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Psicoterapia accademica
Ho fatto un sogno terribile.
Ho sognato che ero ancora precaria, contrattista all’università: uno statuto d’esistenza più basso di quello dei lombrichi. Nel sogno, le cose stanno così: mentre il mio capo rimugina le sue perle di saggezza in un qualche ritiro campestre, io serva della gleba faccio esami per lui, per il corso di lingua, per qualche amica sconosciuta, per chi c'era, non c'era o avrebbe dovuto esserci. Nel processo, intreccio una conversazione multilingue con un sosia di Oscar Wilde che fa il Conversatore madrelingua a tempo perso - nel senso che quando ha tempo da perdere si manifesta, altrimenti no. Già che ci sono, mi faccio angariare da un'altra contrattista di rango inferiore, resisto a minacce di numerosi studenti, docenti e non docenti con vari gradi di invalidità, scopro che un'amministrativa cafona si chiama come me e decido di cambiar nome, non faccio pipì, non mangio, e in questo stato d’animo affronto l’ultima studenta della giornata: una bellezza esotica, vestita da cubista e del tutto ignara di un qualsivoglia uso dell’oggetto libro. Comincio a interrogarla.
Io: «Doveva leggere tre libri, per l'esame, non uno solo. Gli studenti non frequentanti dovevano leggerne tre, e lei non ha frequentato.»
Studenta: «Non può farmi fare l'esame da frequentante?»
Io: «Ma lei non ha frequentato per niente.»
Studenta: «Va be', ma come frequentante dovevo portare un solo libro. Perciò il programma è giusto. Facciamo così?»
Io: «No»
Studenta: «Sono iraniana.»
Ammutolisco, provo istinti omicidi e sono interrotta dal desiderio di far pipì.
Studenta: «Un'eccezione ...»
Ringhio, avendo imparato questa elementare manifestazione di disappunto dal mio cane.
Studenta: «Allora lo dico al professore, glielo dico che lei non mi fa fare l'esame accorciato, e sono iraniana.»
Io sto per mordere quando l'iraniana se ne va. Quietamente, mi inzacchero i pantaloni tornando a casa, dove scopro che la mia lavatrice è rotta e il mio cane è idropisico. In questa desolazione suburbana, sorseggio un bicchiere di ottimo vino e per tirarmi su decido di ballare una polka: sarà pure servito a qualcosa il mio corso di danza, no?
Un sogno terribile, l’ho detto. Quando mi sono svegliata, mi sono sentita molto grata a Buddha, Dio, Maometto e il Divino Capoclasse per il fatto di essere quella che sono: una docente universitaria con un obsoleto senso etico, una deontologia che mi impedisce di farmi gli affari miei sempre e comunque e un equilibrio zen che mi vieta di armarmi e procedere alla sistematica eliminazione dei rami secchi accademici, ecumenicamente distribuiti in ogni ordine e rango. Mi piace il lavoro che faccio. Amo i miei studenti. Cerco di formarli alla vita. Certo che è complicato. Negli ultimi tre anni, la gioiosa introduzione di quattro nuovi ordinamenti ha artisticamente mescolato curricula e piani di studio in un gioco combinatorio degno di Einstein. Se uno studente rimane indietro con gli esami, è più semplice abbatterlo a fucilate che condurlo alla conclusione del suo iter universitario.
Io mi ostino e ci provo. Gli studenti più eroici riescono persino a finire il dottorato, di solito senza borsa di studio e passando il sabato sera a servire birre in un locale per arrivare alla fine del mese. Poi, col titolo di “dottori”, si fanno sbattere alcune porte in faccia, dopo di che migrano, cambiano nome e identità e vanno a fare carriera all’estero. E noi stiamo qui, illuminati dalla meritocrazia della riforma. Un esempio? Finito il dottorato, molti anni fa, ho partecipato a 13 concorsi da ricercatore. Per vincerne uno, bisognava superare due prove scritte e un orale. Quando ho vinto il quattordicesimo concorso, mio marito si è congratulato con le parole seguenti: “Brava, amore. Chi la dura, la vince.” Ancora oggi non so perché ho superato l’ultimo concorso e gli altri no. Però so che, in questo nuovo sistema meritocratico, il concorso da ricercatore consiste in un colloquio sui propri titoli. Schlus. Tutto qui. Chi è quel deficiente che non sa parlare dei suoi titoli? Dev’esserci un vulnus, ma io non so qual è.
Però non drammatizziamo. È un momento di transizione, la fase magmatica di una nuova creazione. Intanto, i colleghi migliori sono talmente fuori di zucca che non danno più neanche i numeri, ma i ceci, e dopo averli dati, provano a contarli, come i bambini dell’asilo, ma non ci riescono. Il che dà una misura di come siano ridotti i nostri migliori cervelli, almeno quelli che non sono scappati all’estero. Ci ho riflettuto, e ne ho concluso che attualmente alcune sedi universitarie non possono neanche definirsi centri psichiatrici. Più correttamente, direi che sono multiproprietà, che tutti vogliono abitare nello stesso momento. Ciò non è possibile, e dunque si genera il caos. E questa metafora mi sembra di averla già usata, ma si vede che anche qui va bene lo stesso.
Una mia collega, di solito appassionatissima del suo lavoro, la settimana scorsa ha candidamente detto che non poteva venire a una riunione: «Ho prenotato l’estetista, ed è carissima, con tutto il lavoro che ha da fare per rendermi presentabile». Naturalmente scherzava, anche perché è in assoluto la collega più ironica e intelligente che ho. Nella cornice dello stesso scherzo, ha aggiunto che, in futuro, potrebbe persino accettare di introdurre l’anno accademico con un suo sproloquio magistralis solo se le consentiranno di farlo in gaelico, lingua ancora più fashion dell’inglese, che insegna. Quest’ultima considerazione mi ha un po’ preoccupata. Che si sia bevuta il cervello? O solo dell’ottimo whisky scozzese?
In ogni caso, di una cosa sono certa: anche intorpidita dall’alcool, la mia collega smart non oserebbe mai, da umanista, commentare l’impresa mirabolante e recente dei neutrini, per la cui capacità di scavare tunnel da Ginevra al Gran Sasso ha un rispetto totale e assoluto.