Gli anarchici
del 2114
Nelle prime due righe Allen Purcell - «il giovane e progressista presidente della più nuova e creativa fra le Agenzie di Ricerca» - perde una stanza da letto e guadagna una cucina. Siamo nel romanzo Redenzione immorale di Philip Dick del lontano 1956 (efficace il titolo italiano, quello originale era «The Man Who Japed») appena ristampato da Fanucci nella nuova, bellissima traduzione di Tommaso Pincio.
Inizio claustrofobico: sottili parete di cartongesso, due sedie pieghevoli e un piano cottura (usato anche da lavello, tavola, credenza) occupano tutto lo spazio. Grazie a vari «dispositivi salvaspazio» lo stanzone muta di continuo: se il letto sparisce arriva per l’appunto la cucina. Resta poco spazio per vestirsi. Il bagno è nel corridio, in comune con i vicini. Eppure Purcell è molto fiero di quel monolocale, ereditato dalla famiglia e «difeso per oltre 40 anni».
Dal suo monolocale Purcell può scorgere «la cuspide – benedetta – del Rimor» cioè del Risanamento Morale che governa la società dalla rivoluzione del 1985. Ora siamo nel 2144 e Purcell sta per perdere il prezioso appartamento, nonostante sia un uomo potente, in procinto di arrivare al vertice del sistema massmediatico. Lo sfratto avviene su decisione dell’assemblea condominiale. I vicini si erano riuniti, come ogni mercoledì, per esaminare la moralità degli inquilini e fu sollevato il caso del «signor A. P.» che si era «intrattenuto in turpi attività con una giovane donna» ovvero l’aveva baciata. Siamo in una società dove «oddio» è considerata una gravissima bestemmia e dove i critici del Rimor vengono considerati pericolosi «anarchici» che «vogliono il ritorno della fornicazione, le insegne al neon, la droga».
Il sistema Rimor schiaccerà Allen Purcell che non solo perderà l’appartamento ma si auto-denuncerà per un grave reato, aver danneggiato la statua del maggiore Streiter, fondatore del Risanamento Morale. Eppure chi legge ha la sensazione che quel gesto innesterà una rivolta e il romanzo si chiude così con un’esile speranza (un po’ come nei film disperati eppure sempre aperti dei fratelli Dardenne). Anche perché, prima di farsi cacciare dai media, Purcell riuscirà a giocare una beffa – da qui il titolo originale – degna di passare alla storia. Non la svelerò qui ma vi anticipo che, se leggerete questo libro, quando sentirete le frasi «assimilazione attiva» e «minaccia ricorrente» o persino la semplice parola «bollitura» vi metterete a ridere irrefrenabilmente.
Quel che soprattutto importa è il tipo di futuro che Dick nel 1956 ha costruito, basato sui “4 peggio”. Il capitalismo-p (cioè peggiore) si mescola al socialismo-p, all’integralismo-p, alla tecnologia-p.
Un po’ come in «1984» di Orwell - ma con esiti per certi versi del tutto imprevedibili – abbiamo un totale controllo politico-sociale e una morale sessuofobica imposta; in più esiste la falsa partecipazione popolare (assemblee di condominio) e una tecnologia sviluppatissima con micro-robot, volgarmente chiamati «balilla», che filmano tutto e tutti, ma anche con sistemi anonimi e automatizzati di accusa-difesa i quali in apparenza garantiscono l’equità dei processi ma in realtà sono truccati e marci dalle origini. Le assemblee popolar-condominiali sono il vertice del «ficcanasare e spettegolare» più «secoli di confessionali cristiani» ma Dick ne fa anche una caricatura dei processi staliniani, riprodotti su scala micro.
Poi «il sesso morboso; gente braccata per atti naturali. Questo sistema è come un’immane camera di tortura dove le persone si scrutano a vicenda cercando di cogliersi in fallo (…) Cacce alle streghe e camere stellate». Il traduttore ci ricorda che le camere stellate furono istituite nel 1487 da re Enrico VII ed erano un tribunale supremo chiamato a giudicare ogni azione e persino pensiero di «lesa maestà»; un po’ – aggiungo io - come oggi non essere d’accordo con la Bce o con la Borsa.
In questa società-incubo dei “4 peggio” sembra esserci una via d’uscita: i «neuro» (come vengono chiamati con disprezzo), gli asociali, quelli che vanno in tilt possono chiedere aiuto ai Resort della «salute mentale», in apparenza l’unica zona franca dove i robottini spioni o le «coorti» del Rimor non possono entrare. Ma davvero i Resort sono un’alternativa al sistema o piuttosto ne sono il completamento, un luogo e modo dove riassorbire i dissidenti, per dirla con Purcell «due facce di una stessa medaglia»? Forse l’alternativa è nelle «rovine» di una lontana guerra atomica, quartieri radioattivi dove però è sopravvissuto qualche frammento del passato, compresa la letteratura «pornografica» di Joyce, Truman Capote o il «Decamerone». A proposito, i classici della letteratura perduta (Walter Scott o Charles Dickens) vengono riscritti dai «Circoli dei lettori».
Il protagonista è buffone e dissacratore, all’inizio inconsciamente - quasi schizofrenico - e poi per scelta. Dick non poteva averlo letto (il libro esce nel 1960) ma sembra una definizione di Paul Goodman in «La gioventù assurda» che divenne famosa negli anni delle rivolte: «Mano a mano che la società si fa più compatta e assoluta, un atto criminale può ben essere un muto gesto politico e una protesta politica è inevitabilmente considerata criminale». In questo senso riguarda tutti noi, anarchici e/o ribelli, nel presente 2011, in faccia a questa democratica società, sempre più compatta e assoluta.
Daniele Barbieri
Di mestiere
faccio il paesologo
“È lo scrittore più comico che esista”. Non so se questo che ha scritto Marco Belpoliti sia vero. Certo è: tra le cose serie (anzi serissime) che fa e scrive Franco Arminio c’è anche lo “sfruculiamento”, l’importuno benevolmente ironico verso la gente che conosce nel suo peregrinare senza sosta tra i paesi. Maestro elementare (part-time), poeta, scrittore, giornalista, documentarista ma Franco Arminio è soprattutto il paesologo. Il paesologo? E che fa un paesologo? Di cosa si occupa, che studia? Per saperlo basta leggere gli articoli di Arminio, i suoi libri, o scoprirlo attraverso l’ultimo lavoro del regista Andrea D’Ambrosio Di mestiere faccio il paesologo” (produzione Lama Film, montaggio Marco Chimenti, fotografia Luca Alzani, musica Paranza Vibes, durata 69' – il DVD è uscito per Derive&Approdi).
Un documentario su un tour di Arminio in alcuni centri dell’entroterra Irpina, Lucana e Pugliese che stanno via via spopolandosi, portandosi dietro il presagio della definitiva scomparsa. Eppure, secondo Arminio – che è nato e vive a Bisaccia, in provincia di Avellino – in questi posti si può trovare ancora quello che non c’è più nei grandi agglomerati, i paesi che visita sono teatri dove si “danno convegno Dio, la poesia e la morte perché altrove non li vogliono”, qui abitano uomini e donne, vecchi in prevalenza di cui nessuno parla o si interessa, a meno che non accada un terremoto o altra calamità naturale. Qui, però, si possono trovare le solitudini più vere, i talenti più repressi, qui nasce e regna sovrana la paesologia, la scienza di Arminio che rivolge attenzione ad un’umanità dimenticata e studia i paesi partendo dal principio che ogni piccola comunità con il suo nucleo urbano, la sua gente è diversa da qualsiasi altra. Il prologo del film di D’Ambrosio adagia sullo schermo le parole del nostro paesologo: “Quasi tutti i giorni vado in giro per paesi, vado a vedere che aria tira, a che punto è la loro salute e la loro malattia, ma alla fine è il paese che mi vede mi dice qualcosa di me che nessuno sa dirmi”.
Bisaccia, Caivano, Lioni, Calitri, Senerchia, Santomenna, Trevico, Muro Lucano e tutti gli altri paesi in cui passa Armino, dunque, diventano per lui degli sguardi, delle visioni dal di dentro, quasi una sorta di terapia per rinfrancare l’anima. Ne è infatuato Arminio di questi posti, si fa fratello acquisito di tutti i vecchi, le persone dall’aria scomposta che incontra nei bar, nei vicoli, nelle piazze. Osserva, scruta Arminio quel cinema naturale che è un paese, nel quale – dice lui - vi si può entrare quando si vuole senza bussare, lo si può trovare vuoto e desolato, ma un saluto o un sorriso alla fine nelle sue stradine si riesce a strapparlo puntualmente. I paesi e i loro paesaggi sono avamposti rotti da un silenzio che è insieme suono e fragranza, e Arminio ama questi teatri quanto meno sono imbellettati e più dirupati. Nella pietra, nelle mura che si sbriciolano dei centri storici lui ci vede regalità e imponenza a fronte del freddo cemento delle abitazioni, degli osceni palazzi costruiti anche qui negli ultimi decenni.
È moribondo e rassegnato questo piccolo mondo di Arminio o, forse è già morto come sembra svelarsi dalle immagini di Andrea D’Ambrosio. E ciononostante dalla scomparsa si è già alla rinascita, è tra questi grappoli di case e pugno di abitanti che si dovrà cercare l’Italia del domani. E da queste minute e perdute comunità che la voce di Arminio sembra volerci indicare un vicolo, una direzione da cui dover ripartire. E ritrovare noi stessi. Il documentario di Andrea Ambrosio ( suo “Biutiful Cauntri” il film più vero sul grande affare dei rifiuti della Campania ) è uscito in dvd per Derive Approdi accompagnato dalla raccolte di poesie, sempre di Arminio, “Le vacche erano vacche e gli uomini farfalle”.
Mimmo Mastrangelo
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Severino Di Giovanni |
Il discusso
Severino Di Giovanni
Agenzia x è uscita con una novità interessante, ha deciso di ripubblicare con una nuova traduzione di Alberto Prunetti, nuove foto e aggiornamenti fatti dall’autore una bella edizione del libro: Severino Di Giovanni. C’era una volta in America del sud di Osvaldo Bayer.
Chi era Severino di Giovanni? Si avvicinò da giovane alle idee anarchiche leggendo i classici da Bakunin a Malatesta. Nel 1921 entrò a far parte del movimento anarchico.
Nel 1922, Severino decise di scappare dall’Italia perché le persecuzioni fasciste contro i militanti rivoluzionari erano dilagate. Come luogo dell’esilio decise di andare in Argentina con sua moglie Teresa Mascullo e i suoi tre figli. Era molto giovane partì dall’Italia a soli 24 anni, arrivò a Buenos aires con una delle ultime grandi ondate di immigrati italiani.
Severino è un militante anarchico che da molta importanza alla stampa di giornali e libri per aumentare la controinformazione contro lo stato e il capitale. Scrive su uno dei primi numeri del suo giornale:
«Diffondere le idee anarchiche tra i lavoratori italiani. Contrastare la propaganda dei partiti politici pseudo-rivoluzionari, che fanno dell’antifascismo una speculazione per le loro future conquiste elettorali. Iniziare tra i lavoratori italiani agitazioni di carattere esclusivamente libertario per mantenere vivo lo spirito di avversione al Fascismo. Stabilire un’intensa ed attiva collaborazione tra i gruppi anarchici italiani e il movimento anarchico locale.»
Il libro ripercorre le tappe che portano Severino ad agire con determinazione nella sua lotta per scuotere la società argentina, le prime azioni saranno contro il regime fascista che lo aveva costretto all’esilio e saranno poco più che dei volantinaggi. La polizia argentina cominciò ad interessarsi di lui il giorno in cui lanciò dagli spalti del teatro Colòn di Buenos Aires un volantino inneggiante a Matteotti. Insieme ad altri nel teatro cominciarono ad urlare “Abbasso il fascismo!”, per bloccare un’iniziativa dei fascisti che vivevano nella capitale argentina. La polizia argentina li fermò e i miliziani fascisti li presero a pugni e bastonate.
Di Giovanni nel corso degli anni portò avanti una intensa attività rivoluzionaria, sia sul piano teorico - con la pubblicazione del Culmine e di alcuni libri - sia sul piano dell’azione, con una lunga serie di attacchi contro strutture del dominio, banche, chiese e palazzi del potere. Deciderà di dare sempre più forza all’azione violenta con la campagna di solidarietà a Sacco e Vanzetti.
La sua non è una storia semplice da raccontare perché anche all’interno dello stesso movimento anarchico argentino si creerà molti nemici, che erano contrari all’uso della violenza e contrari alla propaganda con il fatto.
I primi anni di lotta illegalista e bombarola di Severinio e compagni saranno caratterizzati da bombe simboliche, ordigni posti per danneggiare la proprietà o per colpire militari assassini. A un certo punto per motivi, che Bayer spiega molto bene nel testo, Severino commetterà degli errori di strategia che causeranno morti tra i civili.
Tutta la storia politica di Severino è da contestualizzare in un momento storico in cui la guerra contro lo stato capitalista e i regimi fascisti era particolarmente forte, tanto che lo stesso Luigi notoriamente su posizioni diverse, pur criticando l’azione violenta, leggerà alcuni atti di Severino come una comprensibile reazione alla violenza fascista.
Il libro è anche attraversato da una sua straordinaria storia d’amore con una compagna di nome America, sorella di due compagni illegalisti del gruppo di Severino.
Un libro che si legge tutto d’un fiato, un personaggio che riesce a scompaginare non solo la storia borghese ma anche quella del movimento anarchico.
Andrea Staid
Per comprare il libro
o direttamente dal sito http://www.agenziax.it/
o in libreria.
Separiamo la rockstar
dall'individuo
Alla voce Vasco Rossi in Wikipedia si contano ben 36 titoli biografici sul cantautore, o meglio, “provocautore” come ama definirsi. A questo punto “il nostro” ha sentito il bisogno di dare, dopo trentasei opinioni, la sua versione su Vasco (Vasco Rossi, La versione di Vasco, Milano, Chiarelettere, 2011, pp. 192, euro 14.00), costituita da una raccolta di dichiarazioni, una sorta di diario autobiografico, dove l’autore prova da dire la sua su se stesso, sulle innumerevoli forme della sua esistenza, sulle ragioni del suo successo e della sua popolarità per le quali ancora dimostra incredulità e stupore razionali. Come se la vita gli fosse precipitata addosso coincidendo, fortunatamente, con quello che desiderava fare. Non il ragionier Rossi dietro lo sportello bancario, come sembrava destinato visto il diploma in ragioneria, ma il rockettaro dalla vita spericolata, intesa come partecipazione piena, accelerata, a un’esperienza che ha sempre avuto toni e modalità esistenziali.
Non irriti i lettori di questo mensile il suo definirsi, fin dalla copertina, anarchico. Il suo è un anarchismo esistenziale, umano, prima che politico e ideologico, in quanto significa sentirsi totalmente libero, privo cioè di costrizione esterne, imposte dalla morale o dal proprio ruolo, e sottoposto invece alla piena autoresponsabilità dell’autodisciplina soggettiva. Volendo soddisfare i maniaci della ricerca delle ragioni storiche, si può dire in proposito che il giovane Vasco incontrò l’anarchismo nelle persone e nelle letture, quando frequentava l’università a Bologna, come reazione al troppo “ideologismo” politico e militante che gli si paventò davanti nella forma delle organizzazioni extraparlamentari di sinistra.
Personaggio polivalente, capace di mantenere i contatti con più “generazioni di sconvolti”, quali quelle che si sono succedute dall’inizio della sua carriera da rock star fino ad oggi, egli ci sorprende sempre e ancora per la freschezza delle sue dichiarazioni, spesso contro corrente, contro il senso comune e le banalità “filosofiche” del momento, nel tentativo di andare oltre, di dare espressione e descrizione a un procedere della vita che avanza con la forza della natura e che, solo dopo, cerca disperatamente di trovare un senso, per approdare spesso alla consapevolezza che un senso la vita non ce l’ha.
Attento osservatore, descrittore e interprete, di quelle che sono le sottostrutture primordiali del vivere, i sentimenti, le relazioni, le emozioni, le speranze e le delusioni, che condizionano l’agire umano nella sua quotidianità, prima e forse più ancora dell’economico e del sociale, Vasco Rossi non si tiene fuori dalla mischia politica. La osserva con disincanto e vi partecipa con il suo impegno nelle battaglie civili e di civiltà. L’ultimo esempio in tal senso, tra i molti che si potrebbero citare, è di pochi giorni prima del Natale appena trascorso, quando ha incontrato una delegazione di operai dell’Ims di Caronno Pertusella su sua richiesta. Oggetto dell’incontro la lotta che i dipendenti portando avanti per non far morire l’azienda che in passato ha tanti successi musicali, tra cui anche i suoi Cd. Una lotta pienamente condivisibile, ha dichiarato, «non sopporto queste cose dove sono i lavoratori a pagare gli errori dei potenti». Vasco Rossi è anche questo. Infatti, ricorrente nel testo è il tema della separazione tra mito e persona.
Egli vuole prendere le distanze dal suo mito, quello raccontato in tanti libri, immagini, interpretazioni. Separare Vasco Rossi rockstar da Vasco persona e individuo, per trarsi fuori dalle rappresentazioni iconografiche e riproporre invece il suo sentire e il suo vivere, cioè il suo percorso esistenziale.
Diego Giachetti
Un'Ortica
da leggere
Si parla molto, ultimamente, di editoria digitale, di inarrestabile declino della carta stampata, di mancanza di interesse e di iniziativa per nuove avventure editoriali, eppure… eppure, ostinatamente, e con buoni risultati, c’è ancora chi dedica le proprie energie e capacità a un’attività che non finirà mai di contribuire allo sviluppo del pensiero e della conoscenza. Da pochi anni opera ad Aprilia una piccola casa editrice, Ortica Editrice Società Cooperativa, che con un equilibrato investimento di energie è in grado di offrire una scelta di titoli in gran parte ormai introvabili e a maggior ragione utili, interessanti e originali. Con uno spirito solidale, e “di servizio”, ottimamente sintetizzato nella sua dichiarazione di intenti:
L’Ortica editrice persegue con i fatti quella solidarietà così lontana dall’attuale competizione fratricida. È animata da idee che sole possono dar moto alle vicende umane. È animata dallo spirito di cooperazione, dall’amicizia, dalla fratellanza, dall’armonia possibile fra tutti gli esseri umani.
Come si vede, parole impegnative che trovano riscontro nella articolata e interessante scelta dei titoli proposti: accanto ad alcune opere originali, tante riproposte di vecchi testi, dei veri e propri classici del pensiero libertario e antiautoritario, se non dimenticati, spesso decisamente introvabili.
Sfogliando il catalogo vediamo, accanto ai due imperdibili testi malatestiani, Al Caffè e Fra contadini, che nel corso degli anni e delle innumerevoli edizioni hanno contribuito a orientare generazioni di militanti, una riedizione della famosa Cecilia, l’opera nella quale il medico anarchico Giovanni Rossi, sul finire dell’Ottocento, descrisse l’esperienza comunitaria di un piccolo gruppo di arditi sperimentatori italiani nelle foreste brasiliane. E, accanto a questi, un altro classico, Il Capitale brevemente compendiato, al quale Cafiero lavorò nelle carceri beneventane dopo la fallita insurrezione del Matese. Un testo ancora attualissimo, che ebbe, unico fra i tanti tentativi coevi di divulgazione, la completa approvazione del solitamente ipercritico Carlo Marx.
Oltre ai testi classici dell’anarchismo militante, tanti altri volumetti ispirati al pensiero antiautoritario e libertario sviluppatosi nella “nuova” ed effervescente società nordamericana dell’Ottocento. Di Henry David Thoreau il famosissimo Disobbedienza civile, uno dei capisaldi del pensiero critico universale, e inoltre L’anima suprema, di Ralph Waldo Emerson, un testo originale ancora capace di stimolare la curiosità del lettore. Fra gli altri titoli, indicativi della versatilità delle scelte editoriali dell’Ortica, figura Dall’altra sponda, nel quale il pensatore russo Alexander Herzen gettava le basi, a metà Ottocento, per nuove riflessioni sul diritto alla disobbedienza, in particolare nei confronti dell’autocrazia zarista.
Un altro piccolo e dimenticato gioiello riproposto dall’editore è Il monopolio dell’uomo, il testo protofemminista nel quale Anna Kuliscioff, con feroce sarcasmo, affermava che «il primo animale domestico dell’uomo è stata la donna». A questo si affianca l’ormai introvabile (ma a suo tempo un vero best seller), S.C.U.M. Manifesto per l’eliminazione del maschio, con il quale Valerie Solinas manifestava senza tanti compromessi le tesi più ardite del femminismo radicale degli anni Sessanta.
Accanto ai testi più attinenti alla teoria libertaria, c’è anche un piccolo grande capolavoro della narrativa italiana del Novecento, quel Ritratto in piedi con il quale la scrittrice Gianna Manzini riporta alla luce la splendida figura del padre, anarchico ottocentesco amico di Malatesta e Pietro Gori, appassionato propagandista dell’“idea” e persona dalla grande e piena umanità. Si tratta, a mio parere, di uno dei più bei libri del secolo appena passato, e non mi faccio scrupolo di invitare i lettori di “A” a procurarselo, se ancora non hanno avuto il piacere di leggerlo. Perché quelle pagine appassionate riescono a trasmettere, come poche altre, lo spirito con il quale i nostri predecessori vivevano e affermavano la grandezza del pensiero libertario. Massimo Ortalli
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Emilio Canzi
(foto Archivio ANPI Piacenza) |
Radio Leningrado,
Emilio Canzi
e altre storie
Quando un libro mi tocca nel profondo… diventa una valanga. Che quando giunge a valle…
Signori, non mi vergogno a dire che leggendo “Ascolta! Parla Leningrado… Leningrado suona!” ho pianto.
È il 17 novembre 2011, giovedì. Sono seduta in cucina, la stufa spenta. Ci sono 14° e ho freddo. È una limpida mattina di sole, qui sull’Appennino. E io sto leggendo a voce alta il copione di Sergio Ferrentino sull’assedio di Leningrado, nel 1941. Sono con lui negli studi (così si direbbe oggi) di Radio Leningrado. La Radio che allora, per 900 giorni, tanto durò l’assedio da parte dei nazisti, divenne… il «metronomo», il cuore pulsante della città sul Baltico.
Ma oggi è anche l’anniversario della morte, nel 1945, di Emilio Canzi, il «colonnello anarchico», partigiano «comandante della XIII zona con il nome di battaglia di “Ezio Franchi”». Canzi è sepolto a pochi chilometri da casa mia, in un piccolo cimitero di montagna. Dove la bandiera nera degli anarchici sulla sua tomba passa inosservata. Semplicemente perché nessuno, da queste parti, sa cosa significhi.
Dovrei accendere la stufa, fa freddo. Ma la lettura mi inchioda alla sedia. E mi sento a disagio per questa sensazione di freddo… Che sarebbe stata quasi primavera… per chi di freddo e di fame morì… in quei giorni… a Leningrado…
Da Radio Leningrado Ferrentino ci racconta una città allo stremo. Ma non è Leningrado… il punto. Il punto è la coscienza. «Si può perdonare tutto questo?», fa chiedere l’autore di “Ascolta! Parla Leningrado…” a una delle sue attrici, il “Leggio 6”.
Mentre cammino sulla strada che porta alla chiesetta di Peli, luogo simbolo dell’antifascismo non solo piacentino ma di tutto il nord-Italia, cerco di immaginare che cosa deve essere stata la resistenza su questa montagna. Cerco di immaginare dove si potessero nascondere i partigiani in inverno. Cosa mangiassero. Dove dormissero. Cerco di immaginare la gente di qui. La loro paura… I continui prelievi forzati di generi alimentari… Le violenze… E il grande rastrellamento del novembre 1944… Cerco di immaginare l’incubo di 10.000 soldati della divisione Turkestan, prigionieri di guerra mongoli, che attaccano questo minuscolo paese insieme a ufficiali tedeschi e della RSI per arrivare nella Val Nure…
«Si può perdonare tutto questo?»
Questo… è il punto. Perché tutto questo sta accadendo ancora oggi. Nel mondo. Io sono seduta in cucina e tutto questo accade, ancora e ancora. Nel “resto” del mondo.
Sergio Ferrentino è soprattutto un autore radiofonico. Bravo e molto noto. Ma “Ascolta! Parla Leningrado…” non è solo un ottimo copione. (Ancora una volta pensato in primis per la Radiotelevisione svizzera e solo successivamente messo in scena al Teatro Litta di Milano, nel gennaio 2010).
Sergio Ferrentino si è immedesimato nei redattori di Radio Leningrado, è entrato attraverso di loro in quello storico assedio al punto che il suo lavoro ha perso la nozione del tempo e del luogo. Tempo e luogo che restano, indubbiamente. Ma si perdono… in chi legge. In me.
Non voglio privare il lettore della scoperta della sensibilità e della poesia che queste pagine racchiudono. E insieme della crudezza di cui vive il racconto. Né voglio risparmiargli l’angoscia di questo viaggio in una trama disperata ed eroica. Dove la Settima Sinfonia di Dmitrij Šostakovic è… un faro? la speranza? il riscatto?
I vecchi partigiani di Peli che conobbero Emilio Canzi sono tutti morti. L’ultimo, il più giovane, tre settimane fa. Tra i numerosi aneddoti che raccontavano, mi aveva colpito quello del cane. Il colonnello anarchico «non faceva un passo senza il cane». Un cane che aveva trovato lì, a Peli. «Ma intelligente eh… sai quante volte ha sentito i tedeschi prima di noi!»
Ecco, è come se Sergio Ferrentino avesse avvicinato il cane di Emilio Canzi. Nel «cerchio d’acciaio» che costringe Leningrado a un inferno, Peli a un inferno, solo i cani, infatti, sanno l’odore del loro padrone. Un odore unico. Solo i cani possono raccontare senza impazzire di dolore la storia di quegli uomini e di quelle donne di cui hanno condiviso la sorte fino all’ultimo. (I cani, però, senza capire.)
Da Radio Leningrado passano storie minute. Che in Radio prendono vita. Si trasformano. Qualche volta sono taciute. Radio Leningrado è il cane dei leningradesi.
Stalin diceva che un morto è una tragedia, mentre un milione di morti è una statistica, scrive Ferrentino nella presentazione del suo testo. Radio Leningrado conosce l’odore dei leningradesi. Per lei i leningradesi non sono una statistica. Radio Leningrado è un cane fedele.
Fa male, questo copione. È un pugno nello stomaco. Non risparmia particolari tremendi. Perché dal 1941 tutto, a Leningrado, divenne perfettamente assurdo. Anche la Settima Sinfonia di Šostakovic… Forse!
E forse proprio per questo “Ascolta! Parla Leningrado…” è una delle letture di più alto valore civile che mi sia capitato di avere tra le mani in questi ultimi anni.
I morti nell’assedio di Leningrado sono stati un milione, 750.000 dei quali sono morti di fame e di stenti. A Peli non so. Ha qualche importanza? Per i cani sì, ce l’ha.
Emanuela Scuccato
Sergio Ferrentino, “Ascolta! Parla Leningrado… Leningrado suona”, Milano, Edizioni del Gattaccio, Collana Theatrika, 2011.
Ivano Tagliaferri, “Il colonnello anarchico - Emilio Canzi e la guerra civile spagnola”, Piacenza, Edizioni di Scritture, 2005.
“Emilio Canzi, Piacenza (1893 - 1945), Un taciturno combattente per la libertà”, Dossier/Supplemento di “A, Rivista Anarchica”, n. 316, aprile 2006. |
L’identità anarchica,
tra purezza
e ibridazione
La bella antologia, Pensare altrimenti, che Salvo Vaccaro ha curato per le edizioni Elèuthera, offre una serie di saggi importanti che danno occasione e materiale denso e abbondante per una riflessione sullo stato di salute e sulle prospettive teoriche dell’anarchismo contemporaneo. Il punto di partenza, che costituisce anche uno dei fili rossi della raccolta, è una dichiarazione esplicita dell’insufficienza di una teoria che si voglia preservare nella sua purezza identitaria, guardando più alla coerenza rispetto al passato che agli sviluppi che il Novecento ha aperto alla riflessione.
Questa pretesa «purezza» ha portato a una chiusura autoreferenziale che «a lungo andare ha nuociuto, sia in chiave interna, poiché ha sclerotizzato una riproduzione pedissequa di idee, delle tesi teoriche , delle ipotesi analitiche, a fronte di una realtà storico-materiale che si è venuta terremotando nel corso dei secoli, con preoccupante riflesso sulle modalità storiche delle forme e dei modelli organizzativi dei movimenti reali; sia in chiave esterna, sotto forma di minore potenziale di attrazione verso nuove generazioni sempre più permeabili da novità più o meno radicalmente discontinue rispetto al passato» (p.12). I frutti puri, come diceva Clifford, impazziscono; la purezza, come diversi antropologi (e non solo) hanno mostrato, è strettamente legata alla percezione di un pericolo, a una sorta di desiderio immunitario di fronte a un’invasione che porterebbe a una perdita della propria identità e alla conseguente dissoluzione. È ben vero che l’anarchismo, come e più di altri movimenti radicali, date le sue idee e la sua storia, qualche ragione di proteggersi dagli attacchi esterni forse ce l’ha, ma bisogna sempre valutare cosa si guadagna e cosa si perde in questa sorta di arroccamento identitario: da una parte la compattezza e la coerenza interna, l’unione che fa la forza, dall’altra un certo offuscamento nella percezione della complessità, nella presa sulla realtà, ma soprattutto un certo ingessamento e incapacità di cogliere il nuovo. Certo, si dirà, già all’interno del nucleo teorico dell’anarchismo c’è una grande varietà di posizioni e opzioni teoriche e già soltanto tenere insieme Proudhon, Bakunin e Kropotkin, per non parlar di Stirner, qualche problema lo pone. E l’articolazione in senso radicalmente libertario di quel nucleo che il curatore felicemente sintetizza come «ricerca spasmodica di libertà nella eguaglianza tra differenti» (p.9), o ancora come «egual-libertà» contro l’opzione atomistica liberale, è un compito non da poco e che non può dirsi esaurito, che richiede occhi aperti sulla realtà, e grande senso delle sfumature.
Se però si assume questa diagnosi come punto di partenza, allora la terapia che questa raccolta indica sta nelle scorribande extraterritoriali, nei prestiti e nelle commistioni, nell’ibridazione con altre forme del pensiero radicale in particolare della seconda metà del Novecento e nella rilettura dei classici a partire da uno sguardo diverso.
L’opzione teorica del curatore, uno dei massimi studiosi italiani di Foucault e Deleuze, è chiara: si tratta di cercare strumenti concettuali, stimoli e ibridazioni con quell’area del pensiero francese tra gli anni Sessanta e Ottanta, che è stato variamente e infelicemente etichettato come post-strutturalista, post-moderno, post-umanista, e che risponde ai nomi tra gli altri di Derrida, Deleuze e Foucault, Lyotard, a cui si aggiunge quello di Lévinas che pur appartenendo a una generazione precedente, ha pubblicato le sue opere maggiori in quegli stessi anni. Al di là delle notevoli differenze di impostazione e dei dissidi tra questi pensatori, è possibile inserirli in qualche modo in una costellazione che ha almeno alcuni punti di riferimento comuni? Certo tutti, ma non sono certo i soli, hanno cercato di attaccare e smontare da diverse prospettive quell’edificio che con una comoda e impegnativa astrazione chiamiamo «metafisica occidentale», la quale non è soltanto una tradizione di pensiero (che, secondo la vulgata e con diverse varianti, parte dai Greci e arriva a Nietzsche), ma anche un sistema e una logica di giustificazione del dominio, della gerarchia e dell’autorità, una logica che informa di sé le nostre concezioni della società, della politica e della soggettività umana. L’anarchismo cerca le vie di fuga proprio da quell’ordine con cui una certa forma del pensiero ha cercato e cerca di ingabbiare la trasformazione sociale, le pratiche di sperimentazione della libertà e della re-invenzione delle relazioni orizzontali, sottomettendole al dominio dell’uno, dell’identità, del principio e della legge.
Allora ecco, ad esempio, la proposta di uno sguardo sull’anarchismo a partire dalla decostruzione di Derrida, che permette di mettere in sospensione concetti come quelli di legge, autorità, democrazia, sovranità che sono parte integrante del corredo storico della teoria politica.
«Un’interrogazione decostruttiva della legge, scrive Newman in uno dei saggi del volume, rivela (…) l’assenza, lo spazio vuoto che sta alla base dell’edificio giuridico, la violenza che affonda le proprie radici nell’autorità istituzionale. Dunque l’autorità della legge può essere messa in dubbio: mai dovrebbe essere lasciata regnare in modo assoluto in quanto contaminata dalla propria violenza fondativa» (p. 162). Ciò che lo scavo della decostruzione porta alla luce, in questa come in altre analisi, è una situazione di radicale assenza di fondamento e dunque di contingenza, di apertura e di possibilità di cambiamento in senso emancipativo. Tutto ciò non conduce, né può condurre a una qualche instaurazione di una definitiva società liberata, anarchica, una sorta di fine della storia, basata su alcuni principi, per quanto condivisibili, dati una volta per tutte, in cui si riconcilierebbero in via definitiva pensiero e realtà in una totalità chiusa. Ciò che verrebbe meno in questa sorta di contraddittoria instaurazione e istituzionalizzazione di un principio anarchico è «la pluralità costitutiva dello stare-al-mondo che coniuga singolarità e libertà interminabile» (p. 15). In uno dei saggi più densi del volume, dedicato a una rilettura di Lévinas, Abensour prova a elaborare proprio il paradosso del «principio di anarchia»: «l’anarchia non regna, l’an-archia non può essere sovrana come l’arché, non può essere posta come un principio, a meno che non ci si voglia contraddire. Di qui a contraddizione ineludibile degli anarchici che vorrebbero l’anarchia al potere» (p. 82). Ma il fatto di non possa fondarsi su un principio, non significa che l’an-archia non influisca sulla politica; funziona a livello meta-politico come un costante turbamento della politica che sospende i suoi punti di riferimento tradizionali e in primis lo Stato.
Insomma, quel che queste letture e attraversamenti mettono in atto sono una serie di dislocazioni rispetto all’edificio teorico dell’anarchismo che si è forgiato su una diversa concezione del Potere, dello Stato e del Soggetto. Che si tratti della concezione del potere diffuso foucaultiano, in contrapposizione alla visione gerarchica e verticale, oppure di una rilettura dell’etica a partire dall’apertura all’altro e dalla giustizia interminabile e non più sulla base di valori fondativi, o ancora di contestare una concezione monolitica del Soggetto dell’emancipazione sulla base dell’ambiguità strutturale di assoggettamento e soggettivazione, ciò che queste riletture provocano è in primo luogo un salutare perturbamento dell’edificio teorico dell’anarchismo, e una spinta a percorrere nuove direzioni di analisi e riflessione.
A mio parere, e per concludere, tre questioni decisive, tra le altre, attraversano l’intero percorso del libro e costituiscono altrettanti nodi problematici che la riflessione anarchica dovrebbe continuare a sciogliere.
La prima concerne un’etica che non si basi su un formalismo astratto e universalistico, («Tu devi…», «Non ucciderai» e così via) che al tempo stesso sia in grado di promuovere quella «libertà nella eguaglianza tra differenti», senza ricorrere a una fondazione esterna (e tanto meno a supposte leggi di natura), né soccombere a un’arbitrarietà paralizzante, su cui in particolare il saggio di Simon Critchley dice cose interessanti. Dopo un’acuta analisi della posizione lévinasiana rispetto alla politica, il filosofo inglese sulla scorta del pensiero di Derrida definisce l’etica «come l’infinita responsabilità di un’ospitalità incondizionata (…) L’infinita richiesta di un’etica sorge in risposta a un contesto unico ed esige l’invenzione di una decisione politica» (p. 135-136). Un’etica contestuale, libera da ipoteche fondazionali e aperta alla provocazione delle emergenze singolari e delle molteplici alterità, umane e nonumane.
La seconda concerne la politica, verso cui l’anarchismo nutre da sempre giustificati sospetti in quanto, scrive Vaccaro, «pratica disgiuntiva che mette in opera una sfera separata deputata a governare una società concettualizzata nella sua inesorabile minorità; (…) e in quanto tecnica di dominazione che permea di sé ogni modalità organizzativa di convivenza societaria» (p. 16). La posta in gioco è quella che intreccia teorie e pratiche di liberazione che portino a forme di vita e convivenza, senza riferimenti trascendenti (più o meno occulti), in cui il potere che circola orizzontalmente, invece di trasformarsi in dominio istituzionalizzato, produca potenza liberatoria e non soggezione mortifera.
Ultimo, e non da ultimo, la questione cardinale dell’umanismo antropocentrico, della sua provenienza teologica e della sua pesante eredità sui modi di pensare e praticare la convivenza sulla Terra. «Lo spettro dell’Uomo-Dio è tra noi ed è ancora lontano dall’essere esorcizzato» (p.152), come dice Newmann. In questo senso l’anarchismo di ogni giorno con la sua potenza affermativa destrutturatrice, perturbante e autocritica è sulla buona strada come «affermazione della molteplicità degli esseri e delle loro capacità di comporre un mondo senza gerarchia né dominio» (Todd, p. 60).
La critica dell’umanismo e della metafisica antropocentrica va intesa non come un rifiuto misantropico e liquidatorio della tradizione emancipatoria (senza però dimenticarne il lato oscuro e regressivo) e dei risultati ottenuti dalla modernità illuministica, ma come un’investigazione critica della soggettività umana, delle forze materiali (economiche, storiche, linguistiche, sociali) che lavorano alla formazione del soggetto umano. Si tratta di passare contropelo l’umanismo, decostruirlo per trovare le forze al lavoro nella costituzione della soggettività al fine di sviluppare un pensiero della politica e delle relazioni realmente e radicalmente post-metafisico.
Filippo Trasatti
Malatesta
romanzato
Le edizioni eleuthera hanno appena pubblicato, di Vittorio Giacopini, Non ho bisogno di stare tranquillo (160 pp. illustrate / 14,00 euro). Sottotitolo: Errico Malatesta, il nemico pubblico numero uno di tutti i governi e di tutte le questure, ripensa sessant’anni di anarchia, rivolte, rivoluzioni.
Roma, quartiere Trionfale, via Andrea Doria. – si legge nella scheda editoriale – È il 10 novembre del 1931. Costretto ai domiciliari – una clausura: quattro stanze in penombra, niente orpelli, una bombola per l’ossigeno accanto al letto (e due poliziotti fuori, sul pianerottolo) – un vecchio ripensa una straordinaria esistenza di avventure, fughe, grandi imprese, senza melense nostalgie e senza rimpianti. Errico Malatesta, il “temibile anarchico” Malatesta, l’uomo che era stato considerato il “Lenin d’Italia”, il nemico numero uno di tutti i governi e di tutte le questure, non si lascia piegare dallo sconforto. La tortura dei ricordi si fa teatro della memoria, arma politica. Nell’arco di una giornata scandita dal battito di una pendola bugiarda, Malatesta rivede l’intera sua vita e ancora se ne stupisce. I giorni della Banda del Matese e le carceri del regno, l’esilio a Londra e i viaggi in Argentina, il ritorno da clandestino e le ultime rivolte, il “biennio rosso”. E questo finale di partita a Roma, in via Andrea Doria. Nel ricordo, sessant’anni di anarchia, rivolte, rivoluzioni, si intrecciano con la storia d’Italia – ora in orbace – e con le avventure del movimento operaio in tutto il mondo. Stremato dalla vecchiaia, e dai fascisti, il vecchio resta sereno, non si lagna. Quel suo eterno vagabondare, pensa, ha avuto un senso. Pur non avendo vinto mai, non si sente sconfitto e non è sconfitto. A ottant’anni suonati, ha ancora voglia di battersi e spera ancora: “Studio, scrivo in vista dell’avvenire, e non potendo provocare gli eventi, li aspetto”.
Vittorio Giacopini, romano, lavora nell’agenzia di stampa TMNews e collabora alla rivista “Lo straniero” e alle pagine domenicali del “Sole 24Ore”. È inoltre uno dei conduttori della trasmissione Pagina3 di Radio3 Rai. Autore di vari saggi, ha anche scritto alcuni romanzi: Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer (Mondadori 2008), Il ladro di suoni (Fandango 2010) e L’arte dell’inganno (Fandango, 2011). Per elèuthera ha già pubblicato Una guerra di carta, il Kosovo e gli intellettuali (2000) e No-global tra rivolta e retorica (2002), oltre ad aver curato la raccolta di scritti politici di Albert Camus Mi rivolto dunque siamo (2009).
Ripubblichiamo l'introduzione dell'autore, intitolata “Appunti su un romanzo che non è un romanzo”:
“La leggenda è più vera della storia, più interessante”. Quando Errico Malatesta scriveva queste parole parlando della Comune di Parigi, anni e anni di storicismo venivano bruciati in una battuta e si apriva una terra di nessuno dove azione politica, lotta, propaganda, tornavano a essere pura incognita, peripezia. Oltre un secolo dopo, è anche una sfida per il narratore. La leggenda “è più vera” della storia, più interessante. Nel caso di Malatesta, l’assunto è vero due volte e inevitabile. Per uno come lui – così restio a “parlare di sé”, nel bene e nel male – forzare il confine del vero e del falso è imperativo. Una vita di avventure, di imprese, di riflessione, elusa nel silenzio, sottaciuta: la combinazione, per chi racconta storie, è irresistibile. Un eccesso di indizi, reperti, tracce, documenti e neanche un fil rouge capace di dargli un senso, la direzione. Carte su carte – volantini, opuscoli, trattati, articoli di giornale, manifesti – e neanche uno straccio di confessione autobiografica; niente di intimo.
È un vuoto da colmare; e un’occasione. Ovviare al suo silenzio; dargli una “voce”. Quando entra nella “storia” è grazie alla prosa poliziotta delle questure; il giorno che muore sono ancora i poliziotti a raccontarlo. Uno scrive e cerca di sovvertire questo schema. Non è solo questo il punto ma è anche questo: sottrarlo a quella prosa, a quello stile. È il compito della letteratura, senza estetismi: lavorare ai fianchi il linguaggio del potere, farlo saltare. Quanto agli specialismi, sono un’altra iattura, un peso inerte. Bisogna scavare ancora; immaginare. Le opere sono lì, lettera morta, ma chi era Malatesta resta dubbio. Bisogna inventarsi la sua “leggenda”, in pieno arbitrio (sapendo che è un modo di fare storia: falsificando).
Quando ho iniziato a scrivere Non ho bisogno di stare tranquillo sentivo che il nodo era quello, un’incertezza. E il motto di Vico che ho scelto come exergo per questo romanzo-che-non-è-un-romanzo (la formula docu-fiction è più adeguata) allude proprio a questo, coerentemente. “La memoria è l’istesso che la fantasia”. Non contano il vero o il falso, a conti fatti. Bisogna avere una prospettiva, una visione. Bisogna avere un pretesto, anche abusivo. Il mio punto di partenza è il palazzo di Via Andrea Doria (un falansterio), quella targa di marmo, reticente. L’avevano confinato lì, murato vivo, e lì ho voluto immaginarlo, adesso stanco e malato, rimuginante. Quattro stanze, una bombola a ossigeno, troppi ricordi; e un senso di impotenza, devastante. Che diamine pensava Malatesta in quei giorni terminali, ormai al tramonto? Mi avevano colpito certe sue ultime lettere, straordinarie, un tono sospeso tra rassegnazione e rabbia, folli speranze. Non “potendo provocare gli eventi… li aspetto”. Parole limpidissime e amare, lucidissime. Nessun tono piagnucoloso, recriminante. Poteva essere un buon punto di partenza.
Gli anarchici hanno un difetto: sono retorici. La Storia li ha emarginati, messi al bando, e la replica spesso è stata (ed è) consolatoria. Si rischia sempre il “santino”, l’agiografia. In rete, si moltiplicano “calendari dei santi libertari” e altre vaccate; c’è una certa puzza di incenso (per quanto sovversivo) insopportabile. Se avevo remore e dubbi venivano da lì, è comprensibile. Per questo ho scelto di raccontarlo al contrario, dalla fine: quando il lumino era quasi spento, debole e fioco; quando non c’era più niente da fare e lui era senza risorse, senza futuro (anche se al futuro lui si ostinava a crederci ancora: voleva farlo).
Il teatro della memoria, arma politica; la tortura dei ricordi, un’agonia. Una vita di imprese e sortite e lotte ridotta adesso a clausura rammemorante, a noia da eremita, a lenta pazienza. Restava il lavorio di una mente assorta. Quel vecchio – o almeno così me lo sono immaginato – più che stilare bilanci, voleva capire. Ma nessuna contabilità meschina a partita doppia e niente “senno del poi”, saggezza borghese. Non si vince e non si perde: si vive e ci si spende, sperimentando. Nel pensiero libertario c’è questa costante assurda, una condanna. Si perde avendo ragione; si continua a perdere e si continua ad avere ragione, sempre e comunque. Si vive di schiaffi in faccia e omaggi postumi. Nel caso di Malatesta, indubbiamente. Per tutta la vita, aveva sempre azzardato, forzato i tempi, e i tempi, che l’avevano sbugiardato troppe volte, finivano per chinarsi alle sue intuizioni, beffardamente. È così sempre e comunque, è inevitabile. Ieri come oggi (e certo come domani, lo vedremo). Vale per la storia del pensiero politico tra Ottocento e Novecento (e tra luci e ombre). Vale per il passato più immediato. Dieci anni fa, gli invasati di Seattle parevano sognatori, teste balzane. Oggi le loro provocazioni, gli slogan anche più estremi e radicali, più oltranzisti, sono “senso comune”, banalità. Si perde avendo ragione: non c’è verso.
“Per imparare la geografia, disegna carte”. Oggi che il mondo è interamente “mappato”, scrutato dai satelliti, spiato, il consiglio del vecchio Van Loon sembra obsoleto, ma c’è sempre la possibilità di inventarsi mondi a parte, zone autonome, spazi provvisoriamente autonomi, liberati. Si resiste al modo degli indigeni “sconosciuti” del grande Elisée Reclus, il geografo anarchico: mettendosi di sbieco, sottraendosi, o facendosi invisibili in audaci altrove inesplorati. Nella vita di Malatesta c’è uno scarto che esaspera questo enorme paradosso e lo spiega meglio. Lui che aveva viaggiato mezzo mondo, in lungo e in largo, adesso vedeva quel mondo rimpicciolirsi e ai vasti orizzonti aperti di una volta s’era ormai sostituita una prospettiva stanziale, cupa e coatta. Mi andava di immaginarlo in questa terra di nessuno, pieno di dubbi. Davvero era stato tanto avventuroso, intraprendente e audace, inarrestabile? Cadice, Londra, l’Egitto, New York, Buenos Aires, la “banda del Matese”, la Patagonia. Di quelle mille vite da ribelle gli avanzava un vago sentore che la sua vita attuale – tappato in casa – rendeva assai improbabile, anzi incredibile. Provocatore di eventi, agitatore, elettricista e meccanico, cospiratore (e cercatore d’oro, alla bisogna): di tutte le sue maschere, dei suoi volti, restava poco o niente, solo un tarlo.
Come rivoluzionario fu davvero un Ulisse dell’anarchia, Malatesta, e tutta la sua “carriera” è stata un itinerario del sé attraverso i miti (i miti del progresso, della rivoluzione, della giustizia sociale, dell’uguaglianza) che la tranquillità obbligata della fine non conferma né smentisce, rende “leggenda”. Quest’aura imprecisa, vaga, potenziale, mi è sembrata affascinante e ho voluta raccontarla standoci dentro. Siamo quello che siamo ma nel tempo e nello spazio, in situazione. Non bisogna farsi mai troppe illusioni. “In sociologia e in topografia – aveva scritto – uno non va dove vuole andare ma dove mena la strada in cui si è messo”. La sua anarchia era irrequieto buonsenso, senza autoinganni.
Vittorio Giacopini |