1. Nl film I quattro monaci, diretto da Carlo Ludovico Bragaglia nel 1962,
Aldo Fabrizi e Erminio Macario travestiti da frate in un convento sono costretti
a lavare i piedi ai confratelli. Non so perché – forse per farla più alla svelta – in realtà i due lavano un piede per ciascun fratello. Si era in tempi in cui il concetto di “politicamente corretto” non era ancora così in auge come oggidì e, gamba dopo gamba, piede dopo piede, viene il momento in cui ai due frati lavanti se ne presenta uno nero nero. Che, ovviamente, viene immediatamente da loro categorizzato come sporco, prima di rendersi conto, alzando lo sguardo, che piede e gamba appartengono a quello che, all’epoca, sarebbe stato un negro – oggi mitigato in “nero” o, peggio, “di colore”.
Bene. L’episodio mi ha ricondotto ad una celebre pagina della leggenda aurea di Jacopo da Varagine (oggi Varazze) dove il brav’uomo racconta di uno straordinario intervento dei Santi Cosma e Damiano, che, come si sa, hanno ispirato a lungo e continuano ad ispirare quel poco di buono che l’umanità ha fatto e fa per curare i propri mali. Si narra, dunque, del guardiano di una chiesa consacrata proprio ai due santi medesimi in Roma – un guardiano afflitto da un terribile cancro ad una gamba cui, una sera, appaiono i due santi con un coltello in mano. Gli chiedono dove possano trovare una gamba sana e il guardiano dice loro di andarla a prendere nel Cimitero di San Pietro in Vincoli dove, proprio in quel giorno, fresco fresco, è stato sepolto un etiope. Detto e fatto: il guardiano si risveglia guarito – e con una gamba nera –, racconta l’accaduto e, curiosi, vanno a dissotterrare l’etiope e lo trovano con una gamba sana e con l’altra – bianca, quella del guardiano – tutta corrosa dal cancro.
Tutto ciò per dire che, pur trascurando il caso primigenio – quello della costola di Adamo da cui Dio ricava Eva –, l’idea del trapianto accompagna i sogni dell’umanità da lungi. Anche il caso dei tre giovinetti sacrificati da papa Innocenzo VIII per poter usufruire di una trasfusione del loro sangue può essere annoverato in quest’ambito alle voci “longevità” e “gagliardia sessuale”.
Tracce chiare di sperimentazioni mediche volte a soddisfare esigenze di questo genere possono essere individuate nella doppia operazione chirurgica con cui il fisiologo tedesco Arnold Adolph Berthold, nel 1849, prima trasforma un gallo in un cappone per poi ritrasformarlo in un gallo reinnestandogli il suo stesso testicolo. Più o meno sulla stessa linea si mosse quarant’anni dopo il medico francese Brown-Sèquard sostenne di essersi ribellato alla propria vecchiaia e di esserci riuscito brillantemente innestandosi estratti acquosi di testicoli di cane. Il che, secondo gli storici della scienza (come Federico Di Trocchio, in Le bugie della scienza, Mondadori, Milano 1993, pagg. 159-163), è probabilmente falso, perché il testosterone è poco solubile in acqua – è più probabile, allora, che l’esperimento non l’abbia affatto compiuto o che Brown-Séquard abbia goduto di un “effetto placebo”.
Se a ciò aggiungiamo che, nel 1902, Alexis Carrell inventa la tecnica dell’anostomosi vascolare per suturare i vasi sanguigni, possiamo dire che l’avvento di un Voronoff era dunque maturo.
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Serge Voronoff |
2. Serge Voronoff – dando seguito alle sue intuizioni sul sistema endocrino – ha l’idea di innestare fettine di testicoli di scimmia nei testicoli umani. Otto frammenti li innesta, dopo anestesia locale, anche in Anatole France – quando il grande scrittore, secondo lui, aveva sessantun anni ed era pressoché cadaverico (“senilità precoce”, era la diagnosi) – e questi 23 giorni dopo ottiene una magnifica erezione, destinata a ripetersi più volte nei giorni successivi. Ma il racconto presenta qualche incongruenza, visto che Voronoff opera sull’uomo soltanto dal 1920 in poi – e, all’epoca, Anatole France, di anni, ne ha già 76. Il che introduce il problema dei successi scientifici di Voronoff. Questi successi possono essere messi in dubbio innanzitutto per quel che – dal 1960, grazie a Peter Medawar e Mcfarlane Burnet – sappiamo intorno alla risposta immunitaria, all’istocompatibilità ed ai rigetti di trapianti. In secondo luogo, ovviamente, possono esser messi in dubbio per quel che oggi sappiamo dell’effetto placebo, ovvero su quanto conta la persuasione del paziente in ogni processo terapeutico.
È ormai anzianissimo, Voronoff, allorché scrive Dal cretino al genio che, oggi – nell’ambito di un’ormai consolidata collana dedicata ai fondamenti ed alla storia della scienza, con un bel saggio di Massimo Rizzardini, viene riedito da Melquiades. Voronoff lo pubblica a New York, nel 1941, dove è rifugiato per sfuggire alle leggi razziali in Francia – quelle stesse sostenute alacremente dal suo amico Alexis Carrell – e, per certi versi, costituisce anche una sorta di bilancio della propria esistenza. Cita i propri successi e teorizza pro domo propria.
Dal cretino – un cretino che all’epoca designava fisicità prima che categorialità – al genio il passo non è comunque agevolissimo. La tirossina – ormone tiroideo – può portare in pochi mesi il cretino fino alla normalità, ma, per giungere al genio, ci vuol altro: l’emersione di forze superiori dal subconscio – un subconscio, anche qui, più fisico che categoriale: un analogo di quello che oggi chiameremmo “sistema limbico” – e, magari, l’appartenenza a classi sociali umili (mai visto il figlio del banchiere fare qualcosa di buono, mentre è sempre possibile che qualcosa di straordinario venga fuori dal figlio del mugnaio).
Il genio, comunque – una volta diventato tale – non avrà vita facile, perché dovrà affrontare quelle che Voronoff – con ottocentesco e darwiniano linguaggio – chiama le “lotte”. Devono lottare i musicisti, gli scrittori, i poeti, i pittori e, ovviamente, devono lottare gli scienziati di genio. Contro che? Contro invidia e gelosia di chi il genio non ha. Contro corporazioni complottarde pronte a tutto pur di conservare i propri privilegi non facendo posto al nuovo genio che, con la sua scoperta, ne porrebbe in dubbio quantomeno – se non ne minasse alla base – l’autorità.
L’unica categoria di geni entro certi limiti esentata dalla lotta – e qui Voronoff mostra tutta la sua beata ingenuità – è quella dei filosofi. Che, da un lato, “non sono lottatori”; dall’altro, perlopiù, nessuno li capisce, “si perdono sulle nuvole”, e, dunque, nessuno gli invidia niente.
Fra i filosofi, tuttavia, ce ne sarebbero alcuni che al principio della lotta, obtorto collo, devono sottostare. Si tratterebbe dei filosofi che vorrebbero combattere i vizi umani, imporre nuova morale, purificare la religione e prospettare ideali politici. Questi sarebbero filosofi rivoluzionari – fa l’esempio di Confucio, Socrate, Platone, Aristotele e Spinoza, tutta gente che, se non ci ha lasciato la pelle in malo modo, perlomeno ha avuto vite difficili – e andrebbero tenuti ben distinti da quelli che “a forza di sottomettere le loro cellule pensanti ad una ginnastica intensiva sono riusciti a farle arrampicare ad altezze vertiginose dalle quali essi non vedono più niente”.
Crede, il buon Voronoff, che i “metafisici” – ovvero quelli che “soffocano le loro vaghe dissertazioni in un linguaggio ancora più vago ed oscuro”, un linguaggio in cui “il lettore non capisce niente perché non ha niente da capire” -, in virtù di compartimenti stagni, siano ben separati dagli altri – così come gli estetologi, che, infatti, nessuno si sarebbe mai sognato di perseguitare.
Il fatto che ogni opinione in ordine alla morale o all’estetica, al diritto o alla scienza naturale possa –anzi, debba – discendere direttamente da assunti di ordine metafisico o comunque inerenti la teoria della conoscenza, non gli passa nemmeno per la capa. L’idea che qualsiasi giudizio – sia esso morale o estetico – derivi per forza di cose, nella consapevolezza oi nell’inconsapevolezza di chi lo emette, da un sistema di pensiero non lo sfiora neppure.
Il modo in cui Voronoff racconta di sé – il modo discreto con cui celebra i propri risultati ed il proprio prestigio: migliaia di innesti di testicoli di scimpanzè in ricchi e potenti del mondo – è tipico di certi “grandi” che, nell’accademia e nei salotti della propria scienza, ritengono di aver ricevuto meno di quanto avrebbero meritato. In linea di massima, a lui è più che sufficiente, costruire una teoria del mondo sociale che, consolandolo delle diffidenza patita, ne giustifichi la persecuzione o quello che, in un modo o nell’altro, con un nome o con l’altro – fatto salvo il conto in banca, perché il genio, ogni tanto, paga –, crede di aver patito.
Felice Accame
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