antispecismo
I meccanismi del dominio
di Filippo Trasatti
e Massimo Filippi
illustrazioni di Luciano Graziosi
Al “Centro studi libertari”,
a Milano, il 29 ottobre 2011, si è tenuto un seminario
sull’antispecismo.
Pubblichiamo qui la relazione introduttiva.
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La nostra intenzione
in questo seminario è quella di presentare una tesi
“forte” e cercare, per quanto possibile, di articolarla,
mostrando che la prospettiva di ricerca che qui si delinea
è aperta ad un’ampia serie di sviluppi molto
promettenti, ma dai contorni ancora non completamente definiti.
Questa tesi ruota attorno alla nozione di antispecismo,
nozione che né possiamo dare per scontata né
pensare di poterla fissare nella gabbia di una definizione
troppo rigida perché, come si vedrà, non solo
esistono diversi modi di intendere l’antispecismo, modi
distinguibili diacronicamente e sincronicamente, ma anche
perché ciò che solitamente passa inosservato
sotto questo termine è una realtà complessa
e in continuo divenire.
Più agevole è, allora, partire provando a dire
che cosa l’antispecismo non è. L’antispecismo
non è, e non andrebbe confuso con, l’animalismo
in senso lato, ossia con un generico atteggiamento di interesse,
rispetto o protezione degli altri animali e, perfino, con
il desiderio e la lotta per la loro liberazione. Esiste, infatti,
un animalismo liberazionista che non è necessariamente
antispecista, ma per il modo in cui noi lo intendiamo, non
ci può essere un antispecismo che non sia liberazionista.
Non solo per la ragione evidente che la condizione degli altri
animali sulla Terra è tanto terrificante da togliere
il fiato, ma anche perché questa condizione è
il prodotto di forze e dispositivi di dominio, di imprigionamento
e di sfruttamento della vita nelle sue varie forme che, una
volta riconosciuti e denunciati per quel che sono, non possono
che essere contrastati.
La tesi di fondo che sosteniamo può allora essere formulata
nel modo seguente: l’antispecismo e la condizione
degli animali nella nostra società hanno molto da insegnarci
sul dominio intraspecifico e, se usati come una lente
di ingrandimento, ci permettono di vedere in opera e con maggior
chiarezza i meccanismi del dominio che, per loro natura, si
realizzano su piani molteplici. In altri termini, nella lunga
storia delle relazioni con gli altri animali e nei modi che
abbiamo elaborato per escluderli come altro da noi, si può
ritrovare un modello, un paradigma, sulla base del quale possiamo
poi giustificare anche la speciazione che fa degli
altri umani dei sub-umani, ossia degli animali. E, ancora
più importante, la storia dei nostri modi di costruzione
dell’animale dà forma all’epistème,
per dirla in termini foucaultiani, di ciò che è
visibile, dicibile e pensabile come umano.
Specismo/antispecismo
Facciamo un passo indietro e proviamo a vedere brevemente
la complessità di ciò che chiamiamo antispecismo,
in relazione a ciò a cui si contrappone, lo specismo.
Peter Singer in Animal Liberation (1975) ha definito
lo specismo come «pregiudizio o atteggiamento di prevenzione
a favore degli interessi dei membri della propria specie e
a sfavore di quelli dei membri di altre specie» (1)
e ha proposto un fanalogia con altre discriminazioni intra-umane
quali il razzismo ed il sessismo. Secondo questa prospettiva,
lo specismo rientra nella categoria più generale
dei pregiudizi, da cui non si discosta per struttura
e funzionamento, costituendo una sorta di condizione cognitiva
astorica da cui sorgerebbero le pratiche di sfruttamento animale.
Sebbene questo aspetto della questione non vada tralasciato,
esso non dovrebbe neppure essere considerato esclusivo e prioritario,
se si intende analizzare più a fondo il fenomeno “oppressione”.
Per restare in ambito interspecifico, gli etnologi, ad esempio,
hanno messo in luce un meccanismo di protezione e riconoscimento,
che si può denominare ingroup/outgroup,
che fa sì che l’appartenenza ad un gruppo venga
vissuta ed elaborata come condizione di superiorità
rispetto ad altri al fine di rafforzare i legami interni.
Analogamente, da un punto di vista etologico, si possono osservare
a livello intraspecifico meccanismi di difesa che favoriscono
i membri della propria specie rispetto a quelli di altre.
Questo, però, non porta come conseguenza inevitabile
all’organizzazione del dominio planetario sul vivente,
così come l’aggressività non porta necessariamente
alla guerra organizzata. Certo, non mancherà mai chi
sosterrà la “scientificità” di queste
affermazioni; esse infatti sono molto utili per giustificare
uno stato di lotta permanente e “naturale”, intraspecifico
e interspecifico, eterno e ineliminabile che consente di mettere
l’animo in pace (e le mani in tasca) circa la presunta
inevitabilità della struttura sociale gerarchica e
delle pratiche di dominio che la costituiscono e che l’attraversano.
Tuttavia, le affermazioni precedenti non tengono in minimo
conto tre aspetti rilevanti che le destituiscono di credibilità:
- in “natura”, il modello della lotta e della
sopraffazione non è esclusivo, tanto che sono stati
descritti modelli alternativi: nell’evoluzionismo, ad
esempio, alla prospettiva di Darwin si è affiancata
quella di Kropotkin e il mutuo appoggio è complementare
e non antitetico alla lotta per la sopravvivenza;
- se i pregiudizi identitari di gruppo hanno una ragion d’essere
biologica, nondimeno hanno una storia. Non solo, ma quando
si pretende di naturalizzare pregiudizi culturali, si fa torto
sia alla cultura sia alla storia;
- la barriera ontologica tra la nostra e le altre specie,
il cosiddetto abisso di specie, è un’invenzione
culturale utile per il mantenimento dello status quo,
qualcosa che non può più essere sostenuto
da alcun punto di vista.
All’idea di specismo come pregiudizio cognitivo, specie-specifico,
che enfatizza le differenze e misconosce le somiglianze tra
umani e animali, costituendo in tal modo una barriera apparentemente
impermeabile tra la nostra e le altre specie, che, a sua volta,
ha comportato l’instaurarsi da un lato di una morale specista
e dall’altro di pratiche materiali di sfruttamento degli
altri animali, più recentemente se ne è affiancata
un’altra che sottolinea con forza la differenza che corre
tra ideologia specista e pratiche materiali di sfruttamento
animale. Si può in questo caso usare come riferimento
David Nibert che, in Animal Rights / Human Rights (2002),
definisce lo specismo come «’ideologia creata e
diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento
degli altri animali» ( 2). Secondo
questa prospettiva, lo specismo non è più un pregiudizio,
ma un’ ideologia giustificazionista chiamata a
render conto di pratiche di oppressione dell’animalità
che, per definizione, sono tutt’altro che immodificabili.
Di conseguenza, il compito dell’antispecismo non sarà
tanto quello di porsi a livello del pensiero astratto e argomentativo
al fine di mostrare l’incoerenza del pregiudizio specista,
quanto piuttosto quello di individuarne le origini e le vicende
storiche per combatterlo sul piano della prassi politica. A
una discussione meramente astratta, a volte “scolastica”,
incentrata su questioni di “etica applicata”, si
sostituisce l’analisi storica, agli argomenti antropocentrici
spesso usati nel dibattito animalista ed ecologista, al proselitismo
individuale e alle campagne contro singole strutture di sfruttamento,
una battaglia politica emancipazionista volta a modificare non
solo e non tanto l’ideologia specista, ma soprattutto
la struttura sociale che rende possibili e legittima le attuali
condizioni di vita degli animali. Ecco perché l’antispecismo
che qui cerchiamo di proporre è liberazionista e prevede
una liberazione che necessariamente deve comprendere anche gli
umani, non solo per il fatto ovvio che è impossibile
escludere gli umani dall'ambito animale, ma perché esiste
un nesso profondo tra liberazione animale e liberazione umana.
Oppressione condivisa
Al proposito, si consideri l’approccio di Elisabeth
de Fontenay che traspare fin dalle prime righe della sua monumentale
opera Le silence des bêtes: «Forse viviamo
gli ultimi istanti in cui si possa, senza troppa aberrazione,
tentare una meditazione sull’animale, sull’animale
come l’Occidente l’ha sentito, immaginato, desiderato,
concepito in una continuità che è si è
già interrotta senza dubbio una prima volta con l’introduzione
del cavallo-vapore e una seconda con i mattatoi di Chicago,
ma che si è soltanto appena compiuta e infranta sulle
rive della nostra vita attuale. Dato che ormai abbiamo il
controllo e manipoliamo l’intera “scala degli
esseri” non è affatto certo che quelli che continueranno
a chiamarsi uomini conserveranno i rapporti con gli altri
animali che ci sono stati in passato, dalle ecatombe di Solutré
fino alla nascita, se così si può chiamarla,
delle pecore clonate di nome Dolly e Polly, e che essi si
riconosceranno nelle definizioni della differenza antropologica
a cui noi siamo legati» (3). In
questo mirabile passaggio, Fontenay riesce a evidenziare alcune
delle questioni essenziali che sono in gioco se si vuol ricostruire
il nesso tra dominazione interspecifica e dominazione intraspecifica,
nesso che ci ha portato al punto in cui siamo – rivoluzione
industriale, taylorismo, controllo pressoché totale
sulla vita e sui suoi processi – e che descrive molto
bene l’accelerazione che il dominio dell’uomo
sul vivente e sul non vivente ha acquisito.
Da una prospettiva diversa, John Berger sostiene una tesi
simile: «[La] riduzione dell’animale, la cui storia
è tanto teorica che economica, fa parte dello stesso
processo che ha ridotto gli uomini a isolate unità
di produzione e consumo. In effetti, durante questo periodo
l’atteggiamento nei confronti degli animali prefigurava
spesso quello nei confronti dell’uomo. La visione meccanica
della capacità lavorativa animale fu in seguito applicata
a quella degli uomini; P.W. Taylor che sviluppò il
“taylorismo” studiando il rapporto tempo-moto
e la gestione “scientifica” del lavoro industriale,
sosteneva che il lavoro dovesse essere “così
stupido” e così flemmatico da rendere [il lavoratore]
“più simile per struttura mentale al bue che
a qualsiasi altra specie”. Pressoché tutte le
moderne tecniche di condizionamento sociale si basano su esperimenti
condotti sugli animali» (4). Berger
non era certo un antispecista, ma è ricorso al medesimo
modello comparativo, ha fatto propria una prospettiva analoga
a quella di Fontenay e ha cercato di cogliere nella storia
dei nostri rapporti con gli altri animali una chiave di lettura
di quanto avviene nei rapporti interumani.
Una semplice considerazione storica può inoltre mostrare
al di là di ogni ragionevole dubbio che l’addomesticamento
animale è stato quantomeno uno dei fattori che hanno
fornito il surplus di energia e di ricchezze che
hanno permesso lo sviluppo delle società gerarchiche
e classiste, basate sulla divisione del lavoro e su élite
improduttive. Pensiamo, ad esempio, agli animali con cui viviamo.
Già l’espressione “animale domestico”
ci mette di fronte a una delle radici del problema, la domesticazione
appunto, ossia quel lungo processo storico attraverso cui
abbiamo trasformato animali selvatici e liberi, prima in animali
sempre più dipendenti da noi, poi in schiavi al nostro
servizio, in macchine per produrre proteine, trasportare acqua,
lavorare la terra e riprodursi a nostro uso e consumo. Questo
processo coincide, almeno in parte, con quello della modificazione
dell’umano in bianco-maschio-eterosessuale-carnivoro
e con quello della recinzione delle terre e dell’affermazione
del capitalismo che ha espropriato gli “altri”
umani e gli altri animali dei “loro” territori,
fino a portare molte specie all’estinzione. Quest’ultimo
è un lavoro di sterminio ormai quasi ultimato e che,
quotidianamente, continua a procedere sotto i nostri occhi
con dovizia di rilevazioni, dati e mappe.
Come si può facilmente immaginare, il lavoro di rilettura
storica degli intrecci tra dominio interspecifico e dominio
intraspecifico è immenso, ancora in gran parte da sviluppare,
è un cantiere aperto che richiede analisi storiche
di lungo, medio e breve periodo, studio di casi, di punti
di rottura e di discontinuità e un approccio fin dal
principio interdisciplinare e, soprattutto, non neutro, ossia
orientato alla liberazione.
Singolari collettivi
Anche adottando un approccio sincronico si possono vedere
all’opera gli stessi meccanismi di proiezione a livello
intraspecifico di ciò che avviene a livello interspecifico.
Soffermiamoci, ad esempio, sul linguaggio come ha fatto Carol
Adams (5), linguaggio analizzato come
un repertorio di forme e meccanismi di cattura e assoggettamento
cognitivo che permettono di pensare e giustificare il dominio
e lo sfruttamento. Da questo angolo visuale, è facile
mostrare come ogni volta in cui l’altro (uomo o donna
o gruppo di umani) deve essere dominato e sfruttato venga
messo in atto un processo di speciazione, che lo
rende simile alle bestie che disprezziamo. Anche in questo
caso l’elenco dei casi in questione è sterminato
e va dall’antichità ai nostri giorni. L’esempio
più noto è forse quello degli Untermenschen
ebrei, un altro, più recente, è lo sterminio
in Ruanda degli “scarafaggi” Tutsi ad opera degli
Hutu e un altro ancora è quello dell’impresa
coloniale che ha “civilizzato” gli africani che
vi resistevano sterminandoli come bestie.
Senza andare troppo lontano, sappiamo bene che i migranti
si sentono trattati “come animali”, perché
così sono trattati e così sono considerati,
e questo dovrebbe farci cogliere cosa significhi vivere da
animali in un mondo umano dominato dall’ideologia antropocentrica.
È evidente che quelli ricordati non sono meri giochi
di parole, che qui non c’è niente con cui giocare,
purtroppo. Le metafore, letteralmente, uccidono, permettendoci
di giustificare ideologicamente lo sterminio, la dominazione
e lo sfruttamento di animali umani e non umani. Se è
vero che il linguaggio è un aspetto fondamentale nel
dispositivo di speciazione oppressiva, dobbiamo allora imparare
a rovesciare il senso comune che utilizza il linguaggio per
celare la violenza e i rapporti di dominio che esso stesso
mette in atto.
Un esempio evidente di quanto detto è offerto dal termine
“carne”, uno di quei termini che Adams definisce
«termini collettivi». Con grande lucidità,
ella afferma: «Il modo più efficiente per assicurarsi
che gli umani non si prendano cura delle vite degli altri
animali è quello di trasformare i soggetti non umani
in oggetti non umani. È ciò che ho definito
come la struttura del referente assente. Dietro a ogni boccone
di carne c’è un’assenza: la morte dell’animale
non umano del quale la carne prende il posto. Il referente
assente è ciò che separa il carnivoro umano
dall’altro animale e, questo, dal prodotto finale. Noi
non consideriamo il mangiar carne come un contatto con un
altro animale, perché l’abbiamo rietichettato
come contatto col cibo. Chi soffre? Nessuno»
(6). Nella nostra cultura, “carne”,
come ratto, scarafaggio e quant’altro, opera come un
termine collettivo che definisce intere specie di individui
pronti per essere macellati.
Questa “collettivizzazione forzata” è riconosciuta
anche da Derrida che, ne L’animale che dunque sono,
sostiene che il limite principale della tradizione metafisica
è quello di aver ridotto le differenze tra le forme
della vita animale a “L’Animale”: dall’altro
lato dell’umano non c’è un gruppo di esseri
che condividono una comune animalità, ma piuttosto
una serie eterogenea di esseri e di relazioni, «una
molteplicità eterogenea di viventi, più precisamente
(perché dire “viventi” è dire troppo
o troppo poco) una molteplicità di organizzazioni e
di rapporti tra il vivente e la morte, rapporti di organizzazione
e di non-organizzazione di rapporti tra regni che è
sempre più difficile scindere nelle figure dell’organico
e dell’inorganico, della vita e/o della morte. Questi
rapporti, che sono nello stesso tempo intimi e abissali, non
sono mai totalmente oggettivabili» (7).
Conclusioni
Quanto detto ci indica una direzione diversa da quella prospettata
dall’animalismo mainstream, che potremmo definire
“inclusivo”, nel senso che prevede un’estensione
del cerchio della considerazione morale attraverso meccanismi
di assimilazione degli altri animali alla sfera dell’umano.
Al cerchio della considerazione morale che si espande automaticamente
e progressivamente verso l’inclusione sempre più
ampia di chi all’umano può essere ricondotto
si sostituiscono molteplici linee di frattura in continuo
rimodellamento sotto la pressione di campi di forza storici,
dove il problema non è più il dove
si intenda tracciare la linea della considerazione morale,
ma il fatto stesso che si pensi che sia necessario
tracciarla. Dal presunto inclusivismo progressivo (e progressista)
si passa ad una lotta quotidiana contro le forze reazionarie
sempre pronte a far recedere dalle posizioni acquisite e all’idea
che non si possa escludere in anticipo la potenzialità
di qualsiasi “ente”, simile o radicalmente dissimile
a noi, di interrompere la nostra persistenza nell’essere,
senza che questo riduca l’urgenza politica di un cambiamento
radicale dell’attuale condizione animale cui ci mettono
di fronte le dimensioni e l’efferatezza del loro quotidiano
olocausto. Alla richiesta dell’abolizione di
certe pratiche di sfruttamento si affianca così il
desiderio di liberazione delle potenzialità
dirompenti e misconosciute di un pensiero e di una prassi
che si dispongano all’accoglienza di una “comunità
a venire” nella quale la ricchezza degli individui,
delle specie, delle relazioni, degli incontri non è
in alcun modo limitata a priori.
Il pensiero anarchico, con la sua forte spinta politica ed
etica alla ribellione contro ogni forma di ingiustizia, con
la sua volontà di smontare i meccanismi del dominio
a ogni livello e senza preclusioni, potrebbe intrattenere
uno scambio proficuo con la prospettiva antispecista qui delineata
e diventarne uno degli ingredienti più importanti.
Massimo Filippi, Filippo Trasatti
Note
- Peter Singer, Liberazione animale, trad. it. di
E. Ferreri, Net, Milano 2003, p. 22.
- David Nibert, Animal Rights / Human Rights: Entanglements
of Oppression and Liberation, Rowman & Littlefield
Publishers, Lanham 2002, p. 243.
- Elisabeth de Fontenay, Le silence des bêtes,
Fayard, Parigi 1998, p. 17. Solutré è un sito
archeologico risalente al periodo tra il 35.000 e il 10.000
a.C. contenente migliaia di ossa di cavallo, testimonianza
di un’epoca di caccia spietata a questo animale.
- John Berger, Perché guardare gli animali?,
in Sul guardare, trad. it di M. Nadotti, Bruno Mondadori,
Milano 2003, p. 13.
- Carol J. Adams, The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian
Critical Theory, Continuum, New York 2004 (di questo
volume è disponibile in italiano solo il cap. 2, Lo
stupro degli animali, la macellazione delle donne, in
Liberazioni, n. 1, 2010, pp. 24-55).
- Id., La guerra sulla compassione, in Massimo Filippi
e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’albergo di
Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia,
Mimesis, Milano 2010, p. 25.
- Jacques Derrida, L’animale che dunque sono,
trad. it di M.Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 70.
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