Jaromír Nohavica il poeta
Il Premio Tenco quest’anno ha deciso di concedere il proprio riconoscimento a Jaromír Nohavica. Il Premio Tenco è la più importante rassegna di canzone d’autore del mondo e, premiando Nohavica, conferma che – nonostante la gravissima situazione economica nella quale l’ha precipitata l’ottusa gestione della macchina amministrativa italiana – sa tenere la schiena dritta. Ancora pochi mesi fa pareva che mancassero le condizioni minime per fare la rassegna quest’anno, ma con un colpo di coda e stringendo la cinghia il Tenco resiste e rilancia…
Premiare Nohavica è un atto di giustizia, perché si tratta di uno dei più grandi cantautori europei, forse il maggior vivente. Ma premiarlo è anche un atto di coraggio, perché Nohavica, amatissimo nella piccola Repubblica Ceca, è pressoché uno sconosciuto fuori di essa.
Nohavica è nato a Ostrava, a nord del suo paese vicino al confine polacco, il 7 giugno del 1953. Non è un figlio di papà e dunque deve guadagnarsi la vita facendo prima l’operaio, poi il bibliotecario, poi, man mano, il traduttore, l’autore teatrale, il paroliere per i gruppi pop e rock… la via della canzone d’autore è piuttosto accidentata ai tempi della censura, e così Jarek – è il diminutivo col quale nella Repubblica Ceca sono chiamati tutti gli Jaromír – conosce gli ultimi tempi del glorioso samizdat: la diffusione clandestina di opere all’indice, registrate, fotocopiate, riprodotte in proprio di copia in copia.
Jarek non è mai stato un dissidente nel senso proprio del termine, quello in cui lo fu il cantautore suo “maestro” Karel Kryl, però il semplice fatto di pensare ad alta voce e, peggio ancora, di cantare ciò che si pensava non era troppo ben visto in Cecoslovacchia prima della rivoluzione di velluto del 1989.
Negli anni ’90 la strada di Nohavica appare finalmente in discesa. Dopo i primi pioneristici album registrati dal vivo voce e chitarra (o voce e organetto, l’altro strumento del quale Jarek è maestro e col quale accompagna le composizioni di gusto più popolare) che rendono disponibili i brani che tutti avevano imparato a conoscere nelle più disparate maniere, s’impegna a produrre dei veri progetti discografici. Appaiono “Mikimauzoleum” nel 1993 e “Divné stoleti” nel 1996, due pietre miliari nella musica ceca, due capolavori in perfetto equilibrio con le massime espressioni della cultura di un popolo sempre in bilico fra ironia e disperazione, come i romanzi di Hasek o di Hrabal, come le poesie di Nezval, come i primi film di Milos Forman. Jarek nel frattempo torna a dedicarsi al Teatro di Prosa, a quello d’Opera e al Musical, esplora le sonorità esibendosi insieme a gruppi country, hard rock o a formazioni di gusto barocco, e interpreta il ruolo principale in uno strano inquietante e buffo film – mezzo documentario e mezzo fiction – che ruota intorno a un anno di vita e di tournée Rok Dabla (2002).
Negli ultimi tempi lo si vede sempre più spesso come alle origini: organetto o chitarra fra le braccia, solo di fronte al pubblico, con la voce un po’ spezzata, sempre più vera. Il giro è compiuto, le esperienze sono fatte, Jarek torna all’essenzialità nuda, alla bellezza quotidiana, alla poesia. Jarek è un poeta, un poeta della canzone.
Ci sono dei critici ferrosi, degli appassionati rigorosi che si lamentano di definizioni come queste e che dicono che non si può essere “poeti della canzone”, che canzone e poesia sono generi ben distinti e che non vanno mischiati. Io penso che poeta possa essere un pittore come Vermeer, un regista come Jean Vigo, un romanziere come Guimaraes-Rosa, un pianista come Dinu Lipatti… ma anche un uomo o una donna che non fanno altro che stare bene assieme agli altri e che sanno comunicarlo anche senza scrivere, dipingere, suonare, ecc. In ultima analisi penso che poeta possa essere persino qualche scrittore di poesie.
Jaromír Nohavica è un poeta. È uno di quei poeti che stanno bene insieme agli altri, che fanno star bene gli altri, anche comunicando la miseria della vita, anche facendo filosofia, anche parlando della guerra, anche raccontando le fiabe ai bambini.
Incidentalmente questo poeta scrive le canzoni più folgoranti che mi sia capitato di veder passare nel cielo del linguaggio. È uno di quei poeti-cometa, un bengala nel buio che ci illumina territori che non pensavamo di conoscere, ma che, dal momento in cui ci appaiono, conoscevamo da sempre.
Le canzoni di Nohavica hanno un chiaro riferimento alla musica popolare dell’est europeo, ma sono tinte anche di folk anglo-americano, hanno le radici piantate profondamente nella tradizione musicale francese, e non disdegnano di tanto in tanto qualche puntatina nel blues. C’è una sua canzone che s’ispira dichiaratamente al Deserteur di Boris Vian, qualche volta ha tradotto le canzoni di Vladimir Vysotskij e Bulat Okudzava, i bardi russi del ‘900.
Questo per dire che Jarek ha i piedi ben piantati nella terra di molte tradizioni, ma ne ha anche fondato una tutta propria esibendosi incessantemente nel suo paese, dov’è riconosciuto come il più grande cantante in attività. Recentemente ha pubblicato due DVD registrati in concerto, rispettivamente nella sua città Ostrava e nella capitale Praga, e fa bene al cuore leggere l’amore di un popolo intero negli occhi del suo pubblico di tutte le età… e dico proprio tutte, visto che non mancano i bambini.
Fra le molte frecce al suo arco ha anche questa: nel 1994 ha pubblicato il CD “Tri Cunìci” che raccoglie la sua produzione per l’infanzia. Registrato dal vivo questo disco brilla per la presenza di un pubblico di bambini completamente coinvolto, felice e disinibito, che ride a crepapelle dei ritornelli di questo bardo baffuto che sembra un incrocio fra Asterix e un motociclista Easy Rider. Le canzoni per bambini di Nohavica sono una delle perle del suo repertorio - qualcuna non manca mai di proporla, anche quando canta per un pubblico adulto - e presentano una grande varietà, si va dall’apologo alla Gianni Rodari, alle filastrocche onomatopeiche. Si raccontano piccole storie di integrazione e antirazzismo e si delira di un metrò che le talpe scavano nei giardini al suono di un ipnotico “rrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrrr...”.
Se nei testi di Jarek fanno capolino sovente il tema dell’amore, quello dell’antimilitarismo, la ribellione contro la brutalità del potere e la stupidità della burocrazia, il nocciolo della sua produzione è filosofica. Il sorriso di quest’uomo, il suo tono caldo, la voce così musicale e così naturale al contempo, fanno passare, come un discorso quotidiano fatto al bar, le riflessioni sul dolore e sul vuoto dell’esistenza. Talvolta, a leggere i testi scritti da quest’uomo, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a una sorta di Leopardi nordico, il suo pessimismo pare davvero cosmico, un cupo senso di predeterminazione che sembra sopraffare ogni cosa, ma i testi di Jarek non sono fatti per essere letti.
Anche i testi più pessimisti, portati dalla dolcezza melodica della quale questo musicista ha il dono, si stemperano. Il senso di cupa sconfitta si mescola alla comprensione, l’inania degli sforzi umani, dalla culla alla bara, trova la consolazione di una voce amica, che pare parlare all’orecchio di ognuno di noi. Jarek, per natura dotato di grazia nel porgere, ci batte una mano sulla spalla, dicendoci che i suoi tormenti ed i nostri si incontrano in un flusso armonico.
In fondo lui, come ogni poeta, ci dice che non siamo soli, soprattutto quando ci sentiamo abbandonati. Come uno stormo di rondini migranti, le canzoni di questo bardo del nord volano in cerca del sole e dell’umanità, volano perché per vivere è necessario il movimento, tornano perché niente di ciò che si è vissuto è indegno di un racconto, di una fiaba, di un canto.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
Cometa
Ho visto la cometa che attraversa il cielo
ho provato a cantare per lei, ma è scomparsa
come un capriolo in fuga nella foresta.
Un paio di monetine gialle mi sono rimaste negli occhi.
Ho sepolto le monetine sotto la quercia.
Quando lei tornerà noi non saremo più qui,
non saremo più qui, ah, vana gloria!
Ho visto la cometa e volevo cantare per lei
dell'acqua, dell'erba, della foresta
della morte, con la quale non possiamo conciliarci,
dell'amore, del tradimento, del mondo
e di tutte le persone che sono vissute su questo pianeta.
Alla stazione siderale i vagoni tintinnano
il Signor Keplero ha prescritto le leggi del cielo,
le ha cercate e trovate in binocoli astronomici,
ha trovato i segreti che portiamo sulle spalle.
Gli infiniti segreti della natura:
che l'uomo solo dall'uomo può nascere
che le radici e i rami si uniscono per creare l'albero
il sangue delle speranze che viaggia per l'universo.
Ho visto la cometa, come fosse un sollievo
fatto dalle mani di un'artista vissuto un tempo.
Mi sono arrampicato fino al cielo perché volevo toccarla
e la nostra caducità mi ha fatto sentire nudo
come la statua del David di marmo bianco
sono stato fermo ed ho guardato in alto…
Quando tornerà di nuovo, ah! vana gloria,
io non sarò più qui, ma qualcun'altro canterà per lei
dell'acqua, dell'erba, della foresta,
della morte, con la quale non possiamo conciliarci,
dell'amore, del tradimento, del mondo…
una canzone su di noi e sulla cometa.
Jaromír Nohavica |
Dama Fortuna e signor Lutto
Dama Fortuna e signor Lutto
giacciono nel letto che gli ha fatto dal vento,
avvolti nei drappi di lino dormono,
a colazione basta un piatto di crusca.
Lei ha un lungo scialle bianco, lui un fondo cappuccio nero,
come amanti vanno a doppio, allegri e tristi,
in un barattolo di legno portano semi di rovi,
la ragazza e il ragazzo, sempre a seminare.
Ieri ho ricevuto per posta una busta
con dentro una preghiera cinese della fortuna,
qualcuno mi ha pensato da lontano
per strade secche e dritte.
Devo copiarlo dieci volte e spedirlo alla gente triste,
la catena non si deve rompere e la fortuna viene da sola,
ho usato la carta carbone nella macchina da scrivere,
perché chi è triste possa conoscere l‘allegria.
Dama Fortuna e signor Lutto
in piedi leggevano quello che scrivevo,
se la ridevano: che buffo credulone
come se ancora non conoscessi le strade della vita.
Dopo si baciarono, ed io furioso,
loro fregandosene, da sotto la coperta
lei sospirava forte, lui parlava piano,
si è finito il nastro della macchina da scrivere, tutto si è rotto.
Dama Fortuna e signor Lutto
stanno nel letto fatto dal vento,
nei drappi di lino avvolti dormono,
a colazione appena un piatto di crusca.
Lo sposo e la sposa, noi ospiti alle loro nozze
su ogni strada, vediamo che succede,
sotto la sala delle nozze balliamo nel salone,
dalla sala della musica sentiamo un lungo pastorale.
Jaromír Nohavica |
Paesaggio dopo la battaglia
Ci puntiamo addosso l'un l‘altro io e te
c‘è silenzio intorno, solo un cane abbaia oltre un cancello
sul prato ci sono farfalle morte
la pioggia cade sulle ciotole
siamo i due ultimi che sono sopravissuti
a questa lunga guerra.
Ci puntiamo addosso l'un l‘altro io e te
nelle orecchie ancora risuonano le granate
e la morte passa e ripassa la falce
passeggia col vestito bianco
e noi due siamo adesso qua
in trincea uno di fronte all‘altro.
Ci puntiamo addosso l'un l‘altro io e te
noi due, scappati alle pale dei becchini
a centinaia di grandi offensive
ci ha guidato la fortuna
ed adesso ci dividono solo cento passi
ed è molto o forse poco.
Pensiamo l'uno all‘altro io e te
quello che era valido ieri già oggi non lo è piú
ma l‘orrore resta sospeso sul paesaggio
è difficile volersi bene
se abbiamo fucilato a vicenda
i nostri migliori amici.
Non sappiamo niente l'uno dell‘altro
respiriamo l‘aria piena di sangue a pieni polmoni
l‘odore della morte si è impregnato nella pelle
si termina il primo atto
ci resta di versare ancora
due volte sei litri di sangue
Ci puntiamo addosso l'un l‘altro io e te
addormentati, assetati, affamati, con la barba lunga
il cielo si sta chiudendo, si avvicina la notte
gli occhi sono pesanti come pietra
a chi si può chiedere consiglio, aiuto
se noi due ci addormentiamo.
E quindi ci puntiamo addosso l'un l‘altro io e te
le stelle cadono, l‘orizzonte pieno di stelle
siamo qua noi due sotto lo stesso cielo
sono calde le braci della madre Terra
e come dormiamo camminiamo entrambi nel sogno
Io da te e tu da me,
Io da te e tu da me.
Jaromír Nohavica |
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