Gli stati generali del sindacalismo di base svoltisi questa primavera a Milano (Assemblea al Teatro Smeraldo il 17 maggio) e che hanno visto la partecipazione di più di mille delegati e militanti sindacali, meritano qualche riflessione.
Innanzitutto sul cartello delle organizzazioni promotrici: CUB (Confederazione Unitaria di Base), Confederazione Cobas, SdL (Sindacato dei lavoratori); poi sulle esclusioni: SLAI-Cobas, Unicobas, USI-AIT e USI “romana”. Poco da eccepire, se consideriamo i rapporti di forza che permeano la galassia del sindacalismo di base, i giochini di potere e anche le miserie connesse.
Per chi non è addentro alla questione va detto che le tre organizzazioni promotrici sono le più grandi ed organizzano la maggior parte dei lavoratori schierati sul fronte del sindacalismo antagonista. Anche le esclusioni, variamente determinate, sono comprensibili: prodotto di veti incrociati le prime due (CUB versus SLAI-Cobas per antiche e nuove ruggini lombarde; Confederazione Cobas versus Unicobas per recenti frizioni romane); le altre due derivano, probabilmente e più semplicemente, dalla compresenza di due sigle uguali.
Chi fosse invece maggiormente informato potrebbe stupirsi di questo improvviso afflato unitario, che investe organizzazioni, in un recente passato, in polemica anche forte tra loro e sicuramente divergenti nelle scadenze di lotta.
Anche qui la risposta è abbastanza semplice, ma richiede una premessa necessaria. Le tre confederazioni sindacali di Stato (CGIL-CISL-UIL) hanno intrapreso da tempo un percorso di ulteriore integrazione istituzionale e, conseguentemente, di avvicinamento reciproco. Già con gli accordi sul Welfare del luglio 2007 e, più recentemente, con la proposta comune di riforma della contrattazione (largamente condivisa da Confindustria) la “triplice” confederale ha accentuato la sua subalternità alle richieste imprenditorial-capitalistiche, dando nel contempo l’avvio ad un possibile processo di unificazione. Tutto questo non avviene senza conseguenze, perché, a fronte della linea delle più ampie concessioni a Confindustria e Governo, Epifani e soci chiedono a gran voce il monopolio della rappresentanza e l’estromissione da ogni tavolo di trattativa dei sindacati di base.
Questa prospettiva non poteva che preoccupare i vertici del sindacalismo di base, minacciati di esclusione dai tavoli (grandi e piccoli) dove si tratta. Da qui, ma non solo da qui, l’afflato unitario che improvvisamente ha pervaso CUB, Cobas e SdL.
In realtà nell’assemblea unitaria di Milano, almeno nella spinta che ha determinato la sua convocazione, grande peso ha avuto la base, delegati e anche semplici militanti sindacali delle tre organizzazioni. Ma di certo, in occasioni passate non abbiamo assistito ad altrettanta sollecitudine da parte delle dirigenze del sindacalismo di base alle istanze dei militanti e degli iscritti.
Ma che cosa ha prodotto concretamente l’assemblea milanese?
Sul terreno prettamente sindacale una dichiarazione d’intenti unitari, la proclamazione di uno sciopero generale per il 17 ottobre (su una piattaforma che prevede: forti aumenti per salari e pensioni, introduzione di un meccanismo automatico di adeguamento salariale, difesa della pensione pubblica, rilancio del contratto nazionale, difesa e potenziamento dei servizi pubblici, dei beni comuni, del diritto a prestazioni sanitarie, del diritto alla casa e all’istruzione) e un patto di consultazione permanente con lo scopo (come recita un recente comunicato stampa) “di coordinare l’azione e le iniziative sindacali delle tre organizzazioni di base“ e che prevede “riunioni periodiche a livello nazionale nel corso delle quali si confrontino le varie proposte di lotta, con l’obbiettivo di giungere a iniziative comuni, o ad iniziative di singola organizzazione ma non in competizione tra di loro; la realizzazione di iniziative unitarie di dibattito, convegni, seminari e l’elaborazione di documenti, prese di posizione comuni sui principali temi di conflitto con il padronato, il governo, i sindacati concertativi; la costituzione di un Forum permanente sulla rappresentanza, sui diritti sindacali, il diritto di sciopero e contro il monopolio concesso ai sindacati concertativi”.
Fin qui niente di strano: un normale percorso di avvicinamento necessitato dalle difficoltà a cui facevamo cenno. In realtà le cose sono un tantino più complicate e alludono a uno scenario meno limpido. E qui si apre una seconda chiave di lettura della vicenda.
Un quadro non esaltante
Anche qui una premessa è necessaria: le elezioni politiche di primavera hanno stroncato la Sinistra arcobaleno, privando di ogni rappresentanza parlamentare i partiti vetero e post-comunisti che la componevano. È dunque comprensibile che gli spazi politici (e soprattutto gli scranni parlamentari) lasciati liberi da Diliberto, Giordano e soci abbiano “fatto gola” ad un’area radicale (ma potenzialmente istituzionale) sindacal-politica, fino ad oggi abbastanza marginalizzata.
Infatti la Rete dei Comunisti e Sinistra Critica risultano tra i promotori di un incontro nazionale che si è tenuto il 9 settembre. Incontro però che ha visto tra i principali attori RdB-Cub e Cobas nonché Giogio Cremaschi (leader della dissidenza interna CGIL, già “convitato di pietra” all’assemblea milanese del sindacalismo di base). Come non vedere quindi un singolare parallelismo tra l’iniziativa sindacale e quella politica?
D’altra parte, che ci si trovi di fronte ad una scadenza non episodica e che il nuovo cartello di forze ambisca ad un ruolo centrale e protagonista, a diventare un polo d’attrazione per la magmatica area della sinistra “radicale”, ce lo conferma lo stesso appello d’indizione: “... Come organizzazioni e persone che hanno mantenuto un filo comune di dibattito e di mobilitazione in questi anni, abbiamo avvertito l’esigenza di un primo incontro per costruire una mobilitazione contro il governo e la Confindustria, senza fare sconti al Pd. Osserviamo, oggi, che l’esigenza di una mobilitazione, autonoma dal Pd, si estende ad altri soggetti della sinistra che pure sono stati legati all’esperienza del centrosinistra... Per questo proponiamo un incontro dell’opposizione sociale, sindacale e politica il 9 settembre...“.
Il problema è dunque, a mio avviso, composito: innanzitutto c’è l’indiscutibile sovrapposizione del piano sindacale e di quello politico, di per sé non scandalosa se interpretata come interazione di movimenti reali e non come subordinazione del primo al secondo; in secondo luogo c’è la consistenza del progetto sindacale vero e proprio; in ultimo, il rapporto tra queste operazioni e le spinte reali che vengono dai lavoratori o almeno dalla parte più cosciente di questi.
Cominciando dalla fine, mi sembra di poter affermare che il rapporto è molto labile e comunque interpretato in maniera surrettizia dai gruppi dirigenti impegnati in queste operazioni. Per quanto riguarda le prime due questioni il punto è una semplice alternativa: o c’è veramente un progetto sindacale di aggregazione di sigle subordinato (o comunque strettamente collegato) all’operazione politica o, più semplicemente, il progetto è solo politico e la pars sindacale ne è una pura copertura. In entrambi i casi non ne risulta un quadro esaltante, poco di nuovo sembra esserci nelle pratiche di buona parte delle dirigenze delle maggiori organizzazioni sindacali di base rispetto alla peggior tradizione politico-sindacale.
La stessa indizione dello sciopero generale del 17 ottobre, ha ripercorso pedissequamente la ritualità di analoghe scadenze degli anni passati. Il suo essere calata dall’alto, la mancanza di una reale verifica in termini di contenuti e di modalità nelle assemblee di base, non predispongono all’ottimismo né per quanto riguarda la crescita di un movimento di lotta generalizzato, né per quello che concerne la democrazia interna di un nuovo potenziale soggetto sindacale.
I compagni libertari che militano in queste organizzazioni, dovrebbero cominciare a prendere atto che il loro generoso attivismo, alla fin fine, potrebbe non far altro che portar acqua a nuovi piccoli palazzi di potere.