Il 15 aprile 1920 quattro uomini, a bordo di una automobile effettuano una rapina al calzaturificio di South Braintree, alla periferia di Boston. Al termine di una breve sparatoria, sul posto restano i corpi del cassiere Parmenter, che porta con sé i soldi delle paghe degli operai, e della guardia giurata Belardelli. Sono giorni duri, quelli, non solo a Boston ma in tutti gli Stati Uniti. La guerra finita da poco con le sue drammatiche conseguenze, le agitazioni sociali di un proletariato fortemente colpito dalla crisi, le nuove ondate immigratorie da paesi lontani e “barbari”, turbano i sonni dei benpensanti. In un clima da caccia alle streghe, che vede nella presenza degli immigrati slavi e latini e dei sovversivi di ogni colore il “cancro” che minaccia di distruggere la “sana” società statunitense, le indagini sulla rapina, condotte dal capo della polizia Michael Stewart, fortemente maldisposto nei confronti degli stranieri e ben determinato a far comunque “pagare agli italiani e ai sovversivi la loro arroganza”, si indirizzano a colpo sicuro sugli ambienti degli anarchici di origine italiana. Un ambiente, del resto, particolarmente attivo, in quei giorni, nell’agitare, dall’Atlantico al Pacifico, le parole d’ordine del rispetto dei diritti e
della dignità del lavoro.
Ispirati dalle incendiarie pagine della «Cronaca Sovversiva» e della «Adunata dei Refrattari», i numerosi anarchici italiani rappresentano una delle avanguardie più combattive, assieme ai lavoratori inquadrati negli Industrial Workers of the World, nel portare l’attacco a un capitalismo senza regole che non esita a difendere i propri privilegi ricorrendo alla più selvaggia e omicida repressione. La sera del 5 maggio il calzolaio Nicola Sacco e il pescivendolo Bartolomeo Vanzetti, anarchici della corrente individualista che si richiama alle parole di Luigi Galleani, vengono arrestati a bordo di un autobus. Le loro prime dichiarazioni, relative alle modalità dell’arresto e al fatto di essere stati trovati armati di due pistole, sono inevitabilmente piene di contraddizioni. I due, infatti, quella notte stavano girando nelle case dei loro compagni per recuperare e fare sparire materiale di propaganda talmente compromettente da poter mandare in carcere i possessori. Su questo equivoco iniziale, causato anche dalla loro comprensibile insicurezza in un paese animato dalla più accesa xenofobia e dalla scarsa conoscenza dell’inglese di Nicola Sacco, si creerà la montatura che li porterà, dopo sette anni, sulla sedia elettrica.
Andrea Salsedo, come Giuseppe Pinelli
Siamo all’indomani della rivoluzione bolscevica, e appartiene a quel periodo l’acceso clima di furore antisovversivo che anima le istituzioni nord americane, terrorizzate, al limite della paranoia, dalla eventualità della possibile diffusione della febbre comunista nel loro paese. Sono frequenti, nei quartieri popolari, le spedizioni punitive guidate da una polizia particolarmente aggressiva e caratterizzate dalla brutale devastazione degli ambienti, dal terrore trasmesso alle vittime inconsapevoli, dagli arresti indiscriminati e immotivati nei confronti dei giovani maschi incappati nelle perquisizioni. Ed è sempre di quei drammatici giorni l’assassinio del tipografo anarchico Andrea Salsedo, scaraventato dal grattacielo della polizia di New York al termine di un violento interrogatorio, vòlto a fargli denunciare gli autori della pubblicazione di un volantino incitante alla ribellione sociale. A guidare le imprese della polizia bostoniana, il ministro della Giustizia Palmer, personaggio che avrà un ruolo decisivo nell’ostacolare la più pallida parvenza di garantismo nel corso dei vari procedimenti intentati contro i due anarchici italiani.
Dopo un primo processo che vede sul banco degli imputati il solo Vanzetti, condannato da 12 a 15 anni per una rapina mai commessa a Bridgewater il 24 aprile del 1919 – anche grazie alla disonestà dell’avvocato John Vahey che di lì a poco verrà cooptato nel prestigioso studio del pubblico accusatore Frederick Katzmann, famoso per aver commentato la sentenza di colpevolezza con la significativa frase “lo ho sistemati per le feste quei due bastardi” – il 31 maggio del 1920 inizia il processo per la rapina di South Braintree, conclusosi il 14 luglio con la sentenza di condanna a morte. I due anarchici sono difesi dall’avvocato Fred Moore, abituale difensore dei militanti degli Industrial Workers of the World, appositamente scelto da Carlo Tresca, anarchico di New York di origine abruzzese e direttore del periodico di tendenza anarcosindacalista «Il Martello». Comprensibilmente, e va aggiunto anche coraggiosamente, Moore imposta la difesa più sul piano politico che non su quello strettamente giuridico. Un tentativo generoso, ma che purtroppo si rivelerà controproducente.
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Nicola Sacco |
Il ricorso respinto
Comincia così il lungo calvario dei due anarchici rinchiusi nel carcere di Dedham, calvario che per sette lunghi anni vedrà un continuo susseguirsi di schermaglie giuridiche e politiche intese ora ad affermare la congruità della sentenza di colpevolezza, ora la palese ingiustizia che ha segnato l’intera vicenda processuale. Sono anni quanto mai duri per i due reclusi, che a dispetto della loro determinazione e risolutezza saranno colpiti da profonde crisi depressive, sfioranti la pazzia. Prima ne sarà vittima Nicola Sacco, che tenterà il suicidio, successivamente Bartolomeo Vanzetti. Allorché si farà più evidente il disegno persecutorio di un potere disposto a sprezzare ogni regola, i due anarchici sembreranno perdere, infatti, quella lucidità che poi mostreranno al mondo nel giorno della esecuzione della condanna. Ad accompagnare la loro detenzione, comunque, non verrà mai meno una imponente mobilitazione popolare sviluppatasi non solo a Boston e nel resto degli Stati Uniti ma anche in Europa e nel mondo intero. Non saranno, infatti, solo i comitati degli anarchici a lottare al loro fianco, non saranno solo i libertari di tutto il mondo a solidarizzare con le loro idee e il loro dramma, ma in difesa di Sacco e Vanzetti, mossi da un senso di giustizia superiore, si mobiliteranno centinaia di intellettuali, giuristi di fama, scienziati e letterati, che non esiteranno a denunciare la macchinazione ordita contro i due innocenti. Tra questi basterà ricordare Benedetto Croce, Upton Sinclair, John Dewey, Massimo Gorki, Sinclair Lewis, Romain Rolland, Bertrand Russell, H. G. Wells, Stefan Zweig, Ben Shahn. Né va dimenticata l’opera indefessa dell’anarchico emiliano Aldino Felicani, animatore a Boston del Comitato di Difesa pro Sacco e Vanzetti, amministratore dei fondi che convergevano da tutto il mondo per le spese legali e l’assistenza ai famigliari e fino alla morte tenace custode della memoria dei due innocenti mandati sulla sedia elettrica.
Nel 1923, nel tentativo di dare maggiore consistenza giuridica e minore valenza politica all’intera vicenda, assume il patrocinio di Sacco e Vanzetti uno dei primi avvocati degli Stati Uniti, William Thompson, la cui impostazione prettamente legalistica porta l’avvocato Moore ad abbandonare il collegio di difesa. Ma tutto è inutile. La volontà di arrivare alla condanna esemplare dei due pericolosi sovversivi, nonostante il progressivo sfaldarsi del castello accusatorio, messo pesantemente in crisi dalle dichiarazioni spontanee di auto colpevolezza del pregiudicato Madeiros e dalle testimonianze favorevoli dei componenti della banda di rapinatori dell’italo americano Morelli, vede anche negli appelli la conferma della prima sentenza. Infatti il 12 maggio 1926 c’è la ratifica della colpevolezza da parte del presidente della Corte Webster Thayer e il 5 aprile 1927 viene respinto l’ultimo ricorso.
Anche l’intervento di Felix Frankfurter, uno dei più famosi giuristi americani, destinato a diventare poco dopo giudice della corte suprema, non ottiene la revisione del processo. Neppure la sua famosa requisitoria, The case of Sacco and Vanzetti. A critical analysis for lawyers and laymen, che affronta il caso da un punto di vista essenzialmente giuridico e le cui ineccepibili considerazioni di procedura legale suscitarono enorme scalpore nell’opinione pubblica, rivelando le mancanze e le irregolarità, non solo formali, con le quali Thayer e Katzmann condussero il processo, riesce a scalfire la volontà persecutoria della Corte del Massachusetts. La stessa commissione di giuristi al massimo livello, nominata nell’estate del 1927 dal governatore Lowell, sulla cui autorevolezza e imparzialità sembrava si potesse contare, pur riconoscendo le numerose storture processuali, conferma la congruità della condanna. Così il 12 gennaio del 1927 viene respinto l’ultimo ricorso e il 9 aprile dello stesso anno è emessa la sentenza definitiva di condanna a morte. Il governatore del Massachusetts, Alvin T. Fuller, approva prontamente il verdetto e rifiuta la grazia, e la sentenza verrà eseguita sulla sedia elettrica del carcere di Charlestown, nonostante le imponenti manifestazioni popolari di protesta, il 23 agosto dello stesso anno.
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Bartolomeo Vanzetti |
Epica e lunga battaglia
Come appare sempre più evidente, la vicenda di Sacco e Vanzetti non è storia del passato, ma è storia contemporanea, storia di oggi, di assoluta attualità. Una storia che prefigura, per poi riprodurle, alcune delle drammatiche contraddizioni che oggi attraversano il nostro paese. Ed è sintomatico che la violenza statale che colpì due individui solo perché anarchici e immigrati sia pressoché identica, se non nelle forme certamente nei contenuti, a quella che oggi le democrazie europee fanno cadere sulle spalle e sulle vite di altri immigrati, di altri proletari, di altri nemici dell’ordine costituito.
La tragica vicenda che a Boston vide coinvolti Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ingiustamente condannati e giustiziati sulla sedia elettrica, può essere anche definita una grande battaglia di civiltà. E di libertà. Quello che, secondo la giustizia dello Stato del Massachusetts, avrebbe dovuto essere solo un caso giudiziario, né più né meno di tanti altri che vedevano sul banco degli imputati immigrati, proletari, sovversivi, si trasformò da un fatto di cronaca nera in un’epica e lunga battaglia che vide schierati, da un lato le coscienze libere e civili del mondo intero, dall’altro alcuni funzionari dello Stato, tanto imbottiti di pregiudizi e prevenzioni quanto determinati a far sì che questi pregiudizi e prevenzioni potessero divenire la base per una sentenza “esemplare”. E infatti l’appartenenza dei due imputati alle correnti più radicali del movimento anarchico italo-americano, il loro rifiuto, durante la guerra, di venir meno alla proprie convinzioni antimilitariste e la conseguente decisione di disertare e riparare in Messico, e la ventata reazionaria venutasi a creare dopo il successo della rivoluzione in Russia, determinarono il clima che accompagnò la vicenda rendendone inevitabile il vergognoso esito.
Fu solo per la fermezza nelle proprie idee e per la dignità morale con la quale i due imputati affrontarono la loro sorte, a dispetto delle intenzioni e delle attese dei loro accusatori, che questo caso poté assumere allora, e riveste tutt’oggi, una particolare importanza: un caso esemplare di come un tentativo di rivalsa e di vendetta delle istituzioni contro chi osava metterne in discussione la legittimità poté trasformarsi in un micidiale boomerang, che portò sul banco degli accusati, di fronte al mondo intero, una giustizia di parte e una cultura reazionaria, intrisa di sospetto e pregiudizio. Sospetto e pregiudizio, nei confronti dello straniero e del diverso, che ancora oggi troviamo con tanta frequenza nelle pieghe di una società che si vorrebbe aperta e tollerante.
Nonostante le decise affermazioni di non colpevolezza, le infinite prove che li scagionavano, gli evidenti eccessi accusatori e le illegalità procedurali, la giustizia americana volle affermare il proprio diritto di condannare, nelle persone di Sacco e Vanzetti, ciò che avrebbe potuto contestarne la legittimità. Quella esecuzione, dunque, non fu l’eccesso di un intento accusatorio spinto al limite estremo, ma l’effetto, tenacemente cercato e ottenuto, della volontà delle istituzioni americane di impedire che si minassero i sacri principii dei suoi padri fondatori. Una evidente ingiustizia, commessa da una società sorda a qualsiasi senso di umanità e determinata a calpestare finanche i postulati sanciti dalla Rivoluzione Americana.
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Ben Shahn: Sacco e Vanzetti tra le guardie, 1932.
Collezione privata |
Nella memoria collettiva
Solo nel 1977, il governatore del Massachusetts Michail Dukakis, sollecitato da quanti chiedevano giustizia per i due italiani, decreterà che il processo non era stato condotto in modo corretto e secondo le regole, in quanto profondamente influenzato dal pregiudizio razziale e politico e da disonestà intellettuale e proclamerà la giornata del 23 agosto come “Sacco and Vanzetti day”.
Da quel 23 agosto del 1927, del resto, la memoria dei due anarchici non è mai venuta meno fra i loro compagni e fra quanti non hanno voluto dimenticare l’ingiustizia del potere. La ponderosa bibliografia su Sacco e Vanzetti e le numerose iniziative a loro dedicate testimoniano quanto quella tragedia sia ancora viva nella memoria collettiva. E se nei periodici anarchici di questo dopoguerra non è mai mancato il ricordo dell’esecuzione e la ricostruzione dei processi, anche fra quanti sentono il bisogno di affermare i principii della solidarietà e della uguaglianza dei popoli, la vicenda di Sacco e Vanzetti non cessa di rappresentare l’occasione per ribadire come sia necessario tenere vivi tali principi.
Molto opportuna, dunque, è la riproposizione delle parole con le quali Sacco e Vanzetti accompagnarono la loro tragedia. Nelle dichiarazioni e nelle lettere qui raccolte, che videro una prima edizione in Francia già nel 1931 sotto gli auspici del Comitato Internazionale, si può trovare, infatti, lo spirito e la forte carica di umanità con i quali i due anarchici seppero affrontare il loro destino: non la rassegnazione delle vittime sacrificali né la lamentazione, che pur sarebbe stata comprensibile, per il torto subito, ma la ferma rivendicazione delle proprie idee e delle proprie scelte di vita. Idee di giustizia e libertà, vite dedicate all’emancipazione sociale. La scarna autobiografia, nella quale Vanzetti ripercorre con stile sobrio e asciutto le vicende che lo portarono a cercare nuove opportunità in America, e soprattutto la straordinaria autodifesa pronunciata poco prima della definitiva sentenza di condanna, sono alti esempi di letteratura civile.
Nelle parole che l’anarchico piemontese pronuncia di fronte alla giuria che lo condannerà non c’è solo la rivendicazione di un ideale decisamente troppo avanzato per quelle menti ottenebrate dal pregiudizio, ma c’è anche la descrizione di un sogno, quello stesso sogno di libertà estrema e consapevole che altri anarchici e militanti proletari, prima di lui, avevano descritto nelle aule dei tribunali e che oggi, ancora una volta, vale la pena di fare conoscere.