Torino Porta Palazzo. Domenica mattina. Gente che viene e che va nello spazio
angusto di via Cottolengo, sul margine della grande piazza che ogni giorno accoglie
il mercato più grande della città. Banchi di cibo si alternano a quelli di abiti, casalinghi, merci varie. In settembre le giornate sono ancora calde e si respira un ultimo alito d’estate, di tempo sospeso, quasi di feria che si protrae nel cuore della città. Nella calca qualcuno allunga la mano e qualche portafoglio cambia di tasca; negli angoli più riparati ci sono altri commerci.
È così da quando mi ricordo. Di diverso, dai tempi che andavo a trovare le mie bis zie in via Gerdil, ci sono gli alimentari e mancano le sigarette. All’angolo con corso Regina c’erano quelli delle stecche di contrabbando e tutta la città prima o poi ci passava. L’importante era badare ad aprire i cartoni al centro, perché certi, disonesti davvero, ci mettevano le gallette che, al tocco, erano come le muratti e le marlboro. Se a uno era stata rubata l’autoradio o la bici, lì ne trovava a buon prezzo una uguale.
Il mercato abusivo di via Cottolengo
Naturalmente è cambiata anche la gente. La maggioranza di quelli che girano per il mercato abusivo di via Cottolengo sono immigrati, soprattutto nordafricani, ma anche africani e cinesi. Gli italiani, la domenica mattina, sono una sparuta minoranza.
Negli ultimi tempi sui giornali cittadini sono usciti diversi articoli contro questo bazar orientale senza permessi né licenze. Negli anni passati il mercato, dopo varie strette repressive e tentativi di dividere i buoni dai cattivi, poco a poco è riemerso. Per tanti è un’occasione preziosa per integrare il reddito o per comprare i sapori di casa. Il pane viene esposto in grosse ceste messe direttamente sul marciapiede, le grandi pite di farina gialla, che alcune donne cucinano e portano in piazza con i trolley, fanno mostra di se in alti mucchi, qua e là ci sono le spezie, la menta, le teiere intarsiate di gusto orientale. Le donne sono rare. Le poche sono vecchie e intabarrate dalla testa ai piedi in quelle sottane lunghe, informi delle donne marocchine.
Appena fuori dal mercato, nell’area di un gigantesco cubaccio con le pareti come un bottiglione verde implasticato, che Fuksas ha progettato al posto della vecchia “ala” liberty per le botteghe dell’abbigliamento, ci sono svariati capannelli di persone con il vestito buono. Quasi tutti uomini o bambini maschi.
Più in là alcuni compagni con un banchetto, volantini e una mostra sui crimini dell’esercito italiano, fanno a loro volta due chiacchiere.
In fondo questo luogo è la metafora dei tempi che viviamo, della difficoltà di costruire un percorso anarchico che sappia stare in mezzo allo scontro sociale, senza venirne schiacciato.
Oltre la domenica siamo stati qui anche altre volte: armati di cartelli e megafono abbiamo dato la “caccia” agli alpini della Taurinense che presidiano la piazza da metà agosto. Tra le loro imprese: la multa ad un anziano suonatore di fisarmonica, la perquisa a qualche tossico male in arnese, la verifica delle carte degli immigrati.
Li tallonavamo in giro per il mercato di ogni giorno, quello legale, dove ai banchi trovi la pensionata che non arriva alla fine del mese, gli immigrati che ammiccano senza parlare, la tipa che sfrutta i clandestini e ti grida di andare a lavorare, le arabe che passano e non alzano la testa.
Abbiamo deciso di metterci in mezzo, di non limitare il nostro agire alla mera testimonianza, buona ma inutile di fronte alla barbarie che avanza: i militari in strada non sono che la punta dell’iceberg, che sommessamente sta ghiacciando l’intera società. La stringe in una morsa dove la paura, i rigurgiti identitari, l’illusione che i sommersi siano sempre altri si mescolano in un impasto venefico.
Stare dalle parte degli oppressi e degli sfruttati è normale, costitutivo del nostro essere anarchici, tuttavia la declinazione del come è sempre più difficile. Il linguaggio della resistenza è immediato e trova, qua e là, compagni di strada, gente disposta a non chinare il capo, a mettersi in gioco per ostacolare politiche razziste, classiste, predatorie. Il conflitto sociale è regolato da strategie di controllo di stampo squisitamente disciplinare. Contrastarle fa parte di una lingua che facilmente si fa comune, che mostra ai più, a chi pensa che la partita sia persa in partenza che è sempre possibile fare qualcosa, è sempre possibile aprire nuovi sentieri. Se il lessico della resistenza trova qua e là consenso, quello della rivoluzione, quello dei liberi ed eguali, delle libere ed eguali, si impantana sempre più. Perché il ragazzo marocchino che ti fa segno, indicando con la mano la direzione dove pescare la pattuglia, a casa ha una moglie imbacuccata il cui orizzonte si chiude tra le mura domestiche. È lo stesso che scende in piazza con te e invoca il suo dio.
Desiderio di rivoluzione
Tra noi c’è chi sostiene che la rivoluzione non si fa in un giorno, che le fratture che si danno vanno colte per quel che sono senza aspettarsi un cambiamento che investa contemporaneamente lo stato, il capitale, la religione, il patriarcato. Il rivoluzionario partecipa al conflitto, ci sta dentro, se può dà una spinta ma non si dice come tale, si mescola ad uno scontro che esiste anche fuori di lui. Non compare, non si presenta, si aggira anonimo, gettando semi ed offrendo occasioni per chi le vuole cogliere, fiducioso che il glossario della ribellione basti a se stesso. Il vecchio Bakunin continua qua e là a far scuola. L’identità come trama sottesa ma non visibile, proprio Bakunin, che la sapeva lunga, la chiamava dittatura. È un gioco pericoloso. Lo è sempre stato ma oggi lo è ancor più, perché l’unico lessico comune si produce nell’immediatezza della resistenza ma non va oltre, non sa andare oltre. C’è chi ritiene che sia bene così, che in tal modo fonda – sia pur provvisoriamente – la propria irriducibilità alla logica del dominio. È possibile, così come è possibile che fondi parimenti l’inattingibilità della prospettiva anarchica.
Come scrivevo qualche tempo fa ciò che apre o chiude un orizzonte è la sua desiderabilità, un suo parlare che si faccia narrazione, storia di uno e storia di tanti, humus in cui affondare radici e insieme ascia che taglia i rami morti. Ciò che mette in gioco o getta fuori dall’arena la rivoluzione non è la possibilità di farla, ma il desiderio che si realizzi. In altre parole serve una lingua comune che vada al di là dell’immediato, che sappia sedimentarsi e farsi energia di trasformazione.
Altrimenti si cade nell’illusione che la meccanica possa più della coscienza, che quest’ultima non sia che una derivazione della prima, che la rottura dell’ordine sociale sia la chiave di ogni possibile rottura dell’ordine simbolico. Struttura e sovrastruttura.
Sono convinta – e la mia convinzione si è costruita anche e soprattutto sulla pratica – che la materialità di certe fratture – la barricata, la rivolta, lo sciopero ad oltranza, la disobbedienza generalizzata, a volte basta un sasso, un no, un basta – spesso inneschi accelerazioni impreviste ed imprevedibili anche sul piano simbolico, o contribuisca ad incrinare altri piani di oppressione, ma difficilmente questo avviene in assenza di una sia pur minima prefigurazione utopica di segno libertario.
Se non so dove andare, andrò in giro senza meta, forse arriverò da qualche parte o forse continuerò a calpestare la stessa polvere di cortile.
Se voglio che tutto cambi, perché sono sfigato, basterà che la sfiga finisca per poter sedere anch’io alla tavola imbandita, tirando calci a chi come me ieri, sgomitava per arrivare alle briciole.
In quello stesso mercato di Porta Palazzo, divenuto metafora di questo argomentare, ai banchi ci sono immigrati che sfruttano come bestie altri immigrati, appena arrivati, senza carte, senza possibilità di dire no.
Chi invece non ha nulla da perdere, non necessariamente vuole far saltare l’assetto del mondo.
Se non voglio più nulla perché penso che tutto mi sia precluso, a volte sfascio tutto: macchine, cabine telefoniche, scuole e strade, la faccia dei poliziotti e quella di qualche sfigato diverso da me. Poi ci saranno folle di sociologi, politici destri e sinistri, che mi vorranno raccontare, infilzandomi nell’ordine dei loro discorsi. Ci sarà anche qualche anarchico che apprezzerà la mancanza di logica e su questo costruirà l’ordine del suo discorso, un ordine fatto di rotture, peccato che, anche lui, finisca con il parlare per me. Che non dico niente. Punto. È successo in Francia, domani potrebbe capitare anche da noi: sapremo evitare la retorica delle periferie in fiamme, la poesia sommessa del caos, per registrare che l’afonia non parla in linguaggio cifrato la rivolta contro lo stato e il capitale? E tanto meno la rivoluzione? Sapremo capire che i figli di nessuno non sono nostri figli oppure continueremo a cantare “son nostre figlie le prostitute che muoion tisiche negli ospedal”?
Parigi
non è lontana
Il pomeriggio di rivolta degli immigrati di Castelvolturno – dopo la strage di camorra di metà settembre – è il segno inequivocabile che Parigi non è lontana.
Tra le sfide di questi tempi c’è quella di ritrovare un lessico comune per una trasformazione di segno libertario. Credo tuttavia occorra essere meno timidi. L’anarchia non è un veleno che va somministrato goccia e goccia per evitare che uccida ma un’avventura che ciascuno può far sua.
Oltre 40 anni fa, quando andavo in visita alle bis zie in via Gerdil, passando da Porta Palazzo – allora tutti la chiamavano Porta Pila – mia madre mi stringeva forte la mano, timorosa di passare in quelle vie mal frequentate. La casa della bis zie, le “magne” sorelle della bisnonna, era di quelle di ringhiera, con due stanze che davano sul ballatoio e un unico cesso comune in fondo al balcone. Le scale quando si saliva tremavano un po’ e così anche i balconi: la casa non sarebbe durata più delle “magne” che ci erano nate. Ricordo magna Palmira, alta, allampanata con la faccia da cavallo, gli occhi chiari e i capelli fini raccolti sulla testa, portava sempre i tacchi, abiti a pois e un rossetto rosso rosso sulle labbra. Era stata tabacchina, operaia alla manifattura per tutta la vita, lavorando, lei e le sue sorelle, per il suo pane sin dalla giovinezza. Era una ragazza nata nell’800, socialista e antifascista. Raccontava delle sue vicine di casa, donne giovani arrivate dal meridione con tanti figli e mariti che volevano farlo senza mai tirare indietro. Si disperava per la loro miseria e per le tante bocche da sfamare e ci raccontava delle visite a casa di questa e di quella per dare una mano e per spiegare i tanti sistemi per non avere figli. Mi salutava chiedendomi sempre se avevo capito e mi stringeva tra le mani una moneta da 50 lire.
Quando osservo la piazza del mercato abusivo, una piazza dove le donne sono poche e piegate, quando rifletto sulla strada difficile che abbiamo davanti, penso e lei e mi pare di stringere ancora in mano quelle 50 lire. Da lei ho imparato che la schiavitù non si spezza rompendo una catena sola.