Certo, a vedere quelle due figure muoversi con poca grazia sul palco di Bruxelles in occasione dell’ennesima riunione dei capi di Stato europei, il 22 ottobre scorso, sembrava di assistere ad un film muto del primo Novecento, dove i personaggi esprimevano con il corpo, spesso goffamente, ciò che non potevano comunicare con la parola. Andavano, la Merkel e Sarkozy, avanti e indietro sul proscenio, fermandosi soltanto per stringersi calorosamente le mani con il sorriso da ebeti stampato su volti stravolti. Tornavano poi sui monumentali leggii opportunamente separati, e continuavano a recitare la parte dei salvatori della patria europea. Naturalmente, dalle risposte che davano ai giornalisti presenti alla conferenza stampa, si capiva che non sarebbero riusciti a salvare proprio nulla e che neppure tra di loro vi fosse alcuna unità d’intenti. Insomma questo direttorio franco-tedesco, privo di ogni legittimazione e, soprattutto, vuoto di contenuti, aveva il solo pregio di testimoniare una realtà, maldestramente occultata, di un’Europa allo sbando, incagliata tra gli scogli di egoismi nazionali e di istituzioni comunitarie che, nel tentativo di arginare il collasso del sistema, travalicano disinvoltamente i loro compiti statutari (non è nella facoltà della BCE, per fare solo un esempio, acquistare titoli sovrani dei paesi membri) e intervenire a piede teso nelle politiche nazionali, non soltanto con raccomandazioni di carattere generale, funzionali all’equilibrio del sistema, ma imponendone le modalità d’intervento, assolutamente indifferenti alle conseguenze economiche e sociali che taluni percorsi attuativi potrebbero provocare in contesti già destabilizzati dalla crisi.
Nelle misure che si intendono prendere nell’immediato futuro e che si spacciano per salvifiche, sembrano prevalere alcuni miti che stentano a tramontare.
Il primo mito che non si riesce a sfatare à quello del pareggio del bilancio dei singoli Stati. Certo, in periodi di normalità, auspicare che ogni contesto nazionale non viva al di sopra delle proprie possibilità è un percorso virtuoso che va perseguito. Ma il dramma che attanaglia l’intero mondo occidentale è che in tutti i Paesi del Vecchio e del Nuovo continente i deficit si sono già prodotti e hanno soffocato l’economia reale. Le politiche economiche attuate, sono state, e sono, indifferenti alla correttezza del rapporto tra produzione e reali (e non violentemente indotte) esigenze dei così detti fruitori finali, che sono poi le comunità che vivono nel regno del sistema capitalistico. Da una parte il mito della produzione che si riproduce all’infinito, autoreferenziale, alla ricerca costante di profitti crescenti e dello sfruttamento sistematico del lavoro, dall’altra, la crescente e ormai preponderante, importanza della ricchezza virtuale, quella ricchezza derivante dal denaro che riproduce se stesso, strumento ed esito insieme di quella speculazione finanziaria che ha provocato la crisi nella quale ci ritroviamo e dalla quale non si sa ancora come uscire.
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Angela Merkel e Nicolas Sarkozy |
Disagio crescente
In questo contesto il richiamo al pareggio dei conti pubblici è un vano gridare alla luna, anzi, è un imperativo che rischia di affrettare la morte del malato. E ci spieghiamo. Quello nel quale tutto il mondo occidentale si muove, è un contesto con sempre più ampi segnali recessivi. Ciò significa che le politiche monetaristiche attuate hanno sin qui debilitato i consumi, hanno significativamente corroso i risparmi privati e, di conseguenza, ne hanno contratto la capacità di consolidarne gli assetti patrimoniali e gli investimenti per il futuro. Il collasso di interi settori produttivi (immobiliare, agroalimentare, terziario, ecc.) è significativo di una società che non cresce, anzi, si impoverisce. Come si fa, allora, a chiedere a queste donne e a questi uomini che mostrano ogni giorno di più il disagio crescente del loro esistere quotidiano, come si fa a pretendere da loro che si svenino ulteriormente per sanare debiti pubblici di cui in massima parte sono incolpevoli? Ma, poi, tutte le teorie economiche su una cosa sono sempre state concordi: nel predicare che il volano per lo sviluppo è sempre l’alto livello dei consumi privati. Senza questo presupposto ogni crescita è impossibile e il declino si rende evidente con l’invenduto che si accumula nei depositi degli apparati produttivi, con la paralisi della produzione industriale e il blocco degli investimenti per arricchire il tessuto sociale di beni e di servizi. Basta gettare lo sguardo su quel che succede in Italia, con i servizi pubblici al collasso e il patrimonio artistico, archeologico e monumentale che perde pezzi.
Il secondo mito da sfatare è la presunzione – autentica o meno – che, per rimettere in moto il motore della crescita, occorra ricapitalizzare il sistema bancario internazionale. Al moloch del sistema creditizio americano ed europeo sono stati sacrificati miliardi e miliardi di denaro pubblico.
È vero: i portafogli dei principali istituti di credito europei (in America il discorso è parzialmente diverso) sono gonfi di titoli sovrani, accumulati nei periodi, remoti e recenti, nei quali si riteneva che si trattasse di oro colato, sempre trattabile senza grossi patemi. Solo che la speculazione e le politiche economiche sbagliate, la disinvolta gestione delle riserve da parte degli stessi istituti di credito hanno creato vuoti difficilmente colmabili da mere misure di ripatrimonializzazione. Rafforzare il sistema patrimoniale di un istituto di credito è cosa assai diversa che correggerne i comportamenti, spesso tutt’altro che virtuosi, e questo obiettivo si raggiunge controllandone rigorosamente i bilanci, soprattutto per evidenziare ed eliminare i molti scheletri che ancora esistono nei loro armadi. Continuare a consentire alle banche di mascherare attività speculative e disinvolte erogazioni di crediti non correttamente garantiti, manomettendo i bilanci con capitoli fasulli, significa per gli organi di controllo (le Banche centrali) essere complici dei vizi del sistema.
Balletti goffi e innaturali
Ma, se come si sostiene, la destinazione di denaro pubblico agli istituti bancari non serve soltanto a ricostituirne lo stato patrimoniale, ma ad immettere liquidità per finanziare un sistema produttivo asfittico, allora le obiezioni sono semplici e comprensibili. In una situazione come la nostra dove i consumi non decollano e le attività imprenditoriali sono in sofferenza, occorrerebbe un credito a lunga scadenza e a tassi moderati per renderne produttivo l’accesso, condizioni, queste, che sarebbero onerose e rischiose per qualsiasi impresa finanziaria privata. Quindi altri dovrebbero essere i canali e le modalità per sostenere il sistema produttivo con soldi pubblici da erogare senza eccessive intermediazioni. L’apertura di crediti garantiti dallo Stato a tassi agevolati e rigorosamente finalizzati ad iniziative industriali e commerciali credibili, non speculative e, soprattutto e prevalentemente, finalizzate al mercato interno (quando parlo di Stato mi riferisco ad uno Stato che, pur con le pecche originarie contestate quotidianamente da noi anarchici, abbia un rapporto corretto con i suoi cittadini). In questo modo e ripristinando il valore sociale del lavoro, si potrebbe aumentare il livello di occupazione e, con il conseguente incremento dei redditi delle famiglie, riattivare la propensione ai consumi.
Il terzo mito da sfatare è quello dell’Unione Europea come fattore di stabilità economica e politica. A giudicare da quello che è sotto i nostri occhi, parlare di unione sa già di grottesco: si tratta di 27 Paesi divisi su tutto, con economie e sistemi politico-sociali diversissimi, alcuni vincolati da una moneta unica priva di un complessivo mercato di riferimento e senza un governo che ne regoli le politiche . La sconsiderata urgenza di allargare a dismisura il cerchio dei componenti ha finito col rendere ingestibile l’intero sistema. Il risultato è che, dopo le fallimentari prove di aggregazione effettiva, le spinte centrifughe si moltiplicano, spinte che sono meno evidenti nelle dichiarazioni ufficiali di quanto non lo siano nelle opinioni pubbliche, specie in questi tempi magri nei quali anche a popoli ignari e lontani dall’epicentro della bufera si chiedono sacrifici pesanti per tentare di sanare situazioni che non hanno in alcun modo contribuito a determinare.
Ma non bisogna andare molto lontano per misurare la disaffezione verso l’Europa. Nella Repubblica di Berlino, tre cittadini su quattro non hanno alcuna fiducia nella moneta europea e solo uno su quattro si fida dell’Unione Europea. Per quel che riguarda il salvataggio dei Paesi in crisi, un solo cittadino su cinque è disposto a contribuirvi. Per non parlare di quel che pensano i tedeschi sui vantaggi che la Germania ottiene rimanendo nell’Unione: il 34% pensa che il Paese avrebbe tutto da guadagnare uscendo dalla Comunità. Nel valutare queste scarne cifre, bisogna tenere presente che la Germania è l’economia di gran lunga più forte dell’area e senza la sua locomotiva i vagoni dell’eurogruppo rimarrebbero al palo.
Per concludere. Certo, in questo panorama l’Italia di Berlusconi gioca il ruolo che le compete: è inaffidabile come comunità di cittadini prima ancora che come classe politica. All’estero si meravigliano della nostra capacità di sopportare senza molti sussulti un governo che scrive i suoi sconci balbettamenti sulle colonne di un periodico tragicamente farsesco. Certo, non sarà del tutto giusto, ma noi, oltre confine, siamo perfettamente rappresentati dalle nostre reti televisive e facciamo francamente sorridere quando ci indignamo per i sorrisi ironici che sono corollario costante ogni qual volta si tratta di accreditare in sedi internazionali la nostra credibilità.
È evidente che la Merkel e Sarkozy, con i loro balletti palesemente goffi e innaturali, hanno poco da sorridere: la loro immagine di salvatori della patria, alla prova dei fatti, è scaduta a livello di vignetta satirica. Ma è sempre bene guardare in casa propria prima di criticare quella degli altri.