Giaglione, 23 ottobre. È il giorno del “taglio delle reti”, un’azione diretta non violenta contro le reti del fortino della Maddalena.
Ho percorso la Strada delle Gorge decine di volte, e ogni volta era diversa: oggi la foschia avvolge l’oro e il rame degli alberi d’autunno, sfumando i contorni. Da questo balcone lontane ma nette si scorgono le luci feroci che illuminano il filo spinato della zona occupata dalla polizia. Qui attendo che arrivi il corteo.
Sono trascorsi cinque mesi giusti dal primo attacco alla Maddalena. Tanta acqua è passata sotto i ponti della Dora da maggio, quando il suono delle motoseghe scandì il ritmo di quella prima notte di barricate.
Da quel giorno siamo sempre stati in pista. Mille iniziative di resistenza, informazione, lotta. A volte tutti quanti, a volte in pochi, a volte convinti a volte meno.
Da mesi i No Tav assediano il fortino. Ci sono state le nottate rotte dal fragore delle bombe carta e dei petardi, annegate nel fumo dei lacrimogeni e le passeggiate tra le vigne chiuse dal filo spinato. C’è stato Turi sull’albero e i ragazzi che tagliavano le recinzioni, ci sono state le pietre ai poliziotti e i bossoli di lacrimogeno in faccia alla gente. Ci sono state le passeggiate di tutti quanti e gli assalti di chi voleva e poteva.
C’era e c’è un movimento popolare che non si fa spaventare né dalla violenza della polizia, né dagli assalti dei media, né dalle denunce e dagli arresti.
C’è un movimento che si interroga giorno dopo giorno sulle scelte da compiere e prova, non sempre con successo, a percorrere una strada condivisa dai più.
Il rischio della paura
La settimana tra Roma 15 ottobre e Valsusa 23 ottobre è stata una lunga settimana. Lunghissima. Il 15 ottobre degli indignati a Roma ha proiettato la sua ombra qui in valle.
Secondo il Ministro dell’Interno i No Tav hanno addestrato quelli che la stampa chiama “Black Bloc”. Maroni annuncia che i violenti di tutt’Italia si sono dati appuntamento nei boschi di Chiomonte. L’esito della giornata è già dato per scontato.
Eppure tutte le carte sono sul piatto: il movimento ha annunciato a chiare lettere le proprie intenzioni: costruire una giornata di azione diretta non violenta, o, se si preferisce, di disobbedienza civile collettiva. Tutti insieme, disarmati, a volto scoperto a violare le leggi, tagliando le reti.
Lo scopo del Governo è chiaro: provare, ancora una volta, a spezzare il movimento, a dividerlo in buoni e cattivi, violenti e non violenti. Questa volta sono stati ad un pelo dal farcela.
Un’azione, pensata come gesto di ribellione esplicita all’occupazione militare, negli interventi di alcuni, sia in lista sia in assemblea tende a trasformarsi in un pressing delle componenti moderate e capitiniane, nei confronti delle altre anime del movimento, più propense a giudicare legittima la difesa. Niente di troppo esplicito, ma è un vento che soffia fastidioso.
Tuttavia il rischio più forte e che la paura tenga lontana la gente, che le minacce del ministro, l’annuncio di nuove misure repressive abbiano colpito nel segno. Per chilometri intorno al fortino è zona rossa.
Nulla da dimostrare
La mia attesa si rompe. Ci vogliono diverse ore per raggiungere la baita. Siamo dieci, forse quindicimila: la gente della grandi occasioni. Tra noi e la baita, per segnare il confine della zona vietata, c’è una rete piazzata lì dalla questura nella speranza che il movimento si accontenti di tagliare quella rete lontanissima dal fortino. Ma i No Tav tagliano e vanno avanti. Oltre c’è un altro sbarramento di jersey di cemento e acciaio, sorvegliato da uomini in armi. Di lì non si passa. Ci si divide per i sentieri. Quello basso è ripido, scosceso, pericoloso. Ma si va, incuranti del dirupo e dei divieti. Sul ponte sul torrente Clarea ci sono decine di poliziotti. Centinaia e centinaia di persone guadano il fiume: qualcuno fa una catena umana per aiutare chi ha difficoltà.
I poliziotti, diversamente dalle altre volte non sono nel recinto di filo spinato a pochi passi dalla baita: sono fuori e si interpongono tra i No Tav e le reti. I più premono perché si torni indietro, paghi del risultato raggiunto. Sono d’accordo: un movimento che ha violato apertamente le prescrizioni della questura, che vietavano ogni accesso per la baita, un movimento che si è buttato senza timore per sentieri battuti dalle truppe dello Stato, un movimento che non si è fatto spaventare dalle minacce di Maroni e dal clima pesante calato dopo il 15 ottobre, questo movimento non ha nulla da dimostrare.
I No Tav continuano a fare paura. Tanta paura che il giorno successivo il governo, inserisce nella bozza del “decreto sviluppo” la trasformazione del fortino della Maddalena in sito di interesse strategico. Un’ulteriore militarizzazione dell’area.
Sullo sfondo resta tuttavia un fatto: la tattica non violenta, alla prima difficoltà – i poliziotti piazzati all’esterno delle reti - si è sciolta come neve al sole. Coloro che più avevano sostenuto la chiave “non violenta” della giornata non sono stati capaci di rendere operative le loro proposte. Eppure sarebbe bastato poco: una decina di persone note a fare da apripista e un po’ di nervi saldi. Era un gesto simbolico, ma certi simboli, se cullati ed evocati, diventano potenti e non possono essere trascurati. Quest’epilogo lascia un po’ di amaro in bocca, confermando il dubbio che per alcuni questa giornata fosse una sorta di spartiacque tra l’estate delle pietre e l’autunno delle cesoie.
È tempo di voltare pagina
Sulla via del ritorno mi fermo sul balcone dell’andata. Le luci del non cantiere sono ancora più livide. Le reti sono ancora lì. Non sono bastate le pietre e le bombe carta, non sono servite le cesoie non violente.
Il problema, quello vero, è mettere davvero in difficoltà il governo e la lobby dei costruttori.
Non possiamo continuare ad aspettarli nel fortino di Asterix, perché quella storia è già scritta e porta impresso il marchio della sconfitta. Non si vince con la forza contro chi ne ha il monopolio legale, non si vince contro i blindati, i lince, gli alpini, i parà, i poliziotti, i carabinieri, i forestali… tutto l’apparato militare dello Stato contro di noi.
Il movimento popolare, radicato, dove gli anziani percorrono i sentieri a fianco dei giovani, dove i bambini giocano in paese, disegnando un mondo senza reti e filo spinato, è una forza che non va dispersa, annullata, in un gioco dove tutte le carte migliori le ha un baro con la pistola sotto il tavolo.
È tempo di voltare pagina. Serve una riflessione attenta, pacata, che coinvolga un po’ tutti.
Il movimento fa fatica e definire una strategia che sappia andare oltre le reti del fortino, oltre le cesoie e le pietre, per riversarsi nelle strade, nei palazzi di chi decide, nello sciopero generale e nel blocco di tutto quanto.
La nostra forza è il radicamento popolare che potrebbe – ancora una volta – rendere ingovernabile un intero territorio.
Un'altra partita
Vista da queste montagne la Roma degli indignati, dei vendola/casarini/demagistris, la Roma del gioco delle poltrone, la Roma del “nuovo” movimento dei movimenti, la Roma di chi spacca le banche e le agenzie interinali è lontanissima. Un altro pianeta.
Non sono andata a Roma. Per scelta. Roma era un grande palcoscenico, un palcoscenico per le varie componenti di un movimento che si pretende plurale ma non ha nemmeno la coesione di un vaso rotto. Il vaso rotto, nei suoi frammenti, porta la traccia, fors’anche la possibilità che una buona colla lo rimetta insieme. Roma si annunciava ed è stata un vaso vuoto. Tutto si è giocato fuori e intorno ad una scena dove ogni personaggio recitava un autore diverso.
Ciascuno il suo.
A Roma le solite vecchie facce tentavano di far leva sul malessere sociale diffuso per portare in dote a Bersani e a una futura coalizione elettorale, il sostegno delle piazze indignate.
Sinistra e Libertà, la Fiom, i Cobas mirano a raccogliere l’eredità di Rifondazione, come partito di opposizione e di governo. I post disobbedienti provano a raccogliere l’ondata populista, sostenendo e facendoci sostenere dall’IDV.
Chi fa fatica ad arrivare a fine mese, chi sa che la precarietà è un presente intrascendibile, gli anziani cui è negata una vita dignitosa non hanno niente da guadagnare in questo gioco.
Certo sottobosco alternativo ha cooperative amiche da sostenere, centri sociali ad affitto concordato da mantenere, santi in parlamento per ogni evenienza.
Gli uomini e le donne in nero, la cui presenza era annunciata sui muri di tutte le città, hanno giocato la loro partita: spezzare il corteo, usandolo pur disprezzandolo. Probabilmente speravano, senza riuscirci, di trovare imitatori tra i giovani incazzati.
Intendiamoci. Non mi metto certo a piangere se qualcuno spacca bancomat o rompe le vetrine dei caporali legalizzati se è una pratica generalizzata, condivisa, popolare. Se, soprattutto si coniuga con la capacità di porre concretamente le basi, oltre le rovine di questo mondo, di un mondo in cui ciascun uomo donna bambino sia fine e non mezzo.
A Roma questo non è accaduto né era ragionevole ritenere che potesse succedere. L’emancipazione o è opera degli oppressi e degli sfruttati o non è. La rivolta, o parte dalle periferie dove la crisi affonda i suoi canini, dai territori in lotta contro discariche e inceneritori, dai campi dove lavorano i nuovi schiavi, dalla gente comune stanca di pagare per la guerra e l’esercito, o non è.
Non per caso i manifestanti che hanno attaccato banche supermercati agenzie interinali non hanno vinto il premio simpatia tra gli altri partecipanti al corteo. Questo è un fatto. Ma il fatto più importante e decisivo è che non sono stati imitati. Se la “rivolta è contagiosa” la mimesi della rivolta non infetta nessuno.
Parimenti la mimesi della partecipazione non ha nulla a che vedere con il radicarsi di esperienze di autonomia temporanea ma reale dall’istituito. Quell’autonomia, che tra mille limiti e difficoltà, stiamo sperimentando nel movimento No Tav. In Val Susa sono le istituzioni ad essere variabili dipendenti dai movimenti, non il contrario. Questo avviene perché il movimento, se qualche volta le usa, tuttavia non se ne lascia condizionare.
La scelta antiviolenta
Ma Roma è stata anche altro. A Roma c’erano decine di migliaia di persone, slegate dai gruppi e dalle organizzazioni che hanno animato la piazza.
Gente che non è più disposta a subire, che sa che questo sistema non fa che produrre oppressione e miseria, che è irriformabile. Gente che si riconosce nello slogan del “No debito”, che pensava che una piazza indignata forte potesse rimettere in piedi un processo partecipativo reale.
La tattica di piazza criminale di Maroni ha messo in corpo a tanti ragazzi la voglia di fare come i loro coetanei di Tunisi e di Atene.
Quando la polizia ha attaccato il corteo, caricando con auto e blindati a tutta velocità, a migliaia hanno affrontato i blindati, spesso a mani nude o armati di quel che trovavano in strada, si sono frapposti tra la furia dei poliziotti e carabinieri e una piazza che il governo temeva si riempisse di un’indignazione che avrebbe potuto travalicare le intenzioni di tanta parte degli organizzatori.
Un’indignazione profonda ha spinto migliaia di persone a cercare di bloccare i caroselli. È un’indignazione che si fa rabbia di fronte alla violenza legalizzata dello Stato.
La scommessa è che questi sentimenti si facciano agire politico e sociale nei luoghi dove si vive tutti i giorni.
Continuare a discutere – approvando o riprovando – cesoie e pietre, bombe carta e sampietrini è inutile e fuorviante. Come fuorviante è l’opposizione tra violenza e non violenza. Nel difficile equilibrio tra etica della convinzione ed etica della responsabilità, la scelta antiviolenta mi pare l’approdo più ragionevole ed umano.
Fuggire la violenza, massima espressione della negazione della libertà individuale e collettiva, è un’attitudine che considero consustanziale alla mio essere anarchica. Parimenti il difendersi dagli attacchi è una pratica dolorosa ma necessaria, perché spesso la mancanza di reazione diviene complicità.
Se il 15 ottobre fosse stato lo specchio di un movimento reale, radicale e radicato le questioni, anche di metodo, sarebbero altre.
Non c’è bisogno di ricordare che i cattivi sono sempre gli uomini in divisa, pagati per difendere un’organizzazione sociale e politica, basata sulla violenza, lo sfruttamento, l’oppressione, la negazione di libertà e dignità.
Chi sta nei movimenti, chi li attraversa con tensione libertaria, sostiene e promuove l’autogestione delle lotte, la partecipazione diretta, per allargare il fronte di chi sa fare e decidere da se. Qui è la nostra forza. A Roma, in Valsusa, ovunque.