E piangi e di te stessa ti disdegna;
Che senza sdegno omai la doglia è stolta
Giacomo Leopardi, Sopra il monumento di Dante che si preparava a Firenze, vv. 13-14) |
E adesso?
Il punto di partenza si condensa nella considerazione che la manifestazione del 15 ottobre a Roma costituisce uno snodo fondamentale per il futuro prossimo di quella cosa di cui comprendiamo tutti realtà, consistenza e pregnanza, pur perseverando a denominarla genericamente come ‘movimento’. “Quale movimento?”, si interrogano inquieti opinionisti, politici, banchieri e magistrati.
Il 15 ottobre è una data importante per questa nuova realtà, non solo perché la manifestazione romana si è trovata inscritta dentro una rete planetaria – in via di costituzione e sempre più ricca – di protesta e di progettualità alternativa verso gli esiti aberranti del dominio economico e finanziario del mondo, ma perché ha visto finalmente sfilare migliaia e migliaia di donne e uomini, appartenenti a segmenti assai differenti della società, al di fuori delle sigle di partiti e istituzioni. È stato un processo multitudinario, un patchwork multicolore che ha visto finalmente fianco a fianco studenti medi e universitari, lavoratori precari provenienti dai più diversi settori, metalmeccanici, ceto medio in via di impoverimento, migranti, borgatari enragés, valligiani no-tav e tanto altro ancora.
È stato un esercizio felice di democrazia diretta e di pratica dell’orizzontalità. Esercizio felice, ancorché primaverile; da perseguire, pertanto, con intelligenza critica, oltreché con paziente e tranquilla passione. Del resto, non vi è altra strada oggi percorribile se non questa: incontrarsi, conoscersi, discutere, a lungo e senza fretta, qualora le circostanze lo richiedano. È l’unico metodo – è bene ribadirlo – che sappiamo e coltiviamo: orizzontale, autogestito, condiviso, senza autorità; nella percezione della pluralità come forza creatrice, ricca e potente, non riducibile agli schemi della delega a funzionari di partito o di qualsivoglia istituzione. Questo abbiamo visto e apprezzato nelle vicende dell’acampada spagnola e nel movimento ‘occupy Wall street’; questo va dunque praticato anche da noi, e non solo nei forum della rete o nei social network, ma nel confronto vivo tra persone vive, perché di questo c’è soprattutto bisogno oggi.
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Roma, 15 ottobre 2011 |
Quale violenza?
Ma la manifestazione romana è stata contrassegnata anche da scontri e violenze, lo sappiamo e lo abbiamo visto. Le considerazioni più sensate in merito le ha fatte il vecchio Valentino Parlato sul “manifesto”, all’indomani del corteo. Le riportiamo e le sottoscriviamo in toto: “Meglio se non ci fossero state, ma nell'attuale contesto, con gli indici di disoccupazione giovanile ai vertici storici, era inevitabile che ci fossero. Aggiungerei: è bene, istruttivo che ci siano state. Sono segni dell'urgenza di uscire da un presente che è la continuazione di un passato non ripetibile”.
A freddo e sulla scorta di quanto detto sopra, possiamo aggiungere un paio di considerazioni. Certo, ogni movimento di piazza, in ogni frangente storico, ha avuto le sue espressioni violente; ci sono sempre state e sempre ci saranno. Ma non basta arrestarsi a simili constatazioni. Degno di nota è ciò che ha scritto in merito Bifo (sempre sul “manifesto”); così annota: “Io vado tra i violenti e gli psicopatici per la semplice ragione che là è più acuta la malattia di cui soffriamo tutti”; chiarendo, poco oltre che non si tratta di fermarsi lì, sulla soglia di una compartecipazione empatica, ma che “il nostro dovere è inventare una forma più efficace della violenza, e inventarla subito”.
Qualcosa di più efficace della violenza, dunque. L’urgenza di cui si parla sta tutta nel fatto che le derive violente del 15 ottobre possono costituire in primo luogo un fattore di divisione interna che rischia di infrangere quel mosaico pazientemente autocostruito e ancora lontano dall’essere compiuto. Non si tratta qui di fare i buonisti, né di elargire scomuniche. Per dirla in altre parole: gli spezzoni violenti del corteo sono stati una forma di sovradeterminazione, uguale e contraria a quella surrettiziamente veicolata da altri, ad esempio da Vendola e dal suo partito; quest’ultima, operata con l’intenzione, tutt’altro che vergine, di autoeleggittimarsi come rappresentante dell’intero movimento di protesta.
Ancora. Di fronte agli scontri c’è anche chi ha denunciato una carenza organizzativa, invocando la presenza rassicurante di un qualche servizio d’ordine a tutela dei più. Non ci sarebbe scelta peggiore in questo frangente, né abbiamo bisogno di armate rosse in sedicesimo come nel passato recente (dai katanghesi alle tute bianche). C’è invece da riaffermare fino in fondo l’istanza orizzontale e anonima di chi si alza in piedi e si risveglia, dando finalmente forma, per tentativi ed errori, al proprio sogno.
Non solo: gli episodi di violenza, spettacolarmente (Debord docet) riproposti dai media, rischiano di adombrare un’evidenza che, pur essendo sotto gli occhi di tutti, non viene sufficientemente percepita e di conseguenza denunciata come tale: violenta è la società attuale che perpetua lo sfruttamento, l’ingiustizia e la miseria sociale, e al contempo sistematicamente depreda e ferisce l’ambiente. Questo genere di consapevolezza dev’essere reso ben visibile ed esteso (e i media nazionali non supportano tale lavoro, anzi). Violento, per fare un solo esempio, è l’impressionante divario fra il trattamento economico di qualche supermanager (i Marchionne o i Passera di turno) e il salario di migliaia di lavoratori, precari e non, la cui condizione si sta precarizzando sempre più.
C’è poi un altro punto, a margine, che merita osservare: le vicende politiche di casa nostra succedutesi dopo il 15 ottobre stanno sensibilmente modificando la fisionomia e l’orientamento della protesta. Per dirla tutta: la fine del cesarismo berlusconiano segna, dopo la caduta delle altre satrapie mediterranee (Mubarak, Ben Ali, Gheddafi), il congedo da una gestione in un’ultima istanza provinciale e levantina del potere e dell’economia, non più compatibile con le esigenze di un mondo sempre più globalizzato. Oggi, nell’Europa in crisi si governa su mandato della BCE (Papademos in Grecia e, appunto, Monti in Italia).
A questo punto cosa faranno gli aficionados antiberlusconiani? Cosa diranno i lettori assidui del “Fatto quotidiano”, il popolo viola, il movimento di Grillo, una volta terminati i festeggiamenti e i brindisi per la caduta del rais di Arcore, dinanzi alle misure del gabinetto Monti? Anche loro ammireranno il volto ascetico e l’incedere calvinista del nuovo premier (otto italiani su dieci approva il nuovo esecutivo, giubila “La Repubblica”), ritenendo ora giusti ed equi gli stessi provvedimenti che invece giudicavano iniqui e impopolari se proposti da Berlusconi e dal suo circo?
Cosa c’è dopo?
L’agorà che si sta costituendo dovrà elaborare – partendo dal particolare, dal locale, dalla specificità di ciascuno, in una parola, dall’arte dell’ascolto dell’altro e di sé stessi – piattaforme credibili e condivise. C’è chi, tanto per fare degli esempi, giudicherà prioritaria la questione del lavoro e del reddito, chi il problema della casa, chi la salvaguardia della previdenza sociale, chi l’ampliamento dei diritti civili, chi la difesa dei beni comuni, chi la tutela dell’ambiente, chi il diritto allo studio e al sapere, chi lo sviluppo delle potenzialità del web. Tante sono le possibili vie d’accesso: questa è democrazia. Partiamo da qui, ognuno con la propria storia da raccontare. “Il personale è politico”, si diceva infatti un po’ di anni fa (cioè il secolo scorso…). Non è un lavoro semplice, ne siamo consapevoli, ma va fatto, non c’è altra sponda su cui giocare. Giustamente c’è che si domanda: cosa può accomunare i lavoratori dello spettacolo del Teatro Valle occupato con i borgatari che in un teatro probabilmente non vi hanno mai messo piede? Eppure anche lì, come altrove, va individuata una via percorribile.
La ricomposizione di queste tessere ci restituirà la totalità della vita, la gestione di spazio e di tempo finalmente nostri, contro una visione del mondo ammorbante, incentrata su una crescita economica senza fine, avente come unico obiettivo il profitto da perseguire con ostinazione e a qualsiasi prezzo, sia che comporti tragedie come quella di Fukushima (la prima uscita del nuovo ministro dell’ambiente Clini, è stata a favore del nucleare e degli Ogm) o gli esiti dei deliri finanziari della Goldman Sachs (di cui Monti è stato stimato consulente).
Slavoj iek ha scritto che di questi tempi c’è chi preferisce pensare che stia per arrivare la fine del mondo piuttosto che ammettere che siamo alla fine del capitalismo (al contrario, aggiungiamo: semmai è con lo sviluppo del capitalismo che si può rischiare la fine del mondo). Con buona pace delle teorie marxiste della crisi e del crollo, è questa una prospettiva ragionevole su cui misurarci e da cui ripartire. Cosa c’è dopo?
P.s. Sulla citazione iniziale: soffrire senza sdegno è cosa stolta, recitano i versi. Un Leopardi indignado?