Continua ad essere presente in Italia, in forme e modi mascherati o palesi, una delle zavorre ideologiche e comportamentali più potenti, in grado di convogliare i malumori quotidiani insinuandosi nelle pieghe della contemporanea crisi del sistema. Parlo del razzismo attuale, per certi versi differente da passati razzismi ma che con questi tuttavia condivide pesanti continuità e logiche. Il presente storico è caratterizzato da una forte incertezza socio-politica, indotta o costruita dal crack finanziario e dalle pesanti manovre di aggiustamento che tentano di mantenere a galla la barca che affonda caricando sui comuni cittadini la responsabilità e l'onere di risollevarla. In questo orizzonte le continuità e logiche dei razzismi possono emergere, ed è necessario non abbassare la guardia di fronte ad eventi sconvolgenti che non possono essere fatti passare come semplici episodi poiché rappresentano gli inquietanti sintomi di un sistema di potere oppressivo.
Il razzismo attuale, come quelli passati, è una possibile estensione del potere; una metodologia del controllo sociale che utilizza i corpi degli “altri”, dei “diversi” o “stranieri”, per affermare logiche identitarie e securitarie. In primo luogo, le manifestazioni di intolleranza, discriminazione e violenza nei confronti di chi viene ritenuto diverso da un “noi” nazionale e culturale è funzionale alla riproduzione di una identità collettiva che, su altri fronti, appare disgregata e in perpetua crisi di coesione. Il diverso viene ritenuto – immaginato, sì, ma non solo – portatore di una differenza di natura inconciliabile con i caratteri del patto sociale del “noi”: le leggi, le “nostre” abitudini, la “nostra” cultura. Al diverso viene attribuita la responsabilità del disagio economico («ci rubano i posti di lavoro»; «approfittano dei nostri benefici sociali») canalizzando l'inquietudine sociale che caratterizza il quotidiano (le periferie con i campi rom; i quartieri multietnici; i barconi dei clandestini; il vicino di casa straniero). Il diverso è, in eccesso o in difetto, qualcosa che non va nel nostro paese. Per parafrasare Pierre Bourdieu, gli stranieri o sono troppi – invasori che attraverso ondate arrivano sulle nostre coste – o fanno troppo poco – non si integrano perché non vogliono conoscere la nostra cultura, lingua, eccetera.
Oggi come ieri il diverso è tale per natura, come dicevo, e tale differenza in quanto naturale si immobilizza nella sua astoricità. E se un tempo a questa diversità veniva dato il nome di razza per intendere una essenza biologica che accreditasse la differenza, ora compare con il nome di cultura in nome della quale si attribuisce agli stranieri la medesima, essenziale, distanza dal noi. «È la loro cultura...», perifrasi per distanziarsi elegantemente da persone che vivono e lavorano in un territorio che con molta fatica vogliamo cedere loro insistendo sul fatto che sia nostro.
Il carattere più forte e maggiormente rischioso del razzismo contemporaneo è la saldatura tra razzismo di Stato e razzismo quotidiano. Alle quotidiane manifestazioni di intolleranza nei confronti di chi è percepito come diverso corrisponde una razionalità discriminatoria all'interno dell'apparato legislativo italiano, nelle forme delle leggi sull'immigrazione sempre più restrittive ma anche nella complessità di norme applicative che impediscono una autonomia giuridica e sociale di chi arriva in Italia per viverci. Parlo, ad esempio, delle norme sulla richiesta di asilo politico; sul diritto di cittadinanza; sull'accesso ai servizi. Lo Stato italiano e i suoi cittadini, inquietantemente, negli ultimi anni sembrano davvero unirsi in un patto sociale discriminatorio nei confronti dell'altro. Ed i media supportano e organizzano questo patto attraverso codici comunicativi fondati su una biologizzazione del rapporto con l'altro.
La saldatura tra razzismo di Stato e razzismo quotidiano non è senza interpretazione e non è senza una logica. Il dominio, in ultima istanza, è il fine di tale connubio. Claude Lévi-Strauss, qualche decina di anni fa, l'aveva già ben descritto:
«Ma siamo proprio sicuri che la forma razziale che l'intolleranza ha assunta risulti principalmente dalle idee false che determinate popolazioni albergano sulla dipendenza dell'evoluzione culturale dall'evoluzione organica? O forse queste idee forniscono unicamente una copertura ideologica a opposizioni più reali, fondate sulla volontà di asservimento e sui rapporti di forza? Così è stato certamente in passato; ma, anche supponendo che tali rapporti di forza si attenuino, è ben probabile che le differenze razziali continueranno a servire da pretesto alla crescente difficoltà di vivere insieme [...]» (C. Lévi-Strauss, Razza e cultura, Einaudi, 1968).
Torino, Firenze, Italia
Nel mese di dicembre 2011 il razzismo quotidiano esplode sulla scena italiana in due momenti. Il primo riguarda i soliti noti – sia detto con affranto – del razzismo europeo, i Rom. Nella serata del 10 dicembre dello scorso anno è stato dato alle fiamme un campo Rom situato nel quartiere popolare le Vallette di Torino. Il rogo – pogrom com'è stato poi definito da alcuni commentatori – non è partito dal “solito” gruppetto di giovani intolleranti bensì dalla gente del quartiere che, infuriata, si è scagliata contro le baracche della popolazione lì residente, al termine di una fiaccolata di protesta. Motivo del furioso atto è stata l'accusa, da parte di una giovane italiana del quartiere, di essere stata stuprata da un rom. Un'accusa poi dimostratasi priva di fondamento. La ragazza infatti ha utilizzato come espediente la grave incriminazione per non confessare ai propri genitori di aver perso la verginità con il suo ragazzo, un italiano. A partire dalla falsa accusa si è scatenata la rabbia della popolazione del quartiere, organizzata in una sorta di epurazione di massa.
Tre sono gli elementi inquietante del fatto. In primo luogo: il panico di comunicare ai propri parenti, probabilmente conservatori e bigotti, di aver fatto l'amore non si canalizza in una energia liberatoria ed emancipatrice che avrebbe autorizzato la ragazza a pretendere il suo diritto di viversi una vita sessuale. Questo timore, al contrario, ha trovato il suo sbocco all'esterno del sé – nell'altro, appunto – in questo caso i Rom, mai come in questo caso presi come capro espiatorio delle pene del “noi”. In secondo luogo la reazione della collettività: la caccia al diverso, lo sfogare la frustrazione delle nostre debolezze su chi percepiamo come più inferiore di noi, col risultato di affermarci come identità sui nostri valori senza comprendere che questi stessi valori sono in crisi. Si può certamente dire che la rabbia della popolazione è dovuta anche al fatto che da molto tempo i Rom del campo compivano furti e altri atti illegali. Eppure il pogrom è scoppiato per una falsa accusa e non per un furtarello. Infine il terzo elemento, corollario dei punti precedenti e combustibile dei fatti accaduti. Il quotidiano “La Stampa” il giorno dell'avvenimento titola: Mette in fuga i due Rom che violentano la sorella, riportando pedissequamente e senza il dovere giornalistico di analisi delle fonti la falsa accusa, fomentando la reazione dell'opinione pubblica. Il giorno successivo, appena venuta fuori la verità sul finto stupro, la redazione del quotidiano si sente in dovere di scusarsi ammettendo le sue colpe:
Il razzismo di cui più dobbiamo vergognarci è quello inconsapevole, irrazionale, che scatta in automatico anche quando la ragione, la cultura, le convinzioni più profonde dovrebbero aiutarci a tenerlo lontano.
Ieri, nel titolo dell’articolo che raccontava lo «stupro» delle Vallette abbiamo scritto: «Mette in fuga i due rom che violentano sua sorella». Un titolo che non lasciava spazio ad altre possibilità, né sui fatti né soprattutto sulla provenienza etnica degli «stupratori». Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi». Ma sui «rom» siamo scivolati in un titolo razzista. Senza volerlo, certo, ma pur sempre razzista. Un titolo di cui oggi, a verità emersa, vogliamo chiedere scusa. Ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi. (La Stampa, 11 dicembre 2011)
Un'ammissione di colpa che sa di retorica, in quanto la dice lunga sulla preparazione comunicativa e politica dei giornalisti della Stampa. Ma è anche una ammissione di colpa che mostra, come accennavo precedentemente, l'esistenza di una saldatura tra razzismo quotidiano e razzismo “alto”, sia esso di Stato o di mezzi di comunicazione pubblica.
La seconda esplosione del razzismo avviene sempre nel mese di dicembre 2011, alcuni giorni dopo, questa volta a Firenze. In due luoghi della città, entrambi frequentati da commercianti di origine straniera, Gianluca Casseri, militante neofascista, esplode colpi di pistola nei confronti di alcuni senegalesi, uccidendone due e ferendone altri. A seguito dell'omicidio, Casseri si uccide all'interno di un parcheggio poco distante dal luogo dei fatti.
L'evento ha sconvolto moltissimo sia la cittadinanza fiorentina che l'opinione pubblica italiana in generale. La gravità dell'accaduto ha spinto molti a paragonare il massacro di Firenze alla carneficina compiuta da Andres Behring Breivik ad Oslo, poco tempo prima. Ed il commento non è peregrino, in quanto tra le due situazioni molti elementi ci sono in comune: un gesto apparentemente improvviso, compiuto da un uomo solo, a stampo nazi-fascista. Casseri, come è stato poi documentato da molta stampa alternativa (in particolare i forum on-line di Wu Ming), era non solo un frequentatore di CasaPound ma anche una sorta di intellettuale, un teorico, lettore e soprattutto scrittore di interpretazioni letterarie e filosofiche di opere di pensatori come Julius Evola o di argomenti tipici del pensiero di destra come i Protocolli dei Savi di Sion. Casseri, in sostanza, ha compiuto il massacro come esito di un percorso di riflessione e rapporti di conoscenza con il mondo dell'estrema destra fascista e xenofoba.
Quel gesto non era improvvisato, era pre-visto da una preparazione teorica ben precisa ed inserito nell'ambiente culturale della destra italiana. Ecco giustificato allora l'attacco a CasaPound, contesto di produzione e riproduzione del razzismo contemporaneo. Il giorno successivo la tragedia di Firenze, un comunicato stampa sul sito di CasaPound Italia recita:
Gianluca Casseri era un simpatizzante di CasaPound Italia, come altre centinaia di persone in Toscana, e altre migliaia in tutta Italia, alle quali, come del resto avviene in tutti i movimenti e le associazioni e non solo in Cpi, non siamo soliti chiedere la patente di sanità mentale. Casseri non era un militante della nostra associazione, frequentava talvolta la sede di Pistoia e non abbiamo motivo per tenerlo nascosto. Oggi si è consumata una immane tragedia della follia, e quattro persone sono morte senza motivo, ma se è avvenuta vogliamo ricordare che è anche perché questo Stato non è in grado di fornire alcuna protezione e assistenza ai suoi figli più deboli’ […] Nel dna di CasaPound Italia la xenofobia non è contemplata. (dal sito di CasaPound, 13 dicembre 2011).
Una presa di distanza che crolla di fronte all'evidenza argomentativa razzista di uno dei punti del Programma di CasaPound, dal significativo titolo “Una Nazione”, che al punto 3 dichiara la necessità di superare «i gironi infernali della società multirazzista» proponendo di rimuovere le «cause dell'immigrazione» mediante un «blocco dei flussi». Certamente nel programma non si parla espressamente di razzismo: ma c'è la legge, e lo spirito della legge... e nel caso di CasaPound è evidente che l'immigrazione viene interpretato come un problema che ha una causa sulla quale si deve lavorare al fine di epurarla per cancellare il “girone infernale” di un multirazzismo rischioso per la nazione Italia. E infatti, se l'immigrazione è un problema, lo è in quanto è necessario sviluppare una difesa della «sovranità nazionale», punto 14 del Programma. Forse nel DNA di CasaPound non è contemplata la xenofobia...tuttavia rimangono dei dubbi sul fatto che «Una Nazione» sia conciliabile con l'idea di comunità indipendente dalle appartenenze culturali e geografiche, fondata sulla presa d'atto che l'immigrazione è un fatto e non un problema da risolvere. Ed i dubbi si sciolgono e diventano certezze quando un Casseri, armato di una pistola da guerra, colpisce direttamente al cuore questa idea di comunità che potrebbe nascere tra le bancarelle di ambulanti di diverse provenienze del mercato di una qualsiasi città italiana.
Cose da pazzi?
La follia, infine. Torino e Firenze sono state teatro di avvenimenti che hanno sconvolto l'opinione pubblica. Politici, associazioni, opinionisti, cittadini comuni hanno ad una voce espresso il cordoglio per i senegalesi uccisi e per il rogo dei rom. Con parole diverse, toni e consapevolezze variegate, l'Italia s'è desta di fronte al virus fascista che ha in corpo. Eppure in questo coro apparentemente unanime sono emersi i distinguo, come quello del sindaco dei Firenze Matteo Renzi che pur esprimendo distanza dai valori di CasaPound afferma dell'impossibilità di chiudere lo spazio per salvaguardare il suo consenso politico cittadino fatto di un colpo al cerchio e uno alla botte. Ricordo che Renzi ha inventato il reato comunale contro i lavavetri ai semafori o gli ambulanti, nella visione di una città-museo dove il disagio sociale non può essere messo sotto gli occhi impazienti dei facoltosi turisti che visitano la città. Nell'Italia che si desta c'è sempre qualcuno che si addormenta...
Oltre ai fastidiosi distinguo, si può analizzare come ancora una volta questi eventi siano interpretati dalla maggioranza degli italiani come degli «episodi isolati» frutto della instabilità mentale di uno o più individui che hanno agito indipendentemente da presupposti culturali e politici precisi. Il razzismo quotidiano – l'intolleranza nei confronti del diverso, per cultura, identità di genere, provenienza – si rafforza attraverso le leggi contro l'immigrazione, i provvedimenti securitari e le descrizioni mediatiche distorte. È all'interno delle coordinate del razzismo di stato che va inquadrato il razzismo quotidiano. E, viceversa, quest'ultimo trova una legittimazione nell'indifferenza istituzionale che anziché attuare provvedimenti concreti per l'inclusione sociale dei migranti ottempera esclusivamente all'azione securitaria di controllo, punizione e, al massimo, assimilazione del diverso. Una forma di razzismo, appunto, non basato sulla razza ma sulla convinzione che chi è differente per cultura è in difetto di per sé, un difetto che deve colmare con una educazione alla cultura dominante.
Allora se è necessario inquadrare gli eventi di cui sopra in una logica è necessario abbandonare la convinzione che essi siano frutto di follie individuali, cose da pazzi che si analizzano attraverso una perizia psichiatrica. La perizia deve essere politica: quei fenomeni si inquadrano in un contesto storico-culturale dove l'incertezza diventa strumento di dominio che agisce attraverso lo straniero.