Bisognerebbe esserci stati, a Zuccotti Park, epicentro e quartier generale della fazione newyorkese di Occupy – alias indignados versione stelle e strisce – movimento nato appunto dalla sfida strategica di occupare la sede della borsa di Wall Street. Bisognerebbe esserci stati come bisognerebbe essere in ogni luogo e in ogni contesto di cui ci si vuole fare un’idea più chiara di quella che filtrano i vari mezzi di informazione più o meno indipendenti. E invece chi qui ed ora ne prova a scrivere si trova in Italia, dove lo scorso 15 ottobre a Roma è stata data un’ennesima prova di ingenuità con l’annuncio di un’“insurrezione” abortita spontaneamente ancor prima di poter essere tentata proprio perché annunciata.
Già, forse bisognerebbe spiegarlo a quei geni da post di Indymedia che le vere insurrezioni o rivoluzioni non preannunciano. Forse bisognerebbe dirglielo che la loro strategia è stata per la polizia delle più prevedibili, che in ogni tempo gli furono gradite, e conoscendo un po’ il sistema Italia non mi stupirei neanche se tanta astuzia avanguardista fosse stata opera di qualche simpaticone al soldo dei servizi segreti o delle forze dell’ordine.
Ma scurdammuce ’u passat come dice ’u Napule paesa’. E del resto si potrebbe obbiettare che anche Occupy Wall Street contiene già nella dicitura la propria stessa dichiarazione di intenti, e non è detto che se questa non ci fosse stata così apertamente il risultato non gli sarebbe stato più favorevole.
Ciò che c’è di sostanzialmente differente però fra i due fenomeni sono lo spessore e l’ampiezza di respiro maggiori e più duraturi che gli indignados d’America hanno saputo dare alle loro lotte.
Certo, quello dell'assalto al palazzo del potere è un leitmotiv che ha attraversato trasversalmente svariati dei fenomeni spontanei o dal basso di insorgenza che hanno animato gli ultimi anni di contestazioni, al punto da diventare quasi l'unica vera unità di misura della riuscita di una data mobilitazione. Rivelando un'ambiguità di fondo di tutto un certo “non-potere” di facciata che sembra andare per la maggiore sulle ceneri della morte delle ideologie: se il valore di una tua contestazione si misura principalmente da quanto riesci ad avvicinarti al vertice del potere contro cui protesti, dove mezzi e fini tendono a coincidere significa che non riesci ad immaginare un processo di lotta che porti ad un contesto alternativo dove quel vertice di potere non esiste più; vuol dire che in qualche modo tu quel potere lì lo vuoi.
Prospettive di cambiamento più propositive
Ma se questa ambiguità può essersi annidata nel subconscio di qualche ragazzino londinese o di uno studente di qualche collettivo italiano, non mi pare che il problema riguardi Occupy, dove la lotta ha saputo andare oltre il mero simbolo del potere e porsi prospettive di cambiamento più propositive, pur con tutti i problemi che questo comporta. Primo fra tutti quello derivante dalla composizione sociale del suo zoccolo duro, quasi interamente formato da elementi della classe media statunitense mobilitatisi in difesa dei propri redditi e dei propri interessi contro l’attacco portato dalla finanza internazionale e dai politicanti alle sue dipendenze.
Lo si vede già da quello che è stato uno dei cavalli di battaglia delle rivendicazioni espresse dal movimento, ovvero quel “siamo il 99%” tanto sbandierato in faccia a media e finanzieri fin dagli albori della mobilitazione. Una percentuale d’assalto che rivela un’ingenuità non minore di quella delle insurrezioni proclamate via Facebook o Indymedia.
Foucault e i post-strutturalisti avrebbero molto da dire a questa concezione, ricordando che il mondo non si divide in maniera così manichea fra oppressi ed oppressori, e che lottare per tutelare i redditi della classe media americana significa già difendere uno standard di consumi imperialista perché basato su sfruttamento di risorse e lavoro. A dover essere messo in discussione è invece il concetto stesso di crescita economica e di benessere, altrimenti Occupy si trasformerà nello stesso boomerang storico che già sono stati il New Deal ed il Welfare State (paradigmi guarda caso evocati dalle bocche di diversi esponenti del movimento): un modo di potare la pianta marcia senza però estirparla alla radice, permettendole così di ricrescere nuovamente e più rafforzata.
Certo, la volontà espansiva delle lotte negli indignados statunitensi, come già in quelli europei, è comunque una buona risposta a certe logiche minoritariste e avanguardiste che sembrano tratteggiare più o meno consapevolmente gruppi come quelli che hanno proclamato “l’insurrezione” del 15 ottobre scorso a Roma, o sono caduti nel suo specchietto per le allodole. Forte di un dato oggettivo di partenza per il quale effettivamente è la grande maggioranza della popolazione ad essere penalizzata da una crisi prodotta principalmente da un ristretta élite. Ma siccome la realtà è fatta sia dai dati oggettivi che dalle soggettività che li vivono, ed un idealismo soggettivista come quello che esprime Occupy è spesso figliol prodigo di reificazione, forse quel “siamo il 99%” dovrebbe sottintendere un più autentico “vogliamo arrivare ad essere il 99%”. Posto che quella grande maggioranza può essere tale solo per ciò che riguarda la pars destruens, perché per quanto riguarda la pars construens ogni maggioritarismo rischia di essere spesso sinonimo di uniformazione.
Sì perché gli aspetti positivi in Occupy Wall Street e in tutte le mobilitazioni che ne sono diversamente scaturite non mancano. A cominciare dalla strategia di lotta che si impernia su tattiche nonviolente di lunga durata, le quali oltre a favorire una partecipazione ed un protagonismo più diffusi riescono ad andare ben al di là delle singole battaglie che possono anche risultare perse o solo parzialmente riuscite, senza per questo scoraggiarne i militanti, anzi. Questo penso dipenda appunto dal fatto che lo stesso obbiettivo dichiarato del movimento, ovvero l’occupazione della borsa di New York, non viene assunto come paradigma assoluto e se pur considerato fondamentale è inserito all’interno di un percorso progressivo incentrato sulla dimensione propositiva della lotta. La grande manifestazione diventa punto di arrivo di un processo costruito con un impegno a lungo termine e l’obbiettivo finale non è preteso in tempi immediati, diversamente da quanto può fare uno scontro di tipo frontale come quello che si è prodotto o è stato indotto a prodursi in altre manifestazioni sia europee che americane.
Il nodo cruciale
Certo, non è detto che alla fine gli stessi indignados non ci rimangano schiacciati in un’ortodossia di Nonviolenza. Gli arresti negli States si sono susseguiti a centinaia secondo le stime, al cospetto di manifestanti che restavano inermi di fronte alla violenza delle manette. E l’effetto di lungo periodo di questa repressione è ancora incerto, anche se fino ad ora sembra che abbia avuto più che altro quello di aumentare la popolarità della protesta.
Vero anche che a New York non c’era l’aviazione che bombardava le città in mano ai ribelli com’è successo in Libia, e i giovani a stelle e strisce non hanno forse la stessa disperazione, frustrazione e senso di impotenza di quelli greci.
Ci sono poi alcuni altri aspetti controversi. Uno dei personaggi usciti alla ribalta di un movimento che – altro elemento che sembra positivo – dichiaratamente non vuole leader, è stato però un ex poliziotto in pensione finito sotto la luce dei riflettori per essersi fatto arrestare mentre manifestava in solidarietà, esortando i suoi ex colleghi a non rendersi schiavi mercenari di speculatori e lobby economiche. Da un lato viene da ricordare il fatto che la storia dei fenomeni rivoluzionari più riusciti è anche storia di forze armate di regime che disertano o disobbediscono (altra prospettiva più difficile se si produce uno scontro di tipo frontale con le forze dell’ordine). Dall’altro è impossibile non farsi un’endovena leggendo con quale compendio di buonismo e retorica populista da buon cittadino democratico l’ex poliziotto in questione viene presentato come difensore dei veri valori del Sogno Americano e della vera missione delle forze armate a stelle e strisce.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda il supporto, anche logistico, alla fazione newyorkese da parte di una chiesa episcopale all’angolo di Wall Street, sostegno concretamente prezioso ma che pone problemi riguardo alla radicalizzazione che un’organizzazione religiosa è in grado di accettare da parte di un movimento dissidente che sostiene.
E sembra essere proprio questo in definitiva – la sua capacità o meno di radicalizzarsi – il nodo cruciale intorno al quale ruotano le sorti di un fenomeno di insorgenza dal quale prendere spunto per provare a mettere in moto dei processi di lotta che non si esauriscano andandosi a schiantare contro il muro della prima, ahimè inevitabile, repressione. E Occupy forse qualche passo importante, per quanto embrionale, in questa direzione lo ha fatto. Organizzando occupazioni di case espropriate dalle banche nei quartieri est di New York e promuovendo uno sciopero generale ad Oakland ed altri minori, e solo in parte riusciti, in altri porti del Pacifico.
Le maggiori risorse materiali ed energie mentali della classe media dissidente ma privilegiata, devono continuare ad indirizzarsi ed avvicinarsi alle stratificazioni sociali più basse per arrivare a sviluppare veramente una forza in grado di minare il sistema tutto alle sue fondamenta, e non limitarsi a togliergli il cappello per lasciarne intatto il corpo sociale.
Le coordinate cartesiane di Occupy Wall Street aprono molte prospettive sull’asse orizzontale, ma hanno ancora della strada da fare su quella verticale.
Eduardo Olmi
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