Rivista Anarchica Online


storia

Le campagne ravennati e la rivoluzione a venire
di Laura Orlandini

Mancano un paio d'anni al centenario della Settimana Rossa, vero e proprio moto insurrezionale che interessò l'Italia Centrale un anno prima dell'intervento italiano nella Prima Guerra Mondiale. Il ruolo degli anarchici.

Una folla composta e sorridente (le donne e gli uomini in piedi, i ragazzi seduti davanti) si metteva in posa nella piazza principale di Fusignano, davanti a un albero (un frassino, alto e sottile) sulla cui cima sventolava una bandiera rossa socialista. L'albero era appena stato asportato dal bosco di proprietà del marchese Calcagnini, per essere piantato nella piazza con tanto di cerimonia e banda musicale. Non era un albero qualunque: era l'albero della libertà, a rappresentare il potere del popolo e l'inizio di un tempo nuovo. Lo stesso giorno, pochi chilometri più in là, nella piazza di Alfonsine, una folla altrettanto numerosa e composita si faceva fotografare di fronte al municipio, visibilmente danneggiato dai segni di un incendio. Non troppo diversa da queste una terza immagine, scattata nel borgo di Mezzano nelle stesse ore: contorni sbiaditi di un gruppo di persone di fronte a una chiesa di cui non restavano in piedi che le pareti laterali.

Era il giugno del 1914, e queste tre immagini erano destinate a fare il giro delle principali testate giornalistiche e a segnare iconograficamente quella che sarebbe stata ricordata come “la Settimana Rossa”. Due giorni di sciopero generale indetti dalla CGdL (guidata allora dal decisamente moderato Rinaldo Rigola) per protestare contro l’ennesimo “eccidio proletario” (ovvero, fuoco aperto sulla folla e tre persone uccise in quel di Ancona), avevano ricevuto una risposta di imponenti dimensioni, per l'altissima adesione e per le numerose manifestazioni che avevano riempito le piazze di molte città d’Italia.
Altrettanto numerosi e drammatici furono gli scontri tra manifestanti e forze dell'ordine, tanto che a sciopero esaurito si contarono in totale ben tredici vittime, assassinate tutte da colpi di arma da fuoco. Al dolente conteggio dei morti s’aggiungeva la consapevolezza di non essere riusciti a fare sfociare un’occasione ritenuta propizia nella tanto anelata svolta insurrezionale. Il mito dello sciopero generale rivoluzionario giaceva inerte al suolo: la protesta per la morte di tre militanti si era trasformata in un ulteriore eccidio, e lo sciopero era rientrato dopo le quarantotto ore annunciate.
Per gli “uomini d'ordine” era però giunta l'ora di far suonare il campanello d'allarme: la “teppa forcaiola” stava diventando pericolosa, i proclami dei capi di partito si erano convertiti in una minaccia concreta e palpabile, gli aizzatori di folle avevano trovato il loro terreno fertile. Presto si scoprì che non si era trattato soltanto di uno sciopero molto partecipato e violento: dalla bassa Romagna, da alcune città delle Marche, iniziarono a trapelare notizie preoccupanti. La “sovversiva” provincia di Ravenna, soprattutto, pareva essere stato il centro di una insurrezione in piena regola.
I giornalisti in viaggio in quelle ostili terre si prodigarono in ricostruzioni letterarie, senza lesinare dettagli accattivanti e torbidi risvolti: “muri anneriti” e “binari divelti”, posti di blocco lungo le strade, chiese saccheggiate e date alle fiamme. I repubblicani e i socialisti si erano uniti agli anarchici nella loro opera di “saccheggio e devastazione”, scavalcando gli asprissimi conflitti che li avevano separati negli ultimi anni. Gli incubi tetri degli “uomini d'ordine” prendevano corpo: la folla aveva proclamato la repubblica, e aveva eretto nelle piazze il simbolo dell'albero della libertà, come ai tempi della repubblica romana; era entrata nelle case dei benestanti impossessandosi delle armi e, in qualche caso, delle provviste; aveva sfidato l'autorità religiosa aggredendo le icone e le immagini del culto; e tutto questo senza che le forze dell'ordine fossero riuscite per vari giorni a intervenire, anzi giungeva voce di un sequestro da parte di un gruppo di braccianti ai danni di un generale.
Nelle settimane successive alla rivolta la stampa italiana fu totalmente dedicata a descrivere e discutere gli eventi romagnoli. Le immagini delle chiese incendiate divennero ben presto uno spauracchio agitato sotto al naso di una incredula opinione pubblica, nel tentativo di dimostrare quanto le “ingenue turbe”, per anni abbindolate e aizzate dagli “scaltri capi di partito”, si fossero convertite in “bestie feroci” che non si facevano scrupolo ad assaltare e incendiare.

Alfonsine. Gruppo di rivoltosi di fronte al municipio incendiato

Nessuna vittima

La sommossa del ravennate, a differenza dei violenti scontri verificatisi nelle principali città italiane, non aveva provocato nessuna vittima, né tra i rivoltosi né tra le forze dell’ordine: eppure la stampa “d'ordine” dedicò tutte le sue energie a puntare il dito, a invocare punizioni esemplari, accusando anche il prefetto di Ravenna di non aver saputo agire con fermezza. Opinionisti e personaggi politici, sia conservatori che liberali, si apprestarono ad analizzare la rivolta appena passata, negandone quasi sempre il movente politico e accentuando invece la descrizione dei danni materiali, per ridurre l’episodio a una convulsa agitazione di un manipolo di teppisti, istigati al vandalismo a causa della lunga e perpetrata retorica politica di cui erano stati vittime. Il clero e i cattolici non furono da meno: tra lo sconcerto per l’attacco subito, interpretazioni miracolistiche e invocazioni alla repressione, non mancarono di puntualizzare attraverso la stampa cosa pensassero di questo popolo così educato al “sovversivismo” e cresciuto lontano dalla religione, paragonabile dunque al demonio stesso, campo aperto ai bestiali istinti.

Capacità organizzativa formidabile

Fu vera rivoluzione? Si chiedevano intanto gli anarchici, i repubblicani, i socialisti. Un Mussolini infuriato accusava di “fellonia” la CGdL per aver revocato lo sciopero allo scadere delle quarantotto ore, mentre Errico Malatesta, dopo avere acclamato la rivoluzione dalle pagine di Volontà, era costretto a riparare per l'ennesima volta a Londra, non senza aver dichiarato fiducioso che “continueremo”. Intanto, Gaetano Salvemini affermava accigliato la necessità del riformismo come unica scelta davvero rivoluzionaria (“posto che per rivoluzione si intenda una cosa seria”), mentre un Treves perplesso e risentito s’attardava a descrivere le convulse gesta della “marmaglia”, che s’era permessa di fare la rivoluzione senza aver consultato previamente il galateo del socialismo riformista.
Dibattiti teorici sviluppati tutti a rivolta ormai sopita: certo è che per qualche giorno la possibilità di un sovvertimento dell'ordine costituito si era paventata come vicina e probabile, per la prima volta dopo anni di conflittualità crescente e retoriche ripetute sulla rivoluzione proletaria si era tentato (solo in una zona circoscritta, solo per qualche giorno: ma si era tentato) di mettere in pratica i precetti dell’organizzazione rivoluzionaria. Appena proclamato lo sciopero s’erano infatti costituiti in ogni centro del ravennate i Comitati d’Agitazione, e al blocco immediato delle comunicazioni era seguita l’attivazione di un servizio di staffette in bicicletta; piuttosto efficiente risultò il sistema di posti di blocco e di lasciapassare, e i rivoltosi si erano con prontezza appropriati autonomamente delle armi requisendole nelle proprietà delle famiglie benestanti.
I contadini ravennati avevano dimostrato insomma una capacità organizzativa formidabile, dall’immediata e capillare esecuzione: ma soprattutto, per pochi giorni almeno, avevano creduto che la rivoluzione fosse possibile. L’azione coordinata e la disciplina riguardo alle direttive dei Comitati d’Agitazione, le immediate celebrazioni coronate di ritualità simboliche, muovevano dalla convinzione che il momento fosse giunto e che in tutta Italia si stesse agendo allo stesso modo. Sarebbe venuta la truppa a dimostrare il contrario, una volta riattivate le comunicazioni, passando sopra alle malferme barricate che i rivoltosi avevano costruito. Sarebbe arrivata anche la notizia della fine dello sciopero, insieme alla smentita definitiva delle voci che per pochi giorni erano circolate di paese in paese: la sommossa in tutte le città, il re fuggito, il governo caduto. Prima della truppa inviata per ristabilire l'ordine, arrivò la delusione: i rivoltosi fuggirono o rientrarono nelle loro case, ad aspettare una prossima occasione.

La chiesa di Mezzano
distrutta dall’incendio

Sciopero generale rivoluzionario

Le preoccupazioni e le riflessioni che la rivolta del giugno 1914 riuscì a destare, furono presto soffocate da altre ben più dirompenti ansie scaturite dallo scoppio della Grande Guerra. Per questo la Settimana Rossa si ritrovò ad essere un episodio un po' accantonato, ultimo sfavillio di un decennio di conflittualità e di attivissima educazione politica delle masse, chiaro segnale di una irreversibile incrinatura del modello giolittiano.
Quasi un punto finale insomma, destinato in anticipo ad essere un fenomeno del passato, un ultimo scampolo di una rivoluzione ideale che avrebbe avuto nel dopoguerra paradigmi diversi di riferimento, e diversi orizzonti. Ma qual'era l'humus sul quale crebbe e prese forma la rivolta del giugno '14? L'idea dello sciopero generale rivoluzionario andò a sposarsi con altre rivendicazioni, altri miti che negli stessi anni erano andati via via crescendo e radicandosi nel linguaggio politico insurrezionalista. Tra questi, vi era un antimilitarismo diffuso e combattivo, e il risorgere dell'anticlericalismo popolare.

Pericolo nero, pericolo rosso

Gli anni del giolittismo furono anche anni di avvicinamento del mondo cattolico alla politica italiana. Dopo l’enciclica papale Il fermo proposito del 1905 e il progressivo allargamento del suffragio (fino al raggiungimento del suffragio universale maschile nel 1913), era chiaro che i cattolici non si sarebbero più tenuti in disparte rispetto alle vicende nazionali: pur continuando ad agitare lo spauracchio della questione romana, di fatto stavano progressivamente partecipando non solo all’attività elettorale ma anche alla vita politica del paese. Con la guerra di Libia i cattolici scoprirono anche l’entusiasmo nazionalista ed impararono a sventolare la bandiera italiana nelle strade, sancendo di fatto quella che aveva tutta l’aria di essere una ritrovata alleanza.
LA lotta per la contesa dello spazio pubblico si disputava nelle piazze, nei circoli ricreativi, nelle scuole. Mentre l'Unione popolare organizzava la sua attività elettorale per arginare il “sovversivismo”, crescevano le casse di risparmio cattoliche e le associazioni sindacali bianche, e si combatteva dalle pagine dei giornali la battaglia per l'insegnamento della religione. Conservatori e liberali ormai cercavano d'evitare la questione religiosa come un argomento scomodo che era meglio lasciare in sospeso; sfoderando un anticlericalismo istituzionale ogni 20 settembre, barcamenandosi tra ambiguità d’ogni sorta, avevano ormai reso noto che consideravano il “pericolo nero” del clericalismo come qualcosa di superato, giacché il dilagante "sovversivismo" (ovvero “il pericolo rosso”, come già lo aveva definito Crispi nel 1901) pareva assai più urgente e minaccioso. Intanto la Chiesa attraversava un cupo periodo di reazione interna, e le encicliche di Pio X servivano a perseguitare quei sacerdoti che avevano proposto di rinnovare alcuni aspetti del dogmatismo cattolico e che si erano avvicinati alle tematiche sociali.
Le distinte anime dell’Estrema si trovarono con la consapevolezza di dover difendere una laicità messa in discussione dagli stessi poteri istituzionali. Sulle pagine della stampa “sovversiva” cominciarono ad apparire caricature e denunce, mentre il periodico illustrato Asino iniziava ad avere una tiratura considerevole, definendo iconograficamente, con le sue vignette irriverenti, l’immaginario dell’anticlericalismo popolare.
Quando nell'ottobre del 1909 si mise in moto la campagna in difesa di Francisco Ferrer Guardia, libero pensatore catalano accusato – peraltro ingiustamente – d’avere provocato la rivolta di Barcellona del luglio precedente (la denominata “Semana Tragica”), tutto lo spettro del “sovversivismo” italiano era più che mai pronto ad accoglierla. L’immagine della monarchia spagnola dominata dal potere del clero divenne il mito negativo per eccellenza, la minaccia futura che era necessario sventare con tutte le forze, e Ferrer si convertì nel simbolo della libertà perseguitata dall’oscurantismo religioso. Alla notizia che Ferrer, a seguito di un processo pressoché sommario, era stato fucilato nel castello di Montjuic, la risposta fu immediata e massiccia: da nord a sud le piazze italiane si riempirono subitamente, generando giorni di manifestazioni e scontri dove non mancarono episodi iconoclasti.
Luigi Fabbri, dopo aver dedicato alla vicenda alcuni testi appassionati e un numero speciale de Il pensiero, diede vita a una tipografia “Scuola Moderna”, in omaggio al progetto pedagogico di Ferrer, con l’obiettivo di diffonderne l’idea e gli scritti; tipografia che per un paio d’anni risultò attivissima e riuscì a radunare attorno a se le personalità più vivaci e interessanti dell’anarchismo. Tra queste anche Armando Borghi, e la controversa Maria Rygier, trasferitasi a Bologna da Milano con il suo foglio antimilitarista Rompete le file!, impegnata a proporre una memoria del martire catalano che sovrapponesse l’eredità anticlericale del libero pensiero con un discorso antiautoritario di ribellione all’esercito. D’altronde, la Semana Tragica di Barcellona era scoppiata proprio per protestare contro l’invio di truppe in Marocco, ed era sfociata in una aggressione a chiese e conventi della città: le due questioni, anche a livello irrazionale ed emotivo, erano inevitabilmente intrecciate, e di pari passo andavano portate avanti.

La truppa ad Alfonsine

Antimilitarismo anarchico e guerra di Libia

La guerra di Libia fu per il gruppo anarchico bolognese un momento di straordinaria attività e di intensa propaganda; di fronte a iniziali impantanamenti e titubanze di repubblicani e socialisti, furono gli anarchici a marcare il ritmo dell’antimilitarismo italiano e a stabilire le parole d’ordine della protesta alla guerra. La storia di Augusto Masetti, muratore bolognese rinchiuso nel manicomio militare per aver sparato al suo ufficiale il giorno in cui doveva partire per la Libia (al grido di “Viva l'anarchia, abbasso l’esercito!”), funzionò da efficace detonatore per la rivendicazione antimilitarista; tanto che a guerra finita la battaglia di solidarietà in suo favore continuò ad essere argomento dalla grande capacità di mobilitazione. Maria Rygier nel 1911 finì in carcere, Armando Borghi dovette fuggire in Svizzera, la tipografia bolognese Scuola Moderna fu invasa dalla polizia e tutto il materiale venne sequestrato, a causa di un numero de L’Agitatore che era stato dedicato proprio all’episodio di Masetti. Eppure due anni dopo le acque continuavano ad essere scosse, se la Rygier uscita dal carcere poté riprendere in mano quella battaglia, e difenderla di comizio in comizio: l’antimilitarismo anarchico era riuscito a sganciarsi dalla mera protesta per la guerra in Libia (già la Libia era annessa, i soldati avevano fatto ritorno, o quasi) per diventare un discorso politico molto più ampio, condiviso.
Una parte consistente del partito repubblicano e del partito socialista (soprattutto nelle sue sezioni giovanili) si appropriò infatti di questo linguaggio, tanto che il 7 giugno del 1914, giorno della festa dello Statuto Albertino, i numerosi comizi antimilitaristi vennero organizzati con il contributo attivo delle tre anime del “sovversivismo”. Ad Ancona, alla Ca’ Rossa, c’era infatti Errico Malatesta, e c’era anche un giovanissimo Pietro Nenni, allora militante nel Partito Repubblicano. C’erano anche molti ragazzi appena entrati nella lotta politica, che si ritrovarono quel giorno a fare la guerra con i carabinieri, venuti ad assediare il comizio col pretesto di impedire che si trasformasse in una manifestazione pubblica. Avevano tra i diciassette e i ventitré anni i tre che furono uccisi il 7 giugno: due militavano tra i repubblicani, uno era anarchico. E di eccidi proletari si era parlato spesso negli ultimi anni: dopo quello di Roccagorga, nel gennaio dell’anno precedente, la CGdL aveva annunciato che se si fossero ripetuti episodi del genere, il proletariato sarebbe sceso compatto in sciopero. E così fu.

Una provincia sovversiva

Proprio nella provincia di Ravenna, dove il 25 per cento della popolazione era iscritta a qualche organizzazione “sovversiva”, lo sciopero generale divenne sommossa.
Ravenna era la provincia più atea d’Italia: lo dimostravano le statistiche dei censimenti, lo confermavano amareggiati i parroci, che si trovavano ad amministrare il culto in una “terra senza dio”, a dire messa in chiese semivuote alla presenza di poche donne, sempre più esclusi dai riti della collettività quali erano i matrimoni, le nascite, le morti.
A Ravenna c’era una tradizione repubblicana di eredità risorgimentale, radicata soprattutto tra i mezzadri; c’era nella provincia un bracciantato combattivo e ben allenato allo sciopero, in gran parte affiliato al partito socialista; e non mancava una forte presenza anarchica, localizzata soprattutto nelle famigerate Ville Unite, teatro degli episodi più marcatamente anticlericali della Settimana rossa. Con i suoi 641 iscritti e le sue 19 associazioni regolarmente registrate allo scadere del 1913, la provincia di Ravenna si attestava a livello nazionale al terzo posto in quanto attivismo anarchico, dopo le province di Ancona e di Massa Carrara.
Senza contare l’influenza della vicina e anarchica Imola (anch'essa coinvolta di fatto negli episodi della Settimana Rossa), e i continui contatti con Bologna: Luigi Fabbri, Domenico Zavattero, l’imolese Borghi, la stessa Rygier, non mancavano di battere le campagne ravennati, partecipare ai comizi pubblici, intessere relazioni costanti con i militanti e i circoli dei piccoli centri: vigilati e seguiti dalla pubblica sicurezza, la loro presenza metteva in costante allerta le forze dell’ordine.
Altre condizioni particolari permisero che lo sciopero riuscisse a trasformarsi in sommossa proprio in questa zona circoscritta e non in altre. Una era indubbiamente la topografia del territorio: pianeggiante e ben comunicata, la bassa Romagna era una zona facile da controllare, una volta interrotte le comunicazioni; notizie e richieste di aiuto potevano viaggiare veloci lungo le strade provinciali, sulle due ruote delle biciclette: di fatto il continuo movimento di ciclisti da un paese all'altro, e dalle campagne al capoluogo, fu una delle immagini più narrate dei giorni della rivolta.
Altro elemento fondamentale era la scarsa presenza di forze armate sul territorio. A una delle province più politicamente attive e problematiche della penisola, corrispondeva un apparato di forze dell’ordine pressoché minimo, ancor più sguarnito nei giorni della Settimana rossa a causa di un invio di rinforzi ad Ancona. I rivoltosi tagliarono i fili del telegrafo e del telefono, e seppero con prontezza bloccare le strade, per cui fu impossibile per alcuni giorni inviare dall’esterno truppe di supporto. Ma dovettero di fatto fare i conti con un numero davvero esiguo di carabinieri, i quali perlopiù pensarono bene di barricarsi dentro le caserme in attesa di tempi migliori. La prefettura di Ravenna decise di mettere in salvo solo la città, lasciando l'entroterra abbandonato a se stesso. Dichiarato lo stato d'assedio, la rivolta nel capoluogo rientrò; ma si dovette attendere qualche giorno per riprendere i contatti con l'esterno, mentre nei centri della provincia i rivoltosi erano convinti di avere la situazione in pugno, e poterono proclamare la repubblica senza necessità di fare uso delle armi che avevano sequestrato.
Fu una repubblica breve, brevissima. Fu l'intensificarsi e l'esplodere di un periodo carico di tensioni ed anche di potenzialità, risultato di una educazione politica che al sogno di un repubblica sociale aggiungeva la sfida all'autorità militare e l'emancipazione dal dogma religioso. Fu una casuale e quasi miracolosa intesa tra forze politiche di solito avverse: sarebbe venuta la guerra a scombinare di nuovo le alleanze, a creare rotture laceranti, a ridefinire anche l'orizzonte politico. Avevano smesso i ravennati di battezzare i loro figli, di sposarsi in chiesa; dichiaravano spesso che la chiesa era una bottega: non c'era spazio per la religione nella nuova repubblica. Tre chiese (ad Alfonsine, a Mezzano, a Villanova di Bagnacavallo) furono incendiate, nel famigerato “triangolo delle bermude” romagnolo, e ne rimasero in piedi solo le mura. Altre furono svuotate di quel che vi era all'interno, panche e statue usate come materiale per le barricate. Tutte furono chiuse, come chiusi dovevano restare i negozi, per rispettare lo sciopero.
La Settimana rossa non riuscì ad essere una rivoluzione: tempo di formarsi non ne ebbe. Fu piuttosto uno smottamento, che trovò nelle campagne romagnole il suo più fertile terreno d'azione, la sua più rapida fioritura, laddove l'attività politica era entrata a far parte da qualche lustro della vita quotidiana e collettiva di migliaia di contadini. Fu però una grande occasione di speranza e mobilitazione, che dette a tutti coloro che si riconoscevano nell'insurrezionalismo la possibilità di contarsi, di vedere la rivoluzione come qualcosa di vicino e raggiungibile, di valutare gli errori e considerare l'unità d'intenti come un elemento positivo. Fu per molti, anche, la consapevolezza amara che la tanto anelata rivoluzione non era possibile, perlomeno non con i termini e i modi elaborati fino a quel momento: buona volontà ed organizzazione non potevano molto di fronte all'azione dell'esercito, che nelle città aveva più volte sparato sulla folla; le barricate per le strade resistevano poco ed erano ormai, forse, un simbolo delle rivolte del passato.

“Abbasso l'esercito!”

Coloro che erano stati arrestati furono amnistiati dopo pochi mesi di carcere, e spediti subito a fare la guerra; avevano scritto “Abbasso l'esercito!” sui muri dei loro paesi, ma questo non evitò loro la trincea. Molti personaggi di spicco che avevano incitato alla rivolta durante i giorni caldi del giugno si entusiasmarono con l'entrata in guerra dell'Italia, e presero, come è tristemente noto, ben altre strade. Chiesa e Stato non avrebbero tardato a sancire l'alleanza a cui già anelavano, e forse lo fecero nel modo peggiore possibile. Il seguito della storia lo sappiamo bene.

Laura Orlandini

Qualche testo di riferimento

Antonioli Maurizio, Dilemmi Andrea (eds.), Contro la Chiesa. I moti pro Ferrer del 1909 in Italia, Pisa, BFS Edizioni, 2009.
Cerrito Gino, Dall’insurrezionalismo alla Settimana rossa. Per una storia dell’anarchismo in Italia (1881/1914), Crescita Politica Edizioni, Firenze, 1977.
Lotti Luigi, La Settimana rossa, Le Monnier, Firenze, 1965.
Luparini Alessandro, Settimana rossa e dintorni. Una parentesi rivoluzionaria nella provincia di Ravenna, Edit Faenza, 2004.
Martini Manuela, Giugno 1914. Folle romagnole in azione, in “Rivista di Storia Contemporanea”, n. 4, 1989.