Mentre lavoravo a questo libro, Luce Fabbri concludeva la biografia che aveva scritto su suo padre, il militante anarchico Luigi Fabbri, affermando che quel lavoro le faceva vivere «una rinnovata comunione» con lui e che si trattava di «una biografia aperta verso il futuro». Credo che per alcuni versi sia possibile affermare la stessa cosa anche a proposito della biografia che vi propongo. Conoscere la vita di Luce partendo dai suoi ricordi, raccontati con emozione, nella sua accogliente biblioteca di via Juan Jacobo Rousseau, nel quartiere operaio di Unión, a Montevideo,mi ha permesso di vivere una intensa esperienza di incontro con l’anarchismo.
La biografia di questa anarchica italiana, che all’inizio della stesura aveva 92 anni, non ha la pretesa di raccontare le molte storie che fanno parte di una vita, ma aspira a comporla come un presente che si spinge fino al momento attuale e che si offre per il futuro; come un modo per salvare, «nel momento del pericolo», come avvertiva Walter Benjamin, le ricche e significative immagini ed esperienze del passato, minacciate dall’oblio. Si tratta di preservare la tradizione, almeno la tradizione che si vuole nel presente, proteggendo i tesori che devono essere scrupolosamente custoditi per evitare che si perdano in mezzo all’oceano di molte storie, individuali e collettive. Ma si tratta anche di farli conoscere, affinché compongano attivamente il repertorio dei riferimenti collettivi e producano effetti negli innumerevoli campi dell’attività umana. Ho scelto di parlare della militante e dell’intellettuale libertaria Luce Fabbri e di far conoscere i momenti della sua vita e della sua produzione intellettuale, partendo non solo dai suoi ricordi, ma anche dai numerosi testi, libri, opuscoli, articoli di giornali e riviste, interviste e recensioni che Luce ha pubblicato.
Intendo riscattare innanzi tutto i “frammenti della memoria” di una donna a mio avviso molto speciale, che ha avuto esperienze che appaiono decisamente diverse rispetto a quelle della sua generazione: una partecipazione alla vita pubblica mai a discapito di una forte presenza nella sfera della vita privata; in altre parole, senza rinunciare a sposarsi e a essere una madre protettiva, una nonna affettuosa e, oggi, una bisnonna orgogliosa; un’esperienza di solidarietà e di costruzione di pratiche libertarie; un’esperienza di difesa degli ideali e dei valori libertari, in un mondo che è passato e continua a passare attraverso drammatici momenti di violenza totalitaria; un’esperienza di conservazione della memoria e della storia dell’anarchismo di fronte alla minacciosa imposizione del silenzio e dell’esclusione. Un’esperienza, infine, che le ha garantito un punto d’osservazione diverso per percepire il mondo, per interrogarsi su di esso e per aprire nuove possibili strade.
Come ricorda Michelle Perrot , le donne hanno un compito particolare, sono «custodi della memoria», grazie alla loro grande capacità di conservare gli oggetti personali, di preservare e trasmettere le storie vissute, individuali e collettive, del gruppo, della famiglia, della regione. E, potremmo aggiungere, grazie alla loro enorme capacità di tessere reti e relazioni.
Nuove dimensioni
Cerco di presentare una lettura femminile delle esperienze che costituiscono la storia di questo pensiero e di questo movimento sociale tra Italia, Francia, Svizzera e America Latina; la sua costruzione nella quotidianità, con uno sguardo sempre rivolto agli avvenimenti politici, sociali e culturali che hanno scosso il mondo. La gran parte delle storie di cui disponiamo sul movimento anarchico, soprattutto in Brasile e in America Latina, sono raccontate alla luce di esperienze maschili, e questo assume un particolare significato se ricordiamo che, fino a poco tempo fa, le lotte politiche, gli scioperi e i movimenti sociali coinvolgevano molto più gli uomini delle donne. Eppure, nonostante tutto, in questo passato abbastanza singolare, si riesce a scorgere l’impegno e la partecipazione delle donne; questo ci permette di far luce su nuove dimensioni della vita pubblica e privata e di suscitare nuovi temi su cui riflettere. E soprattutto nel nostro caso, trattandosi di una libera pensatrice che ha prodotto molto nel campo delle idee.
Il mio progetto è di raccontare, per quanto possibile, una storia dell’anarchismo al femminile, tenendo come punto d’osservazione la memoria di una “militante storica”, la sua lettura personale e la sua costruzione del passato. Credo che le donne contribuiscano con un apporto specifico alla edificazione della cultura e del linguaggio, apporto marcato dalle differenze di “genere” sperimentate durante la loro vita a partire da specifici aspetti sociali e culturali, e non determinate dalle differenze biologiche di sesso. Come ha affermato Isabelle Bertaux– Wiame, «qui la cosa più determinante per la struttura della memoria sul sociale è il luogo sociale e non una differenza biologica, che produrrebbe, “per natura”, forme di memoria specifiche per gli uomini e per le donne»3. Una volta che gli specifici apporti sociali e culturali hanno portato le donne a esercitare pratiche sociali diverse da quelle degli uomini, esse costruiscono una memoria e una relazione con la vita molto differenziate. E anche se le differenze di genere non hanno nulla a che vedere con le differenziazioni che segnano i processi mnemonici di donne e uomini, si osserva che ogni genere si organizza e si inserisce a suo modo nella società, ridisegnando e dando un nuovo significato al suo stesso passato, configurando il proprio discorso e costruendo la propria immagine. Lavorare con il discorso di una donna, e di una donna con una continua attività politica, offre, a mio parere, un punto di vista privilegiato nella lettura dell’anarchismo, sia per la dimensione antropologica dello sguardo femminile, sempre attento ai dettagli, ai microcosmi, ai piccoli avvenimenti quotidiani, tratti anche dalla sfera pubblica, sia per la sua dimensione psicologica, aperta quindi alle espressioni degli affetti e dei desideri. (...)
Margareth Rago
(dalla prefazione al libro)
Questa piccola grande
donna italo-uruguaiana
di Margareth Rago
“Nei momenti più intimi, quando si raccoglieva nella sua biblioteca, quando si lasciava invadere dai sentimenti, la malinconia dell’Italia, terra madre, l’avvolgeva completamente.”
Nella prefazione all’edizione italiana del suo libro, la curatrice ricorda la militante e l’amica.
Presentare Luce Fabbri al pubblico italiano potrebbe apparire come un atto di estrema audacia, ma allo stesso tempo rappresenta per me un gesto di profonda amicizia.
Audacia: evidentemente in molti conoscono già questa nota anarchica, nata nel 1908 a Roma, perseguitata dal fascismo ed esiliata in Uruguay verso la fine degli anni Venti insieme al padre, il militante libertario Luigi Fabbri, amico, discepolo e traduttore di Errico Malatesta. Molti libri e articoli di questa docente universitaria, specializzata in Letteratura Italiana, sono stati pubblicati in Italia.
Ma è anche interessante ricordare che la giovane Luce frequentò le aule dell’Università di Bologna, dove fu allieva del filosofo socialista Rodolfo Mondolfo, in quei difficili anni di repressione politica, di persecuzione poliziesca e di violenza totalitaria. In America del Sud, nell’altra punta del continente, prese immediatamente parte alla resistenza antifascista e contro le dittature latino-americane degli anni Sessanta, sempre fedele ai suoi principi libertari e agli ideali rivoluzionari.
Luce scrisse molti libri e innumerevoli articoli sulla letteratura, la storia, l’istruzione e la politica, sorprendendo, parola dopo parola, per il coraggio delle questioni affrontate, per la sua profonda integrità, per la sua etica fermezza e per l’instancabile difesa della libertà. Pubblicò in riviste uruguaiane e argentine di grande diffusione, così come in giornali anarchici sudamericani, italiani e francesi, riflettendo sulle più svariate tematiche.
Polemizzò con diversi gruppi politici, non solo all’interno dell’anarchismo, denunciando gli abusi di potere, le pratiche repressive dello Stato, o le manovre autoritarie in qualsiasi luogo si fossero manifestate, vicino o lontano da lei. E scrisse poesia. Ma qui il suo cuore era rivolto alla sua terra natale, ricordando piccoli particolari delle città di Bologna, Roma o Fabriano.
Per questo, penso al secondo termine usato nella mia presentazione: la grande amicizia che mi unì a Luce Fabbri e il gesto di amicizia che rappresenta questa traduzione in lingua italiana, compiuta scrupolosamente da Arianna Fiore. Nei momenti più intimi, quando si raccoglieva nella sua biblioteca, quando si lasciava invadere dai sentimenti, la malinconia dell’Italia, terra madre, l’avvolgeva completamente.
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Famiglia Fabbri, alla vigilia della separazione, nel 1926. Da sinistra a destra: Bianca, Vero, Luce, Luigi |
Sarebbe forse il caso di dire che Luce era italo-uruguaiana, dato che in Uruguay trascorse settant’anni della sua lunga vita; eppure, allo stesso tempo, dubito sull’uso di questo termine tanto recente. Purtroppo non ho avuto la possibilità di chiederle come lei si definisse a questo proposito, ma ricordo benissimo i ritratti dell’Italia appesi ai muri della sua casa. Ma è nella sua poesia che cerco una possibile risposta.
Parlando di Bologna, “della mia Bologna”, è tassativa: “città del sogno quella ch’amo fra tutte le città”, tema della poesia “L’Esilio”.
In “Neve di Primavera”, scritta nel 1929, confrontando le città di Bologna e Montevideo, dichiara apertamente il suo grande amore per la prima, affermando che se le rose che lì trova sono capaci di far sognare, il suo cuore si trova però sotto la neve di Bologna, capace, nonostante la temperatura, di far germogliare i semi.
“(...) E ben diversa sotto il grigio cielo,
Bologna, la tua neve!
Quando si guarda il gran campo di gelo,
Quando quel soffio rigido si beve,
Un austero desio d’opre severe,
Un sogno di conquiste e ribellioni,
Un’ansia di fecondo sacrificio,
Agita il cuor d’orgoglio, empie i polmoni.
***
Montevideo, son belle le tue rose
che cadendo m’invitano a sognare
immagini imprecise e vaporose,
forme vane d’un van fantasticare.
Ma il mio cuore restò sotto la neve
gelida, che fa i semi germogliare.”
In ogni modo, far conoscere nel suo paese questa importante pensatrice, critica letteraria e attivista anarchica mi permette forse di realizzare un sogno nascosto, che sento risuonare nei suoi testi: quello di tornare nel luogo d’origine ed essere accolta, calorosamente accolta, dai suoi conterranei.
Sono ormai passati alcuni decenni da quando la storia sociale ha recuperato altri passati e ha sottratto al silenzio figure e momenti che sarebbero stati dimenticati nelle narrative costruite dal discorso della storia ufficiale, sempre monocolore e maschile. Mi auguro che i lettori e le lettrici possano scoprire, con questo libro, i tesori e le belle sorprese che la tradizione ci ha lasciato, rafforzando la nostra speranza di giustizia sociale, solidarietà e libertà per ognuno di noi.
Margareth Rago
San Paolo, 15 agosto 2007
Il viaggio verso
l’America Latina
di Margareth Rago
Un capitolo del libro è dedicato alla traversata oceanica. Eccolo.
Il viaggio non fu né veloce né tanto meno facile. Privi di documenti regolari, Luigi, Bianca e Luce si videro obbligati ad accettare le condizioni che i gruppi anarchici erano riusciti a concordare: «Non avevamo la documentazione necessaria, io non avevo altro che un certificato di nascita, nessuno di noi aveva il passaporto. Potevamo andare in Uruguay, il paese dalle frontiere aperte, chiunque poteva andarci; d’altra parte, gli amici di qua, i compagni, erano riusciti a procurarci un documento di invito da parte dell’Ufficio immigrazione e con questo avevamo potuto imbarcarci, non a bordo di un grande transatlantico,ma su di una nave da carico...».
I compagni Moscallegra e Antonio Destro avevano predisposto l’arrivo di altri esiliati politici italiani. Con i necessari documenti di immigrazione, anche se non legali, fecero trovare a Luigi una compagnia della marina mercantile, la Loyd Royal Belga, che accettò di accoglierli a bordo. Il viaggio, però, non fu facile, anche per la precarietà dell’imbarcazione e per le solite difficoltà dei viaggi marittimi di quel periodo.
Come ricordava Luce: «Erano piccole navi, che sembrava si perdessero con una certa frequenza in mezzo all’Atlantico, per lo meno così dicevano gli ufficiali di bordo. L’anno precedente se n’era persa una a Santa Caterina, c’era molto vento: le navi, tanto nella Mancia, quanto nel Golfo di Santa Caterina, che sono punti pericolosi, venivano spazzate dall’acqua, l’acqua passava da poppa a prua e le inondava. Con tutto quello che ci avevano detto gli ufficiali, passammo ventisette giorni di traversata senza toccare nessun porto, era il 1929... Era una nave da carico, non aveva un servizio di refrigerazione a bordo,mi intossicai con il cibo. Ma alla fine riuscimmo ad arrivare!».
La nave “Indier” aveva dei carichi a bordo e in terza classe c’erano delle prostitute polacche, spedite, tramite la cosiddetta “tratta delle schiave bianche”, ai bordelli di Buenos Aires, Rosario, Rio de Janeiro, San Paolo e Porto Alegre, dove quelle ragazze erano convinte di poter fare fortuna. «Viaggiavamo in una cabina di poppa. Ce n’erano due e costituivano una “terza speciale”. Nella vera terza, in una sala comune che si trovava nel ventre della nave, c’era un sacco di donne polacche. Non potevamo stabilire nessun contatto con loro, erano accompagnate da una donna, una francese che, lei sì, viaggiava in cabina, si chiamava Madame La Baronne, era ridicolo!», ricordava Luce, commentando il soprannome della maîtresse francese.
La “tratta delle bianche” destò l’attenzione di molti anarchici, come Emma Goldman e Maria Lacerda de Moura, di socialisti, come la dottoressa uruguaiana Paulina Luisi, considerata una delle maggiori autorità in questo campo, oltre che dimedici, giuristi e filantropi preoccupati per la moralità pubblica e per la condizione sociale di quelle donne. Molte giovani, povere e ignoranti, venivano ingannate dagli agenti delle bande responsabili del rifornimento per i bordelli sudamericani. Altre invece vi andavano con piena cognizione di causa, spinte dal desiderio di un veloce arricchimento in America. In generale, venivano prese clandestinamente da poveri villaggi dei paesi dell’Europa Orientale da gruppi di ruffiani anche loro stranieri, che sapevano bene come eludere la polizia e i filantropi impegnati a far cessare quella tratta nei porti. Sole, senza risorse finanziarie, senza parlare la lingua del posto e senza contatti personali, erano alla mercé dei gruppi che controllavano questo traffico.
Paulina Luisi arrivò a creare nel 1916 una “Commissione contro la tratta delle donne” fondando il “Consiglio delle Donne”, ma l’esperienza durò appena tre anni. Insieme ad altre associazioni filantropiche esistenti, tanto in Uruguay quanto in Argentina, cercava di proteggere le donne vittime delle bande di protettori di prostitute, come la nota Zwi Migdal, società clandestina con sede a Buenos Aires e con ramificazioni in vari paesi dell’America Latina e dell’Europa Orientale.
Emarginato il primo per le sue scelte politiche, condannato il secondo in nome della pubblica moralità, entrambi i gruppi si trovavano all’improvviso nella identica condizione di segregazione, di esclusione sociale e di transito verso un mondo nuovo e nuove esperienze di vita. A bordo della nave, molti sogni e molti occhi rivolti al futuro ridimensionavano le difficoltà e allietavano così le loro insicurezze. Il 18 maggio 1929 navigano, sorridenti, in acque uruguaiane.
Margareth Rago è docente del Dipartimento di Storia dell’Università Statale di Campinas (Unicamp), San Paolo, in Brasile. Ha pubblicato, tra altri, Do cabaré ao lar. A utopia da cidade disciplinar (San Paolo; Paz e Terra, 1985); Anarquismo e feminismo no Brasil (Achiamé, 1999); Narrar o passado, repensar a História (con Renato Gimenes, Unicamp, 2000), oltre a numerosi articoli sulla sessualità e il genere, pubblicati sia in pubblicazioni accademiche sia in periodici libertari.