Cara Marina, eccomi a descriverti un nuovo scenario, lontano dai tempi che abbiamo vissuto insieme nei quali, se ci si sedeva in terra a mangiare un panino, nessuno chiamava il 113. Invece ora...
Immagina una mano abbronzata, robusta, provvista di un certo qual fascino gitano, il cui polso sia ornato da una allegoria del bracciale, coi suoi ori ambrati. A quella mano, in una mattina assolata di un mercato rionale, abbiamo la tentazione di dare la nostra; in fondo chi ci sta guardando con occhi neri ammiccanti, ci sta dicendo che può leggerci il futuro e predire la buona sorte (in quel momento una delle piccole sconosciute monete di uno dei bracciali scintilla di un riflesso rossastro) e sembra provvista di tutto quel rimescolamento di colori e forme caotiche tali da riuscire a dar luogo ad una coincidenza chiamata veggenza... chissà!
Possiede questa donna più doti di Otelma, si tratterà solo di esperienza, lungimiranza? In fondo può immaginare chi siamo dai nostri tratti, dal nostro abbigliamento, ... ma sembra disposta a darci anche dei numeri del lotto. E cos’è il lotto? forse qualcosa di estraneo alla nostra cultura? Ma se pure i politici ormai ci fanno capire se sarà la nostra possibile futura unica forma di sostentamento! Stiamo per affidarci quindi alla zingara, fiduciose e memori della canzone di Iva Zanicchi per sapere che destino (e che terno) ci detterà,... anzi quasi animate da uno spirito giocoso, disposte anche a fiutare un forte odore di tabacco (questo è un cliché) che certo non è nostro, curiose, quando... ecco! Un mano un po’ tozza, pelosa, ci stronca via la mano della zingara per poggiarne le dita su di un tampone blu, e disegnare coi polpastrelli un semicerchio che ben poco concede alla divinazione ma vuole solo certezze!
Lei ora, la signora di origini Rom, è identificabile tramite impronte digitali: il proprietario della mano timbratrice, un tipo dalle basette lunghe e dalla faccia equivoca che usa ben altri riguardi nei confronti dei più noti delinquenti del Paese (quelli di cui Pasolini diceva di sapere i nomi, riconoscibili anche senza impronte digitali), potrà sapere su quale corpo del reato si poggeranno quei polpastrelli. E sembra che l’unica cosa che interessi sia questa, non il sapere di che reati si parla ma collegare ciascuna mano ad una persona.
Ecco che ci ritroviamo con le mani in mano: il gioco che volevamo fare è finito, se vogliamo giocare alla predizione possiamo affidarci a qualche oroscopo televisivo, non possiamo sederci in strada con qualcuno che porta più gonne in un giorno di quelle che noi abbiamo mai portato in un anno. Anche se non fa nulla per danneggiarci, e non ha messo la sua mano libera nella nostra borsa mentre tentava di guadagnarsi la sua modesta parcella... non dobbiamo più fidarci, ci dicono.
Impronte zingare
Per te, che non stai più qui da dieci anni, questo sarà stato uno scenario prevedibile, da sempre la globalizzazione prefigurava la fine del pacifico convivere in ogni città, in ogni angolo ancora un po’ umanizzato. Eppure questo ingresso in scena delle “impronte zingare” ci ha tanto intristiti: forse perché canticchiamo “Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va, catene non ha, il cuore è uno zingaro e va” cantata da Nicola di Bari e Nada, o Khorakhané di Fabrizio de André, oppure Zingari di Jannacci, Ho visto anche degli zingari felici di Claudio Lolli, e riflettiamo sulle precipitose intenzioni di Umberto Tozzi “Zingaro voglio vivere come te/andare dove mi pare non come me/e quando trovi uno spiazzo nella città/montare la giostra e il disco di un anno fa”.
Sì, il cuore è zingaro, non batte su ordinazione, fugge via quando vuole, vaga nomade tra gli affetti, veste di rosso e di blu. Perché negarlo? La nostra infanzia è zingara, lo sono i modi che possediamo e ricordano l’origine della nostra cultura, di tutte le culture, anche le più sedentarie: spostarsi tra i campi, cambiare dimora a seconda delle necessità, vivere alla giornata. Perché trovare oscena la baracca di uno zingaro quando il nostro Totò, in uno dei suoi film più belli, ci mostra nei dettagli la sua baracca, e se ne va poi a dormire col suo cane, prestando la sua cadente dimora all’amata?
È lui l’uomo pieno di umanità, e non il caporale, che sentiamo di essere... oppure non ce siamo accorti ma mentre lo applaudivamo,e piangevamo, una moltitudine di altri italiani lo disprezzava, non lo trovava divertente, proprio perché le sue storie raccontano delle nostre origini di ferraioli ambulanti, mendicanti, saltimbanchi, cantastorie? Quasi zingari. E quella guardia panciuta, capace di perdere il ladro in osteria, quel Fabrizi che impersonava la legge sì ma all’amatriciana, la disciplina sì ma con un bicchier di vino, era ben distante dai fascisti incravattati e stitici che oggi manovrano dietro le quinte squadroni di polizia che sembrano usciti da un brutto film di fantapolitica. Falangi moderne che certo non si dirigono verso chi ci ruba la salute e il futuro, ma verso la gente nelle strade.
Così abbiamo perduto il violino tzigano, cioè parte della nostra cultura, e la Zingarella de il Trovatore. A quei tempi, a metà Ottocento, la zingara nell’opera di Verdi rapiva sì per vendetta un fanciullo, ma solo perché l’innocente madre, vittima di superstizioni e cattiveria, era stata bruciata sul rogo! Nel dramma spagnolo, riadattato nella popolare opera verdiana, il Vecchio Zingaro cantava: “Compagni, avanza il giorno: a procacciarci un pan, su, su!...scendiamo per le propinque ville” gli altri rispondevano “Andiamo” e, dice la didascalia, gli zingari allora “Ripongono sollecitamente nel sacco i loro arnesi” ...ma non per scassinare porte blindate bensì per esercitare il mestiere di fabbri! (1)
Scrive Massimo Recalcati, nel saggio “Paranoia e ambivalenza”: “...la rigidità della personalità paranoica – come del resto quella di certi gruppi sociali o di certe istituzioni – non riflette alcuna divisione, quanto piuttosto uno stato latente di frammentazione che proprio questa rigidità egoica deve poter compensare il più efficacemente possibile. Per questa ragione la passione dell’odio per l’Altro occupa un posto centrale nella paranoia tanto quanto la sua idealizzazione infatuata”. (2)
Si potrebbe pensare quindi che l’idealizzazione romantica e scapestrata dello zingaro sia sempre stata una faccia dello stesso fenomeno. Invece molte cose sono cambiate: il tentativo di rappresentare nell’immaginario una figura scomoda ma reale ci ha consentito di riflettere ironicamente anche su noi stessi, ed ora i tempi dell’ironia sono finiti. Ricordiamo la descrizione della vita nell’accampamento degli zingari del più fantastico personaggio di Virginia Woolf, Orlando. Uomo, e poi donna, di alto lignaggio, Orlando vive per un po’ di tempo sulle colline della Persia accolta come fuggitiva da un gruppo di zingari pastori, ai quali col tempo inizia a raccontare della sua vita di gentiluomo-gentildonna inglese ma “agli occhi di Rustum e degli altri zingari, una discendenza di quattro o cinque secoli soltanto appariva una quisquilia”, “E poi – Rustum era troppo cortese per parlarne apertamente – era chiaro che per uno zingaro non c’era ambizione più volgare di quella di posseder delle stanze a centinaia ...quando la terra intera è nostra”.
Ora l’attività dei popoli è declinata per necessità verso la predazione di qualsiasi risorsa naturale, spazio, oggetto possa sembrare accessibile. Non solo nei macrocosmi dei colonialismi ma anche nei microcosmi delle comunità locali. Così non solo la nostra cultura di è trasformata e si è privata dei ricordi delle nostre origini, tutte le altre culture globalizzate si sono riadattate ed hanno prodotto masse di persone che vivono spesso senza potersi integrare con dignità con le terre alle quali approdano. Debbono scappare, rifugiarsi sugli argini dei fiumi, in mezzo alle discariche, in luoghi indegni e inadatti alla vita, bruciare immondizia per conto della camorra, farsi abusare e abusare.
La paranoia del cittadino
Ed anzi, il pericolo, nella mentalità “mors tua, vita mea”, è proprio che persone appartenenti a minoranze (come i gay e le lesbiche, o gli extracomunitari) si integrino e vivano una vita degna: questo viene visto come un pericolo, spesso come un oltraggio alle “tradizioni”, cioè un furto di beni e di possibilità che la maggioranza ritiene destinate a sé, secondo un meccanismo che si avvicina a quello psicologico del “rifiuto del godimento dell’Altro”.
C’è chi, consapevolmente, usa la paranoia del cittadino giocando sul pericolo di perdita dell’identità e vivibilità dei quartieri, sul restringimento degli spazi vitali per ognuno, per far girare al massimo questo meccanismo usando la tecnica mass mediatica del capro espiatorio. L’Altro diviene allora lo specchio di tutti i propri difetti, del proprio male, della propria malvagità. Ed il problema più grave ed urgente in Italia diventa allora l’ingresso e la circolazione di persone di altre origini, ed il più grave danno alle città deriverebbe dagli insediamenti di fortuna dei senza fissa dimora. Basta gridare all’emergenza per far sfogare il new-popolino (leggi: popolo videodipendente e credulone) le proprie ansie e nevrosi sui soggetti più facilmente bersagliabili.
È in questo frangente che riaffiora lo stato di polizia, un meccanismo cieco: l’Europa è scossa da un’ondata di follia omicida adolescenziale che causa accoltellamenti e morti violente, i cui autori, tutti maschi, agiscono in gruppo e non sono quasi mai identificabili. Morti causate da gruppi nazifascisti vengono presentate dai mass media come inevitabili, provocate dall’atteggiamento delle vittime. Le violenze negli stadi hanno causato feriti e morti ammazzati a bizzeffe in questi ultimi anni... ma i primi a sperimentare l’identificazione con le impronte digitali sono i bambini rom. Il governo ci tranquillizza: dal 2010 prenderanno le impronte a tutti. In fondo siamo diventati tutti bambini.
Scrive Nadia Urbinati: “Questa Italia somiglia a una grande caserma, docile, assuefatta, mansueta. Che si tratti di persone di destra o di sinistra la musica non sembra purtroppo cambiare: addomesticati a pensare in un modo che pare essere diventato naturale come l’aria che respiriamo, vogliamo che i sindaci si facciano caporali e accettiamo di buon grado che ci riempiano la vita quotidiana di divieti e consigli (sulle spiagge della riviera romagnola due volte al giorno da un altoparlante fastidioso le autorità ci fanno l’elenco di tutte le cose che non dobbiamo fare per il nostro bene e se teniamo alla nostra salute) (3). Come bambini siamo fatti oggetto della cura da parte di chi ci amministra, e come bambini ben addomesticati diventiamo così mansueti da non sentire più il peso del potere”. (4)
Anche la nostra sporcizia è stata addebitata agli Altri, e non è bastato Gomorra per smentire i luoghi comuni. Ci avevano pensato i marines americani in Iraq a sporcare con escrementi i loro prigionieri per dimostrarne la colpevolezza simbolica. (5) Noi italiani non potevamo non applicare comunque lo stesso principio. Mentre Napoli soffocava di immondizia, occorreva qualcuno che fosse più sporco e fastidioso da punire. Gli zingari hanno fatto da parafulmine anche stavolta: c’è sempre qualcuno messo peggio con cui prendersela. Mentre la città è già stata rosicchiata tutta intera dalle pantegane più abbienti, i mass media mostrano turme che fanno un po’ di pulizia etnica da sé. Molti protestano perché gli zingari bruciano le loro immondizie, e poi inneggiano agli inceneritori di rifiuti, che ingrassano gli industriali e spargono diossine. Nel paese più fashion che c’è, nel quale i ministri provengono da famiglie e lobby di metodici inquinatori in guanti bianchi, è sempre il servo quello che inzozza.
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Marina con la figlia Laura |
Inutile tentativo di repressione
Anche il sesso è colpevole se è dell’Altro: tanti di noi avranno visto increduli i servizi televisivi sulla caccia ai viados (non dei clienti) tra fratte e muretti della periferia cittadina. In testa la polizia, o forse i vigili urbani, o forse qualcuno con una qualsiasi stella da sceriffo, dietro adulti e adolescenti umidicci che rovistavano nei cespugli e si aggiravano ingobbiti come dovessero stanare dei topi. Si trattava di un momento parossistico della quotidianità di un mondo fatto di sesso-merce, dal Parlamento ai marciapiedi, in cui certo quello dei marciapiedi è il più innocuo, tra stupri di gruppo tra compagni di scuola, monogamia cattolica sado-masochistica, party sesso e coca (non cola) coi ministri. Un inutile tentativo di repressione delegato alle forze dell’ordine, quando l’ordine è proprio quello di abusare del sesso. Tornati in casa dopo aver fatto perquisizione dei cespugli peccaminosi del quartiere, infatti, il buon padre di famiglia ed i suoi figli guardano CSI, o qualsiasi altro necro-show magari con delitto a sfondo sessuale (nel quale le donne sono più morto/geniche).
Il luogo emblematico della restrizione della libertà è proprio il Luogo: cespugli, ritagli di marciapiede, sotto-ponti, ruderi, catapecchie, luoghi contaminati e/o abitati dai topi, roulotte sgangherate, casette lungo le rotaie... non c’è nessuno spazio dove puoi stare pensando che lì nessuno verrà a sfrattarti. Appena si accorgono che riesci a viverci avrai attirato il loro interesse, e dovrai pagare pegno. L’aiuola è del Comune, adesso se ne è accorto. La catapecchia deve essere trasformata in un garage, magari tra 20 anni. Il sotto ponte è pericoloso, non puoi starci. Tutto è di qualcuno: e solo chi conta può arrogarsi il diritto di prendere spazi altrui. Il G8 ha bellissimi parchi e isole appena fissa una data. Un ricco imprenditore può comprare una spiaggia ed entrarci per sempre. Mentre la casa, il rifugio dolce del piccolo borghese anti-nomadi, è diventata il suo blocco di calcestruzzo al collo, col suo mutuo da pagare. Gli spazi “pubblici” subiscono restrizioni sempre più pesanti per il loro uso: occorrono balzelli esosi, assicurazioni, firme di progettisti... forse ancora solo le sagre di paese sono esentate da iter burocratici e pastoie del potere politico che fanno sì che usare un luogo pubblico sia diventato ardito e spesso impossibile.
Scenario ancora
più offuscato
Noi, cara Marina, lo sappiamo bene: tu eri con noi a Fano, nell’organizzazione dei Meetings anticlericali, quando, visto che riuscivamo sempre ad ottemperare a tutte le prescrizioni per l’uso di spazi e strutture, sia a quelle ragionevoli che a quelle demenziali, ne inventavano anno dopo anno di nuove. Ora la mitica Rocca Malatestiana ha un prezzo d’uso così alto che solo chi ha sponsor istituzionali può usarla. E guarda caso l’amministrazione la concede gratis ad una associazione che in cambio ripulisce i muri dai graffiti urbani. Già negli anni ’80 il nostro lavoro di apertura gratuita di spazi abbandonati risultava sgradito a quelle forze politiche che pretendevano di rappresentare in toto, e per professione, il dissenso. Ora spazi gratuiti non ce ne sono più, e le feste politiche si sono trasformate, quelle poche, in spettacolini pre-registrati per videodipendenti in libera uscita. Per visitare le iniziative politiche non istituzionali occorre munirsi di antidepressivi, e si tratta quasi sempre di fiere del do it yourself prive di ogni spazio di analisi politica che incida seppur minimamente sulle scelte di chi governa non dico il Paese, ma perlomeno i territori.
Quindi, Marina, è come se lo scenario si fosse ancor più offuscato, e se già negli anni ’80 organizzare momenti aperti, come i Meetings, causava l’espressione di energie represse e l’esplosione di un florilegio di freaks finalmente liberi, ora le stesse energie non hanno spesso nemmeno il potere della parola, del segno.
Molti si interrogano se sia questa nostra società una pre-edizione di un nuovo sistema fascista, oppure se stiamo vivendo solo un momento di crudità repressiva di un sistema liberale che sta sviluppando sistemi di controllo sociale elettronici sempre più raffinati ma in generale è disposta a tollerare le diversità purché non disturbanti l’ordine economico e sociale. (6) Ognuno può giudicare da sé se nel microcosmo in cui vive la fissazione per l’ordine e la paranoia abbiano fatto più o meno breccia nella psiche. Sembra comunque evidente che le scelte di politica internazionale, come quelle nazionali, segnalino il progredire di progetti politici autoritari in alleanza con poteri economici sempre più in difficoltà. In questi progetti politici l’uso di ampi spazi, e innanzitutto degli spazi televisivi, è essenziale per catalizzare folle di persone sempre più assuefatte al parlare per frasi fatte. I ministri della propaganda sono tornati prepotentemente sulla scena. In alcune nazioni il fine politico parrà più crudo e immediato, in altre sarà attutito da scelte “soft” atte ad un lento peggioramento nel godimento dei diritti.
C’è l’impressione che anche la mentalità politica dei più giovani patisca di un’ assuefazione allo spettacolo come e più di un tempo, come se il videoclip avesse preso il posto dello slogan e il pensiero avesse perso ogni elasticità e capacità di sorvolarsi, ed anche l’espressione politica fosse diventata un videogioco e avesse subito una sorta di straniazione da sé stessi della quale sono testimonianza gli pseudonimi, i nickname, gli avatar, i loghi.
Per questo occorre agire con spontaneità, cercando di ricreare quell’amalgama, quella morbidezza che portiamo in noi, nel nostro cuore sempre giovane e zingaro tanto estraneo a farsi comandare e a calcolare i rendiconti. Anche se già Ornella Vanoni cantava presaga tempo fa “perché volersi bene è capitalizzare, lo so”.