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Giuseppe Pinelli |
Domanda retorica: come mai ci sono dei morti che a ogni ricorrenza vengono ricordati,
commemorati, onorati e altri che bisogna seppellire più volte cercando di occultarne il ricordo? Come per tutte le domande retoriche la risposta è semplice. Potremmo dire banale. Perché certi morti permettono di scrivere la storia secondo le esigenze di chi detiene il potere, altri invece contraddicono le tesi ufficiali, minano le certezze che si vogliono instillare in chi subisce il potere.
Nessuno, quindi, si deve stupire se per Luigi Calabresi, il commissario della questura di Milano ucciso a Milano il 17 maggio 1972, le onorificenze, le commemorazioni sono innumerevoli, mentre per Giuseppe Pinelli, l’anarchico «volato» dal quarto piano della questura di Milano, il silenzio, neppure imbarazzato, è d’obbligo. È una consuetudine. Una consuetudine rotta soltanto da quei pochi che non accettano le verità istituzionali. Le verità delle aule dei tribunali.
Stupirebbe il contrario. Stupirebbe un potere che riconosce i suoi delitti. Stupirebbe la volontà di accusarsi. No! Molto meglio accusare i «sovversivi». Molto meglio piangere finte lacrime per «i servitori dello stato morti nell’assolvimento del loro dovere».
Quindi monumenti, francobolli, medaglie, lapidi e stele per Calabresi. «Distratto silenzio» per Pinelli.
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Milano, piazza Fontana. 12 dicembre 1969.
L’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura sventrato dalla bomba |
Quelli che dicono no
Ma c’è sempre qualche «testa calda» che si ostina a rompere il silenzio. C’è sempre qualcuno che non accetta le verità del potere, c’è sempre qualcuno che grida un’altra verità. Quella che il potere vuole occultare. E, per fortuna, ci sono sempre orecchie capaci di ascoltare.
Qui entriamo nel senso, nel significato, nella portata politica di questa iniziativa editoriale. Non si sta solo ricordando un anarchico quale «diciassettesima vittima di piazza Fontana», no qui si vuole (anche con i pochi mezzi disponibili) mettere un granello di sabbia nell’ingranaggio dell’informazione e della storiografia ufficiale. Quell’informazione che sin dal primo momento ha fabbricato colossali falsi sulla strage del 12 dicembre 1969 (senza dimenticare le bombe del 25 aprile a Milano e quelle sui treni nella notte fra l’8 e il 9 agosto). Qui si vuole nuovamente (e sempre bisognerà farlo) mettere a nudo quella criminalità di chi detiene il potere e non vuole perderlo. Anche a prezzo di strategie del terrore. Anche a prezzo di vite umane.
Strage senza colpevoli
In questa luce la figura di Giuseppe Pinelli travalica la sua dimensione di «onesto militante anarchico», di ferroviere, di infaticabile attivista politico. La sua morte è infatti qualcosa di molto più rilevante che un atto di accusa contro coloro che lo interrogavano in quella piccola stanza al quarto piano di via Fatebenefratelli. Il suo volo mortale ci racconta, ci svela l’anello debole della montatura politico-poliziesca per bloccare la svolta sociale che le lotte studentesche del 1968 e soprattutto quelle operaie del 1969 stavano imprimendo agli equilibri istituzionali dell’Italia.
È infatti la «strana morte» di Pinelli che ha messo in discussione il piano orchestrato da ministri, partiti al potere, servizi segreti e poliziotti. Proprio quella strana morte ha alimentato dubbi. E dai dubbi sono nate inchieste, controinformazione sfociate in atti di accusa contro gli accusatori di regime.
E così la «verità di stato» ha subìto un primo colpo il 30 dicembre 1972 quando con una legge speciale (votata da un parlamento che si sentiva sotto accusa) Pietro Valpreda, accusato di strage, è stato rimesso in libertà. Una verità che poi è stata «riaccomodata» nelle aule dei tribunali con sentenze che vanno dal 1979 al 1987: tutti assolti sia anarchici sia nazifascisti uniti nei processi proprio per occultare e confondere.
Una verità nuovamente occultata in una serie di sentenze dal 2001 al 2005 che lascia la strage di piazza Fontana nuovamente senza colpevoli.
Sono sufficienti questi fatti (meglio, misfatti) per rompere il silenzio su Pinelli?