Rivista Anarchica Online


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

E ti chiamarono matta

Questo è l’anno degli anniversari, delle celebrazioni: il ’68, le 5 giornate, ecc...
La celebrazione m’infastidisce, ma la ritualità mi appassiona: le tradizioni popolari, la musica, la cucina si sono aggrappati alla ritualità per proiettarsi nel tempo. Popoli e genti costretti all’esilio hanno mantenuto vive memorie condivise in un mondo ostile per mezzo della ritualità, preservandoci così un patrimonio culturale ed etico che è una risorsa della vita. Perciò anch’io – come coloro che hanno il vizio della memoria – lotto contro l’oblio.
È ancora vicino quel 13 maggio trentesimo anniversario della “legge 180” detta impropriamente “legge Basaglia”. Nessuna legge è perfetta (anzi, la maggior parte sono abiette) ma c’è stato un tempo in questo paese – oggi precipitato nel suo medioevo tecnologico – in cui movimenti politici e culturali dal basso miravano alla liberazione dalle catene, dalle sbarre, dai poteri istituzionali, dal controllo poliziesco, dal controllo medico. Parlare bene di una “legge” non è certo il ruolo di un anarchico, ma dirci che, se oggi c’è chi vuole costruire nuovi lager, c’è stato un tempo in cui una massa s’è mossa con generosità per abbatterne, mi pare giusto. Non era facile: mettersi di fronte alla follia faceva e fa paura a tutti. In fondo questo non è sempre stato un paese di merda, bisogna ripeterselo ogni tanto, come un mantra della speranza. Come reazione ai tempi che stiamo vivendo mi pare importante parlarne... anzi, cantarne!

“E ti chiamaron matta” (1972) scritto e cantato da Gianni Nebbiosi, prodotto e suonato da Giovanna Marini per i gloriosi Dischi del Sole, è un disco urgente, 35 anni fa come oggi, perché testimonia l’interesse della canzone nei confronti di quel grande movimento di liberazione. Alla fine degli anni ’60 Gianni era uno studente di medicina che aspirava a occuparsi del disagio mentale. Un forte esaurimento nervoso lo portò qualche volta a vedere quei luoghi dove sarebbe tornato come “professionista”. L’indignazione lo spinse a comporre 6 canzoni, belle musicalmente e poeticamente, importanti come un diario della repressione mentale.
Oggi mi scrive: “Quando ci si occupa della sofferenza psichica è importante condividerla, capire i significati affettivi e i contesti della vita che l’hanno fatta nascere. In fondo le persone che soffrono non cercano altro: vogliono parlarci (talvolta confusamente, talvolta con illuminante chiarezza) di quello che le fa soffrire, e vogliono che li comprendiamo per potere comprendersi. Purtroppo succedeva e succede troppo spesso che tra quel dolore e noi che ce ne occupiamo si frappongono un sacco di cose: la nostra “competenza” professionale che ci fa giudicare, diagnosticare, definire troppo in fretta e con poca empatia il dolore mentale dell’altro; il ruolo di chi cura, che spesso “protegge” la propria autenticità e fragilità dietro una presunta neutralità “scientifica”; le regole di istituzioni che dovrebbero curare ma che spesso sono preoccupate solo di salvare se stesse. Caro Alessio, le cose in questi quasi quarant’anni non sono tanto cambiate, nonostante le gloriose battaglie di psichiatria democratica e l’impegno di tanti operatori.”
Già, oggi cosa è rimasto di quell’esperienza?
L’ironia di molti, l’ignoranza e il disprezzo dei più. Peggio: si torna a parlare dell’utilità dell’elettroshock, della diffusione sempre più capillare degli psicofarmaci, per ogni diverso, per anziani depressi e bambini troppo vivaci.
Ma quell’esperienza è ancora viva nell’orgoglio e nella speranza. Nella grata memoria. Nell’immagine del cancello schiantato, del muro abbattuto, nel ritorno al mondo dei vivi di un mondo nato libero che aspira a vivere libero.


Ci resta anche quel piccolo grande disco “E ti chiamaron matta” un EP (ovvero un 33 giri di piccolo formato della durata complessiva di circa 20 minuti) pubblicato in una serie sperimentale dei Dischi del Sole, presto sparito dalla circolazione, mai più ristampato. Rimosso, come un ricordo ingombrante dalla musica leggera.
Al tavolone di legno che troneggia nella cucina della casa udinese di Valter Colle, il produttore dei nostri CD, io e il mio scudiero Rocco abbiamo deciso di re-incidere integralmente quelle canzoni, e portarle coi nostri spettacoli anche nei vecchi luoghi di cura. Al proposito vedete qualche foto scattata nel reparto “donne agitate” dell’ex manicomio di Udine, per le quali ringraziamo il commosso entusiasmo del dottor Mario Novello e del fotografo Alberto di Giusto.
Dall’Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia, proprio nel 1968, Basaglia scriveva: “La realtà manicomiale è stata superata e non si sa quale potrà essere il passo successivo. Come non risalire dall’escluso all’escludente? O si è complici, o si agisce e si distrugge.”.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it

Rocco Marchi e Alessio Lega

 

Avanti pop.
In viaggio coi Têtes de Bois sulle tracce del “lavoratore ignoto”

Avanti pop è un progetto che ci richiama – musicisti e pubblico – alla maturità dell’arte: avanti artisti, ancora uno sforzo per diventare uomini!
I Têtes de Bois stanno facendo questo percorso: hanno armato un camioncino di strumenti musicali e strumenti tecnici e girano da due anni per le realtà noto, ignote, emarginate d’Italia, per raccontare e farsi raccontare storie di lavoro. Durante i loro spettacoli i lavoratori diventano pubblico, il pubblico diventa cantastorie. All’origine di questo progetto vi era stato un CD, una bella rivisitazione di canzoni del lavoro, scelte fra le meno scontate ma non le meno radicali: “La costruzione” di Chico Buarque, “La leva” di Pietrangeli. Il CD è stato molto apprezzato (Targa Tenco 2007), ma resta come una premessa al viaggio intrapreso dai Têtes.
Da poco è uscito un libro+DVD – curato della musicologa Timisoara Pinto – che è un frammento di specchio, parziale ma sostanzialmente fedele, di questo gesto che ha avuto la rara intuizione di unire mezzi e fini nella pratica della libertà e della dignità dei lavoratori senza mitologie o celebrazioni.

“Mai celebrazione! – mi dice Andrea Satta, il cantante e l’anima più inquieta dei Têtes – Nessun anniversario, nessun compleanno, nessuna festa particolare. È stato un viaggio difficile da realizzare, ma premiato dalla soddisfazione di aver incontrato gente che va lavorare tutte le mattine… che spera d’andare a lavorare tutte le mattine, che va a lavorare sperando di tornare tutte le sere a casa, e che ci racconta quello che fa, con i rischi che corre, colle speranza che spera. E noi a fare i testimoni di questa frammentazione: si capisce che sono in molti ad auspicare una nuova aggregazione, trovarsi assieme su una battaglia che unisca.”.

Da Monfalcone alle Puglie, alle basse veronesi

Siamo appoggiati a chiacchierare su una scala di ferro, in un budello di passaggio fra i padiglioni dell’ex officina Breda, un lembo di terra di nessuno fra Milano e Sesto San Giovanni. Zone operaie. Oggi questi spazi dismessi sono diventati per metà un teatro, per metà una specie di disco-pub.
Nel Pub ho incontrato un’altra vecchia conoscenza, il piratesco Jorge Vacca, già editore di fumetti fortemente provocatorii e gestore di uno strano posto sui Navigli noto come “La Cueva”, qui fa il DJ di tango. Nel teatro invece è appena andata in scena una tappa di Avanti Pop, fra gli operai di Sesto, che hanno passato la vita a respirare amianto. La situazione è quantomeno surreale: operai e musicsti (affamati dopo due ore di spettacolo) s’incrociano alle toilettes con sudatissime ragazze fasciate nei vestiti da tango.

Avanti Pop ha questo ruolo quasi fisico: trasportare notizie, mettere in connessione. Far capire a quelli della Locride che la realtà che vivono non è lontana da quella che si vive a Cinisi da Peppino Impastato. Quello che succede a Monfalcone succede anche alla Breda. Raccontare quello che succede nel tavoliere delle Puglie nelle basse veronesi. Nel libro sono spesso unite battaglie del nord e del sud con tematiche che si mischiano molto.”

Viene però tristemente da pensare che queste sirene d’allarme suonano a vuoto, se due anni di passaggi e passaggi di tempo e notizie vengono coronati dal pauroso incidente della ThyssenKrupp, c’è di che rimanerne sconfortati.
“Peggio, proprio nel momento in cui chiudevamo il libro, arriva un morto alla Fiat di Melfi, dov’era cominciato due anni fa il nostro viaggio, e dove avevamo scoperto che su 5.200 operai non c’è un medico durante il turno di notte, cose indescrivibili!
Ma tanti, da Paolo Rossi a Moni Ovadia, vengono con noi a tentare di descriverle, non è un viaggio che facciamo da soli. Ci seguiamo con gli altri artisti, ci raggiungiamo fuori dai percorsi abituali, ma in dimensioni sempre nuove per tutti, perché ogni serata di Avanti Pop è irripetibile nei nomi, nei testi, nei contesti. Pensa: qui siamo nell’ex officina Breda, con gli operai della Breda, raccontando insieme a loro le loro storie.
Abbiamo documentato tutto questo, l’amianto che ancora c’è e si sfilaccia ogni giorno di più. Ma non dimenticando battaglie anche lontane: abbiamo, anche questa sera, parlato di Passannante, perché è una coscienza sporca che questo paese ha, non è una cosa passata, perché i Savoia di nuovo qua stanno, e s’azzardano pure a chiedere soldi! C’è un’Italia che deve fare i conti con un passato che non è morto, perché, il giorno in cui tutto questo sdoganamento a destra sarà definitivo, ci troveremo di fronte a chi dirà che l’Inghilterra e la Spagna in fondo sono due moderne monarchie e anche l’Italia potrebbe esserlo... ed è allora che la memoria di Passannante ci sarà necessaria. Perciò noi la portiamo alta, unita a storie che parrebbero molto più contemporanee.”.

L'ultimo cd dei Têtes de Bois

 

Atteggiamento ironico e straniante

Questo libro/DVD è uno strano progetto: esce a vostro nome, ma è dedicato alle storie incontrate per strada, più che ai Têtes de Bois come gruppo di musicisti.

“Tutto questo non rientra certo nei format produttivi ordinari. Però non si può venire qui a Sesto senza leggere le parole degli operai. Non si può non ospitare gli artisti che hanno dedicato tempo a storie, cosiddette marginali, di repressione. Altrimenti che radar abbiamo innescato? Con chi lo facciamo lo spettacolo? Solo con noi stessi, che diciamo di sapere le cose? Noi non le sapevamo tutte queste cose, le abbiamo raccolte e trasportate e man mano le abbiamo imparate.”

Avanti Pop era, già come disco, sostanzialmente diverso nel proporre il canto di lotta. C’è tanto per cominciare il vostro atteggiamento, ironico e straniante.
“Bisogna stare molto attenti ad evitare l’altare rock del sacrificio, su cui tutto viene combusto... e poi chi s’è visto s’è visto! C’è il bisogno in tutti noi di sentirsi recuperati all’interno di una dimensione di benessere: è umano... ma noi non vogliamo fare questo. Vogliamo sollevare il problema, non aprirlo e chiuderlo nella stessa serata. Noi non abbiamo la canzone che esorcizza il problema. Noi cantiamo “Tu non dici mai niente” di Ferré, che secondo me è una speranza di rovesciare tutto quanto il mondo. Cantiamo “La leva” di Pietrangeli, che è una canzone d’angoscia, cantiamo la nostra “Vendo”, che ironizza sulla cessione di quelle parti del proprio corpo che sono organi doppi: quando uno arriva a vendersi un pezzo del proprio corpo vuol dire che è arrivato al più estremo dei compromessi!
Non abbiamo però nemmeno una canzone popolare da piazza. La gente che viene a vederci deve poi portarsi dietro delle domande appese. Ci piace pensare che chi va a casa dopo un nostro spettacolo apre internet e si cerca la parola “amianto”, perché vuole saperne di più. Questo libro e pieno di strumenti d’indagine. È un libro giallo – a suo modo – pieno di colpevoli e di vittime. La soluzione c’è, ma non la forniamo noi…”

La soluzione esiste. Esistono dei cantanti che non perdono tempo nella contemplazione delle proprie medaglie. Esiste questo disco che ha aperto le danze e questo libro che testimonia un grosso pezzo di strada fatto, questo DVD che te la fa vedere.
“Mi piacerebbe che si vedesse questo documentario in America, in Germania, in Finlandia: ecco una band italiana ha visto queste cose nel suo paese...
È una fotografia che noi lasciamo agli altri per dire, noi ci siamo fermati a guardare quante schiene nere c’erano, curve fra i filari di pomodori nei campi fra Candela e Grottaminarda, fra Cerignola e Foggia. Ci siamo informati su quanto prendevano, su chi li comandava. Siamo andati a vedere dove vivevano: senza acqua, senza luce, senza pavimento, qui nell’Italia dei cellulari, delle paraboliche, degli schermi al plasma, c’è gente che caca dove mangia. Nel cimitero ci sono tombe dove c’è scritto “ignoto”! Non il milite ignoto... proprio l’ignoto: un povero disgraziato che non si sa neanche di che terra sia.”.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it