tribunale speciale a 15 anni di carcere. Dal 1929 il suo nome è inserito nella categoria I, che raccoglie i sovversivi “pericolosissimi”. Dopo la caduta del governo Mussolini passa, con gli altri anarchici, da Ventotene al campo di concentramento di Renicci d’Anghiari (Ar). Riesce a ritornare a Verona, dove partecipa alla Resistenza entrando nel II Cln cittadino. Nei primi di luglio del 1944 viene catturato dalle Brigate Nere. Torturato, è consegnato alle SS e poi deportato, con gli altri membri del Cln, nei campi di sterminio in Germania. Muore a Dachau nel 1945. |
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