Scrivo questa lettera ai lettori di «A» da antispecista e con lo stesso spirito che mi animava anni fa quando mi rivolsi agli animalisti. Molti come me si trovano in una posizione di mezzo tra i due movimenti che non avrebbe motivo di esistere se questi si evolvessero fino a percorrere la stessa strada.
Ricordo come fosse ieri la lettera aperta al movimento animalista in cui cercavo di affrontare l’importanza di costruire un’identità tra coloro che si occupano di lenire l’enorme dolore che la società infligge agli animali non umani. Sostenevo allora la necessità di far emergere, da un approccio essenzialmente sentimentale e pietistico, una prospettiva capace di sostenere, su tutti i piani che spettano al discorso, l’opportunità di cambiare uno stato di cose che reifica coloro che non appartengono alla specie umana. La logica opportunistica di formare un movimento unito al di là delle differenze politiche non tiene infatti conto della serietà e dell’assunzione di responsabilità che sta nel ponderare e scegliere una posizione, difenderla e determinarla nei confronti delle idee contrarie.
Perseguire un fine specifico, come la liberazione di tutti gli animali dallo sfruttamento, non può esimersi dal considerare che ciò è possibile, e auspicabile, solo in un ipotetico mondo totalmente liberato. Una battaglia antispecista, che vada oltre l’animalismo a testa alta, deve evidenziare il profondo legame tra discriminazione a discapito degli animali e prevaricazione nell’ambito delle stesse relazioni degli uomini e delle donne.
Il mio intervento di allora nasceva dal desiderio di influenzare un dibattito che si era aperto in modo confuso sul rapporto tra sfruttamento animale e politica e che comprendeva la richiesta da parte di realtà riconducibili all’estrema destra di intervenire sulle tematiche di liberazione animale. In quel periodo si era alzato un certo clamore in seguito al nascere di campagne di pressione che supportavano l’azione diretta e, con esse, la non necessaria subordinazione al concetto di legalità. Tale impostazione presupponeva una critica allo Stato, con le sue leggi, le sue pressioni sulle minoranze dissidenti e i suoi condizionamenti di ordine morale. Sostenevo che, superata una visione protezionistica nei confronti del “povero animale”, tutti insieme dovessimo batterci a favore della diffusione dell’uguaglianza oltre la specie di appartenenza. Molto di più, quindi, di un semplice, seppur dovuto e legittimo, atto di compassione.
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Alfonso e Carlotta |
Meccanismo
perverso
Scrivevo: «La prassi del “tutto fa brodo” è ciò che ci ha lasciati indietro, atterriti dalla paura di essere in pochi, schiacciati dal meccanismo perverso del sistema che vogliamo ribaltare, che ancora ci tiene sotto i piedi con il terrore del pensiero libero, che diventa sconveniente». Ricordo la forza che sentivo quei giorni, l’entusiasmo che mi animava per aver conosciuto la prospettiva anarchica. Quella sensazione la porto ancora dentro, come fosse ieri: un caldo vento rigenerante aveva spazzato via gli imbarazzi e i limiti che prima mi impedivano di percepire la ragionevolezza che era alle radice dei miei disagi nella vita.
Un amico anarchico un giorno mi disse: «O sei anarchico ora o, mio caro, non lo sarai mai». Essere sensibile alle sorti di un animale, di un gatto investito riverso su di una strada quanto di un topo torturato per fini di ricerca medica, assume in me lo stesso senso di autenticità. Dicevo un giorno a un amico: «Se impari a comunicare con un animale scoprirai l’essenza del linguaggio». Esiste una predisposizione primordiale a relazionarci con gli animali, una facoltà insostituibile che deriva da milioni di anni di convivenza. Quando la civiltà non aveva ancora stravolto a proprio piacimento la morfologia terrestre, la nostra specie plasmava la sua vita andando oltre le prerogative intraumane.
Tutto questo è come riaprire una finestra nella stanza in cui hanno confinato i tuoi desideri, una vista su un panorama che proietta un nuovo senso della vita e che parla di libertà. Un punto sul quale soffermarsi per raggiungere nuovi obiettivi. Ricordo cosa mi conquistò del cosiddetto, variegato come nessun altro, movimento anarchico: il pregio di occuparsi della ricerca della libertà facendone la questione fondante in merito a tutte le sue aspettative; sceglierla come un riferimento che, seppur a volte distante dalle contingenze del presente, conferisce lucidità ad un’analisi imprescindibile del futuro. Destreggiarsi nel labirinto delle norme comporta la rinuncia a credere nell’opportunità di proferire un messaggio rivoluzionario, perpetua il proliferare dell’autoritarismo, alimentando il ricorso allo strumento deresponsabilizzante della delega.
Ricordo, però, anche un periodo successivo, in cui andavo scoprendo che la mia tendenza innata ad idealizzare le situazioni si scontrava con la frequentazione di coloro i quali avevano fatto della libertà una bandiera sotto la quale nascondere i propri indugi, debolezze e difficoltà.
Un ennesimo tuffo nella realtà. Esiste una sorta di ideologia che si origina nella sparuta schiera degli oppositori al potere. È l’ideologia della conflittualità assoluta, che fa leva sulla presunta percorribilità del contrasto perenne. Un atteggiamento denso di autoreferenzialità che sfocia in un’asettica presa di posizione contro tutto ciò che non si adegui perfettamente alla purezza delle soluzioni proposte.
È limitato e limitante inseguire un sogno circoscrivibile alla sola umanità. Comunque si realizzasse non sarebbe completo, sarebbe la riconferma di un ennesimo ordine prestabilito. Vigono alcuni luoghi comuni che si ripetono persino all’interno dell’area anarchica; scambiate le abitudini per fondamenti del pensiero, i più arrivano a costruirsi delle scusanti senza mettere mai in discussione la natura delle scelte quotidiane, che per noi anarchici dovrebbero essere scelte politiche. Non intendo sviluppare in questa sede tutte le opinioni personali in merito; voglio solo concentrarmi sulle risposte che ho ricevuto da chi rivendica la sua “libertà” di usare gli animali come fonte di sostentamento.
Confronto
aperto
Considerazioni per fortuna soggettive alla luce del fatto che nessuno ha formulato teorie condivise. Esiste infatti una coincidenza di vedute circa la detenzione, la tortura e l’utilizzo a scopo ludico degli animali: una condanna unanime e decisa. Esiste, purtroppo, una netta, quasi zittita, incompatibilità tra chi pensa che l’animale possa essere trasformato in cibo e chi è vegano, riducendo così l’impatto di nocività sul già compromesso ecosistema ed evitando il coinvolgimento di esseri senzienti nel proprio vestiario e nella propria alimentazione.
È bene sottolineare questa distinzione in seno ad un movimento che crede, come sua caratteristica fondamentale, al confronto aperto. Eppure è frequente ascoltare frasi del tipo: «Una dieta che evita il consumo di carne, latte e uova è frutto dell’alienazione di stampo borghese». Perché invece non chiedersi le ragioni per cui il mercato favorisce con incentivi e sgravi fiscali l’industria della produzione zootecnica e la vendita di derivati animali? Ancora: «Meglio rifornirsi in allevamenti non intensivi, in aziende biologiche, non contaminate da ormoni e farmaci somministrati agli animali». Perché evitare la questione alludendo a prigioni più grandi, a soluzioni che di pulito hanno esclusivamente la facciata pubblicitaria, a un’aspirazione alla propria salute personale tanto miope quanto cinica?
La verità è che siamo tutti figli dello stesso sistema che contemporaneamente osteggiamo. La verità è che spesso lo riproduciamo fino ad allargarne la già folta schiera di fedeli servitori. Le persone che crescono nell’indifferenza sanno chiudere gli occhi al punto che, messe di fronte all’evidenza dei fatti, ricorrono all’ipocrisia, annaspando in improbabili giustificazioni. Confermare lo status quo corrisponde a pagare un’assicurazione per non avere problemi da risolvere. Omologare è diventato un istinto acquisito per la sopravvivenza che si autoalimenta, quasi non fosse indotto con artificio. I singoli percorsi individuali convergono a determinare un quadro complessivo che genera la sottomissione di alcuni individui ad altri. Di conseguenza dobbiamo continuamente interrogarci.
Guardando un animale vedo che la predisposizione all’autodeterminazione, il dedicarsi alla socialità, il sottrarsi alla sofferenza, fisica e psicologica, non sono prerogative esclusive del genere umano. Proviamo ad immaginare per un attimo un’esistenza nella quale ciò in cui crediamo è estendibile a chiunque la vive. Niente di nuovo alla fine, se non la nostra peculiarità che si rinnova.
Willy Lorbo
Rifugi, oasi, santuari
Rifugio, oasi e santuario sono sinonimi utilizzati dal movimento antispecista per definire luoghi dove ci si prende cura degli “animali da reddito”, luoghi dove questi animali sfiniti da un processo produttivo delirante vengono finalmente “riabilitati” a condurre una vita libera e consona alle loro esigenze etologiche. Storicamente, i primi rifugi per animali sono i panjarapole (veri e propri ospedali dove sono accolti animali anziani, malati e privi di protezione) della religione jaina dell’India, religione che si fonda sulla dottrina della ahimsa (nonviolenza). I primi rifugi “laici” nascono invece nel mondo anglosassone, dove il movimento animalista moderno è nato e si è maggiormente sviluppato. Negli ultimi anni, tuttavia, anche l’Italia ha visto il fiorire di questo fenomeno; tra i principali rifugi italiani visitabili, si segnalano: Porcikomodi con le sedi di Arese e Magnago (Mi) e Nave (Bs) (www.vitadacani.org), Valle Vegan nei comuni di Rocca S. Stefano e Bellegra (Rm) (www.vallevegan.org) e l’Oasi Angels a Fraore (Pr) (www.sosangels.it). |
Alcune campagne
Il Coordinamento Chiudere Morini (www.chiuderemorini.net) è nato nell’ottobre 2002 con lo scopo di far cessare l’attività dell’allevamento omonimo per mezzo di proteste indirizzate verso i partner commerciali della ditta. Questo allevamento da 30 anni vende animali a laboratori di sperimentazione e attualmente vi sono rinchiusi più di 350 beagle e centinaia di criceti, topi, conigli, gerbilli, porcellini d’India e ratti. Varie testimonianze provano che le condizioni in cui sono tenuti gli animali sono pessime, con una mortalità dei cani molto superiore alla media.
La Campagna AIP (Attacca l’Industria della Pelliccia – www.campagnaaip.net) nasce nel 2004 con lo scopo di portare alla luce la realtà dell’industria della pelliccia e contribuire alla sua definitiva cessazione. Dopo avere ottenuto un cambiamento di politica aziendale da parte de La Rinascente e di Upim, la campagna si è ora focalizzata sul Gruppo Coin. L’attenzione di AIP è indirizzata anche verso la vendita di inserti di pelliccia, l’ultima tendenza proposta dagli stilisti della moda per ingannare gli acquirenti e rilanciare un prodotto che generalmente viene percepito come crudele.
Coalizione contro la vivisezione nelle Università (C.c.v.U. – www.bastavivisezione.net) opera attraverso un intervento capillare sul territorio al fine di promuovere una presa di coscienza collettiva contro la sperimentazione animale. Esercitazioni nei laboratori e nelle aule adibite all’insegnamento universitario comportano indicibili sofferenze ad un numero incalcolabile di esseri viventi. In Italia la situazione per quanto riguarda la ricerca pubblica è favorevole rispetto ad altre nazioni della Comunità Europea, poiché i 3/4 degli atenei hanno già abbandonato il ricorso agli animali nella didattica ed è vigente una legge che consente l’obiezione di coscienza. La pressione esercitata dai gruppi locali si innesta su tale situazione con l’intento di favorire quei cambiamenti che portino al totale abbandono della sperimentazione animale anche al di fuori del circuito universitario.
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