Chissà quanti conoscono le storie degli anarchici Casimiro Chiocchini e John Camillò. Probabilmente in pochissimi, di loro non si trova traccia neppure in quella inesauribile fonte d’informazioni che è il Dizionario biografico degli anarchici italiani pubblicato dalla BFS nel 2003. Eppure dai loro fascicoli conservati al casellario politico centrale, emergono due esistenze parallele che meriterebbero di non essere perdute, se non altro nel rispetto per una dignitosa coerenza che mai li ha abbandonati.
Casimiro Chiocchini, classe 1873, è un toscano di Calcinaia di Pisa che si trasferisce a Roma non ancora ventenne: “È di carattere cupo, d’indole ardita e fanatico delle sue idee. Nel 1891 ha preso parte a tutte le adunanze anarchiche che prepararono i fatti delittuosi del primo maggio e da allora non ha mai smesso di fare attivissima propaganda e di eccitare gli animi degli operai. Stretto in intima relazione con gli anarchici più pericolosi, venne varie volte sospettato come complice nelle varie esplosioni avvenute in Roma nell’inverno 1892-1893 e fu per tale titolo e per quello di associazione a delinquere arrestato nel febbraio 1893, ma poi nel luglio dello stesso anno prosciolto dalle imputazioni per insufficienza d’indizi” si legge sul cenno biografico compilato dalla Prefettura di Roma nel cruciale 1894, anno in cui a Lione Sante Geronimo Caserio pugnalava a morte il presidente francese Carnot e in Italia un anarchico di Lugo, Paolo Lega, attentava alla vita del primo ministro Crispi, che subito aveva risposto promulgando le cosiddette leggi antianarchiche nella speranza di porre un freno alle tante rivolte sociali che dalla Sicilia alla Lunigiana insanguinavano l’Italia: “Sire, gli anarchici di Massa e Carrara, raccoltisi in bande armate, scorrazzano per quelle contrade a fini criminosi, rompendo i fili telegrafici, ostruendo le strade, attaccando insidiosamente la forza pubblica. Dal contegno, dagli atti, dal programma di codesti nemici della Patria, sorge legittima la presunzione che i casi di Massa e Carrara si colleghino a quelli di Sicilia. Bisogna colpire nel nascere codesti conati di barbarie con mezzi pronti e decisi” aveva scritto al re nella nota che accompagnava il decreto di stato d’assedio. Inevitabile che in quel clima surriscaldato un giovane ragazzo venuto da fuori trovasse benzina per la sua voglia di cambiare il mondo. E senza nessuna paura di rivendicarlo di fronte a una qualunque autorità costituita: “Egli stesso confessò ripetutamente in quest’ufficio di essere anarchico rivoluzionario e cioè di volere il sovvertimento degli ordini attuali con mezzi violenti sia individuali che collettivi” rilevava rassegnato il prefetto il 31 novembre del 1894.
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Casimiro Chiocchini e Giovanni Camillò |
Servire alla causa della rivoluzione
Casimiro Chiocchini di mestiere fa il falegname. Si è sposato con Guerrina Carloni ed esercita in una piccola bottega di proprietà del suocero sul viale parioli che la polizia definisce “una lurida capanna”. Da quelle parti passano e sostano, sempre secondo la polizia, “i peggiori ceffi dell’anarchia romana, tra i quali certi Zucchini Luigi, Emiliani Ernesto, Montesi Antonio, Lubrano Vito”. Eppure Casimiro deve saperci fare con il lavoro se nel giro di qualche anno quella lurida capanna al parioli diventa un florido stabilimento in via Capo d’Africa che dà lavoro a parecchi operai. Quando nel 1932 si concederà qualche giorno di vacanza per far conoscere alla moglie il suo paese natio, la Prefettura di Pisa rileva perplessa: “Alloggiò in questa città in un albergo di prima categoria ed era provvisto di ricco corredo e di discreti mezzi, tanto da far sorgere sospetti per le sue mutate condizioni economiche”. Ma alla fine il commissariato romano del Clelio dovrà ammetterlo: “Instancabile lavoratore, ha saputo procurarsi un buon nome nell’ambiente industriale romano e formarsi una buona posizione finanziaria”.
In quegli anni Casimiro viene descritto come “un uomo alto 1.65, di corporatura snella, i capelli castani brizzolati, gli occhi castani, sbarbato, pallido, dall’andatura svelta, con un neo sul sopracciglio destro”. Le sue mutate condizioni economiche non gli fanno certo rinnegare l’idea: “I denari che ho guadagnato devono servire alla causa della rivoluzione” ama ripetere e la polizia scrive: “Continua a mantenere fede nei principi anarchici sempre professati e pur non partecipando a riunioni o maneggi sospetti, è solito finanziare la stampa anarchica, i compagni più bisognosi ed anche persone povere che si rivolgono a lui”. Quando la mattina dell’11 settembre 1926 a Porta Pia Gino Lucetti fallisce l’attentato contro Mussolini, lui è in banca: “Stava prelevando del denaro dal conto corrente e subito telefonò al suo segretario perché sul portone dello stabilimento innalzasse la bandiera nazionale e nel pomeriggio di quel giorno si limitò a dare la paga agli operai” segnalava tempestivo un informatore giurando poi d’averlo sentito rammaricarsi che anche la seconda volta il colpo sia andato fallito: “Ha detto che non sarà così la terza volta perché a provarci saranno più d’uno”.
John Camillò invece, in realtà si chiama Giovanni. È nato in Calabria, a Maropati, il 22 novembre 1897. Figlio di una famiglia di modestissime condizioni, frequenta i primi tre anni di elementari e intanto impara il mestiere di calzolaio. Poi la guerra del 1915 lo porta lontano, ci va come volontario a combattere sul fronte italiano da Gorizia al mare e dopo Caporetto in Francia, sulle Argonne, vedendo cose “da far rabbrividire anche i cuori più duri delle rupi”. Viene congedato nel 1920 e anche per lui, come per moltissimi altri ragazzi del sud, non sembra esserci altra strada se non quella di andare a trovare fortuna nelle Americhe. Giovanni va prima a Buenos Aires e poi negli Stati Uniti, nel New Jersey, a Somerville, dove diventa John. È di media statura, i capelli biondi, gli occhi chiari, la faccia tonda, la barba e i baffi rasi. Si adatta a fare i lavori più umili ma la vita si fa sempre più dura e quando arriva la crisi del 1929, anche per lui sbarcare il lunario diventa sempre più complicato: “Si va avanti a pane e cipolle, si risparmia sulle fette di salame e sugli spaghetti. Sia maledetto il capitale infame, giovani forti e robusti ci ha ridotti nella più abbruttita miseria” scrive agli amici, senza però mai smarrire un incrollabile ottimismo: “Ma i giorni della vile borghesia restano contati e la nostra utopia di oggi sarà la realtà del domani e dal putridume di questa corrotta e bastarda società morente s’innalzerà la società livellatrice”. Non arretrerà di un passo neppure quando, nell’estate del 1933, la fame e la miseria gli porteranno via un figlio piccolo: “Sarebbe meglio che noi lavoratori si facesse il possibile a non mettere dei maschi in questo mondo pieno di ingiustizia, di vergogna e d’infamia. Ci hanno tolto tutto ma non arriveranno giammai a levarci quell’ideale che ci illumina come un gran faro” scrive a Salvatore Vellucci confinato a Ponza.
L’incontro con Errico Malatesta
John Camillò è diventato anarchico quando ancora portava la divisa. A cambiare la sua vita un incontro ad Ancona con Errico Malatesta: “Carissimo compagno e fratello, non puoi credere quale consolazione provai nel sentirti alquanto bene. Ma fossi di molto più grato se ti potessi vedere di presenza come ti vidi una volta ad Ancona al tuo ritorno da London. In questi tempi con grande dolore del mio cuore indossavo la nefanda divisa di soldatuccio del re. Insieme con me vi era un altro soldato, tale Cegna Augusto, da Macerata che standomi assieme sul fronte mi aveva dato il tuo opuscolo Fra contadini che io ho letto e riletto accuratamente” gli scrive in un precario italiano nel 1931. Negli Stati Uniti si è dapprima avvicinato al gruppo de “Il Martello” di Carlo Tresca e poi a “L’Adunata dei Refrattari”. Suoi principali riferimenti politici e umani sono Costantino Zonchello e Vittorio Blotto. A Malatesta scrive con regolarità informandolo delle cose americane, sui disoccupati cacciati dai soldati con i gas asfissianti; sulla fucilazione di Severino Di Giovanni avvenuta in Uruguay il 1 febbraio 1931; sulle condizioni di salute di Virgilia D’Andrea che è appena stata operata del brutto male che da lì a poco la ucciderà; sulle tante conferenze appena avvenute o appena programmate. Confessa che anche a lui a volte piacerebbe parlare, ma che non se la sente per la sua scarsa cultura. A volte si confida: “Te lo dico proprio in verità che nel vedere ogni giorno tutte queste ingiustizie ed infamie sempre a danno dei lavoratori non posso fare a meno di divenire sempre più nervoso”. Ma sempre riaffiora in fondo alle sue lettere l’ottimismo: “Abbiamo fede in un avvenire meno triste per la generazione futura. Verso l’anarchia va la scienza diceva Pietro Gori” scrive il 4 maggio 1932.
Quando il 22 luglio del 1932 Errico Malatesta muore, John capisce di avere perduto la persona più importante della sua vita: “Abbiamo perduto il compagno, l’amico, il padre, il maestro. Non noi personalmente soltanto, ma un’infinità di fedeli all’idea che egli così nobilmente personificava. Quanto ci sentiamo soli oggi senza di lui. Restano ad eternarlo nella storia del proletariato l’esempio mirabile della sua vita cristallina. Restano le opere e noi le studieremo ancora maggiormente con intelletto d’amore, lo faremo conoscere con più intensa fede e ci sforzeremo in tutti i modi per far si che sebbene morto esso vive ancora e più di prima nel gran cuore di tutti gli oppressi e di tutti gli assetati di giustizia” scrive a Elena Melli qualche mese dopo. E da quel giorno continuerà a mantenersi in contatto epistolare con la compagna del defunto leader dell’anarchismo italiano. La sprona, le fa coraggio, l’invita ad andare avanti sopportando il grande dolore e la fa partecipe del suo: “Nel vedere la fotografia della tomba del nostro caro Errico, ho pianto come un bambino. Gettiamo un fiore ed un saluto sulle tombe dei nostri cari e continuiamo la battaglia, non c’è altro da fare” le scrive l’ultimo giorno dell’anno 1933. Lettere puntuali, discrete, piene d’affetto: “Sono passati due anni dalla scomparsa del nostro caro Errico…”; “Ora sono tre anni che il nostro compianto maestro ci ha lasciati…” . E insieme il resoconto del primo maggio: “Un giorno intero passato a marciare incontrando tanti amici e compagni. Vedrai, il giorno verrà, è inevitabile. Dopo il tormento, il sacrificio, la persecuzione, verrà la vittoria. Il patibolo, la prigione, il bastone fascista non verranno a fiaccarci. Avanti, avanti sempre”. Oppure la trepidazione per i fatti di Spagna: “Qui continuiamo a vivere momenti di ansia e di speranza per i nostri cari dispersi per le vie del mondo” scrive nell’ottobre del 1936 per poi raccontare sei mesi dopo il dolore per l’uccisione a Barcellona di Camillo Berneri e Francesco Barbieri, detto “Ciccio”, calabrese come lui: “Mi auguro che questa infamia non rimarrà invendicata. I comunisti autoritari farebbero bene se in cambio di assassinare i compagni nostri assassinassero i veri nemici”.
Casimiro Chiocchini e John Camillò, separati da vent’anni e da molti chilometri, non si sono mai incontrati ed è molto probabile che ignorassero l’esistenza l’uno dell’altro. Se c’è un filo che in qualche modo tiene insieme le loro esistenze, è proprio l’intimo rapporto con Malatesta. Casimiro Chiocchini addirittura è, secondo la polizia, uno dei suoi maggiori finanziatori: “In rapporti così intimi che Errico Malatesta al suo ritorno a Roma da Londra prese alloggio in casa sua” si legge in una nota. Quando Malatesta era ormai prossimo alla fine e viveva sostanzialmente segregato in casa, costretto a respirare con le bombole d’ossigeno, Casimiro fece l’impossibile per andare a visitarlo un’ultima volta. Si fece coraggio interessando persino un funzionario fascista dal cuore buono il quale nel gennaio del 1932 scrisse ai suoi superiori: “A Roma, in via Querceto 23, vi è l’industriale Chiocchini Casimiro che dal nulla ha creato una delle principali industrie della città e sta assumendo importanti lavori per il palazzo delle nazioni unite a Ginevra. Tutta la sua attività di anarchico sovversivo consisteva nel portare una cravatta nera svolazzante. Ora non si occupa che di lavori, ha una famiglia di venti persone, ha bisogno di lavorare tranquillo e invece la polizia lo tormenta un po’. Per un atto di sentimento vorrebbe andare a visitare Malatesta che è in fin di vita. Ma ne è proibito. Si invocherebbe un provvedimento generoso”. Ma non ci fu verso. Dovette accontentarsi di fargli visita al cimitero e finire anche lui nell’elenco di coloro che il 23 luglio 1932, “si sono recati a visitare la salma del noto Malatesta”. Era la prassi per un uomo che continuava a fare paura anche da morto.
Fascismo e guerra
Le ultime notizie su Casimiro risalgono ai primi anni quaranta. C’era la guerra, lui aveva più o meno settant’anni, aveva messo al mondo otto figli di cui cinque maschi, un paio dei quali chiamati Cafiero e Angiolillo, e ancora si faceva arrestare nei bar di Roma perché “andava facendo stupidi apprezzamenti su fatti politici”. Nel 1942 si trovò costretto a presentare una domanda per ottenere un certificato di idoneità morale e politica senza il quale non gli sarebbe stato facile trovare commesse di lavoro, ma glielo negarono. Così prese carta e penna: “Dal momento che la legge italiana consente a qualsiasi delinquente comune di ottenere dal casellario giudiziario il proprio certificato penale con l’elencazione delle condanne riportate, non può esistere alcuna ragione la quale non sia un arbitrio, che vieti alla polizia di rilasciare a chi è considerato un delinquente politico il certificato sulla propria condotta, annotandovi tutte le colpe dell’interessato, il quale potrà così dimostrare di essere sempre un galantuomo e potrà continuare il proprio lavoro senza il rischio di essere confuso con i farabutti” scrisse alla Regia Questura.
Di John Camillò invece, perduto nel ventre dell’America, dove “si vuole che egli viva in concubinato con un’italiana, non identificata, con la quale ha procreato alcuni figli” scriveva nel 1938 la Prefettura di Reggio Calabria, l’ultima traccia si ferma al 30 aprile 1938. C’è la sua firma in fondo ad un articolo uscito sul periodico anarchico “Il Proletario” che il Consolato di New York, inviandolo al Ministero di Roma, definisce ignobile. È un articolo intitolato “Buffoni!” di commento all’onorificenza che papa XI ha appena concesso a Mussolini: “Il duce delle fetentissime camice nere potrà ora portarsi in vaticano per genuflettersi , ma le moltitudini seguiranno a disertare le chiese dove oggi si prega un dio bugiardo. Il libero pensiero cammina, non lo arrestò l’inquisizione romana, non lo arresterà il lercio duce delle lerce camice nere anche se avrà gli speroni d’oro. Il popolo attende. Di vederli penzolare uniti dal lampione più alto di piazza san Pietro, in nome di quella libertà che non è morta, in nome di quell’ideale che non è ucciso, ma alimentato, rigenerato, vivificato dalle ultime agonie, dagli ultimi spasmi. Al lampione buffoni goffi!, al lampione! Che importa se sarà oggi o domani? Sarà”.