A destra come a sinistra, tra
le forze sindacali come quelle partitiche, tra i commentatori
e gli opinion-maker, tra gli operatori sociali e quelli economici,
con sempre più frequenza tutti si richiamano con forza
e insistenza alla democrazia, invocando i suoi valori e i
suoi presupposti come garanzia di libertà. Continuamente
evocata è però sempre più lontana, irraggiungibile.
Ormai la democrazia è ridotta a una mera astrazione,
vanificata continuamente dalle procedure, dalle strutturazioni
e dalle modalità d’intervento di questa cosiddetta
democrazia rappresentativa.
Cos’è successo alla democrazia? Niente di particolare,
semplicemente mentre la si afferma e la si invoca con vigore
si continua ad evitare di realizzarla. Non tanto perché
sia irrealizzabile, quanto perché chi ha usurpato il
potere in suo nome in verità non ha mai avuto l’intenzione
né la volontà di provare seriamente a vederla
operante. Per carità, non che personalmente sia convinto
che la democrazia sia una specie di panacea di tutti i mali
politici, come invece ipocritamente sostengono i suoi esaltatori.
Anzi! Solo che essendo fermamente convinto e consapevole di
tutti i suoi limiti, intrinseci e non, penso anche di sapere
che se venisse realmente applicata conterrebbe alcuni aspetti
politici che non possono non interessare i libertari.
Chiariamoci innanzitutto su che cosa s’intende quando
si parla di democrazia. Il concetto che esprime ci riporta
agli albori della politica occidentale, quando nella Grecia
antica fu pensata come un metodo di governo. Governo inteso
come funzione sociale, cioè la necessità di
gestire ciò che riguarda l’insieme sociale, non
come struttura di comando, come normalmente s’intende
oggi. Aristotele fu molto chiaro e la definisce come una delle
tre forme possibili di governo: la monarchia, governo di uno
solo (il monarca), l’oligarchia, governo di pochi (l’aristocrazia
è una variante dell’oligarchia), la democrazia,
governo di tutti, cioè del popolo (il demos). La definizione
originaria, che sostanzialmente si ferma qui, ne chiarisce
con semplice nettezza il senso lato e profondo insieme. Si
può cioè parlare di democrazia quando tutti
sono veramente coinvolti nella gestione della cosa pubblica,
che appunto riguarda tutti. Dal punto di vista teorico l’autogestione,
o autogoverno, è infatti uno dei modi di gestione sociale
che si riconduce ai presupposti della democrazia, proprio
perché tende a far si che la gestione della cosa pubblica
sia la risultante del coinvolgimento diretto di tutti, attraverso
metodologie, appunto, di democrazia diretta.
L’applicazione mistificata della rappresentatività
Purtroppo rispetto al significato originario storicamente
si sono innestate una serie di concettualità e di tecniche
gestionali che ne hanno snaturato completamente il senso,
fino a trasformarla in qualcosa di addirittura contrario,
anche se si continua strumentalmente a chiamarla nello stesso
modo. Con l’avvento della modernità la democrazia
è stata subdolamente identificata con la libertà,
quando spesso, proprio per come è stata impostata e
per come viene esercitata e funziona, è diventata un
mezzo per sopprimerla. Siccome sono il livello e il momento
decisionali che fanno comprendere la qualità della
partecipazione effettiva, guardiamo come è stata realizzata.
Invece di sperimentare modalità che permettessero un’effettuale
partecipazione di tutti al momento delle decisioni che riguardano
tutti, riuscendo ad estorcere il consenso popolare le oligarchie
al comando hanno messo in atto modalità funzionali
ad un esercizio totalmente autoritario del potere. Di fatto
hanno volutamente escluso un’autentica partecipazione
popolare dal basso, mentre al contrario il senso originario
della democrazia la reclama e la rivendica.
La chiave di volta c’è stata con l’applicazione
mistificata della rappresentatività. Concepita nel
medioevo per trovare modalità applicative in grado
di superare l’impasse dei grandi numeri di masse partecipanti,
la rappresentanza fu pensata come delega con mandato. Ogni
singola comunità affidava ad uno o più rappresentanti
il compito di portare ad entità sociali più
vaste le decisioni prese al suo interno. Era un mandato preciso
che decadeva automaticamente se non veniva rispettato. La
rappresentanza è perciò sorta per trovare un
efficace e coerente strumento funzionale a portare avanti
istanze decise collettivamente. In questa pratica emerge la
visione che è indispensabile garantire di controllare
dal basso chi è fornito di una delega, in quanto tale
provvisoria. Esattamente all’opposto di come funziona
ora, dove emerge la preoccupazione dei vertici di controllare
dall’alto l’accettazione di decisioni alle quali
il basso è estraneo.
Questa preoccupazione autoritaria dell’esercizio del
potere è stata rafforzata con la scelta strutturale
di dar sempre ragione alla maggioranza, al punto che di norma
ormai la democrazia è identificata con la decisione
a maggioranza. Eppure è solo una convenzione procedurale,
una delle possibili tecniche decisionali, seppur di grande
importanza. A ben riflettere ci si accorge che è una
forzatura pensarla come intrinsecamente necessaria al funzionamento
democratico. Oggi le decisioni che riguardano tutti vengono
prese dagli eletti senza consultare gli elettori e sono imposte
dalle strutture autoritarie di governo. Così abbiamo
che, mentre si dichiara che le decisioni vengono prese dalla
maggioranza della popolazione, solo una ristrettissima minoranza
di delegati senza alcun mandato decidono, con una maggioranza
tutta interna a loro, ciò che riguarda l’intera
società. È un accorpamento quantitativo di individui
considerati numeri indifferenziati, che contrasta col principio
democratico e umanista secondo cui ogni essere umano ha valore.
Sta proprio in questo inghippo, cioè nella condizione
strutturale di una finta rappresentanza, la contraddizione
più stridente che fa si che le vigenti democrazie siano
diventate in realtà delle non/democrazie, dove la democrazia
di forma è completamente deprivata di senso nell’atto
procedurale, nel momento fondamentale dell’applicazione.
La democrazia applicata annulla ogni potenzialità democratica.
La delega che oggi viene data attraverso il voto è
dichiaratamente senza alcun mandato, mentre è solo
una delega di potere.
Democrazia autoritaria? Non è una novità
Oggi si vota per eleggere chi dovrà decidere per
noi su di noi. Col voto si eleggono gli oligarchi che esercitano
un potere incontrollato sugli elettori, perché prenderanno
delle decisioni che verranno imposte a tutti (sia chi li ha
eletti sia chi non li vorrebbe) senza consultare nessuno.
Come tutti i governi autoritari esercitano perciò un
potere d’imposizione. Una volta il re riceveva la legittimità
di governare da dio e, incensato dalla casta dei sacerdoti,
esercitava un potere assoluto a sua discrezione. Oggi il popolo
elegge un apparato governativo che, non avendo nessun reale
mandato, una volta eletto esercita il suo potere senza nessun
controllo dal basso. Infatti non deve rendere conto che a
se stesso e alle leggi che emana e rende esecutive in quanto
apparato. Tra il re e il parlamento nella sostanza c’è
solo la differenza che il parlamento è eletto e il
re no. Ma rispetto al piano del comando e del potere decisionale
la sostanza varia di pochissimo, con solo qualche differenza
formale nelle norme di procedura.
Oggi più che mai la democrazia vigente è a tutti
gli effetti una non/democrazia, perché è tutta
improntata sulla tensione a governare e comandare (la famosa
governabilità) dall’alto, avendo messo completamente
da parte la partecipazione popolare alle decisioni. Ha avuto
completamente ragione Schumpeter, che nella prima metà
del secolo scorso previde la “democrazia dei leader”
come sbocco inevitabile delle democrazie nelle società
attuali. Egli era convinto, non a caso, che la complessità
delle società contemporanee rendesse impossibile, ma
anche inutile, una concreta partecipazione popolare alle decisioni.
Per Schumpeter la democrazia possibile ed auspicabile deve
limitarsi a designare chi decide e, nell’epoca della
contemporaneità, si riduce ad una competizione tra
leader, il cui vincitore, una volta ottenuto il consenso necessario,
eserciterà il governo, concepito in tal modo come vera
funzione di comando politico.
Questa descrizione stigmatizza in modo efficacissimo il divenire
degenerativo in atto della democrazia vigente, che da un punto
di vista libertario corrisponde ad un annichilimento quasi
totale degli assunti originari. Egemonizzata culturalmente
da una visione della politica spostata completamente sul versante
autoritario, la democrazia contemporanea applicata si è
talmente deprivata di senso da essersi trasformata in un’integrale
non/democrazia, autoreferenziale ed autogiustificativa.
C’è chi l’ha chiamata “democrazia
autoritaria”, perché vi prevale l’elemento
d’autorità rispetto a quello popolare. Ma è
una critica insufficiente. L’aspetto più pregnante
infatti è che l’unico momento di partecipazione
dal basso rimasto in vigore è quello delle elezioni.
Ma anche questo è stato reso del tutto funzionale a
non partecipare ai momenti decisionali, bensì a scegliere
chi deve decidere per tutti. La struttura procedurale in vigore
è un atto di esproprio della decisionalità popolare,
pensata per permettere all’elite di governare d’autorità
escludendo il demos.
A Spezzano Albanese, per esempio
È il trionfo dell’assenza di democrazia. Gli
effetti sono devastanti, soprattutto sul piano di una coscienza
e una consapevolezza civili. La coscienza più diffusa,
divenuto il lemma prevalente, è che in democrazia “decidiamo
noi chi ci deve comandare”. Per sentir parlare di un’effettiva
partecipazione si è dovuto inventare una modalità
inusuale, considerata innovativa, cui si è dato il
nome di “democrazia partecipativa”, ammettendo
così implicitamente che nelle “normali”
democrazie la partecipazione non è di casa. Ma anche
in questa modalità, nata e sperimentata a Porto Allegre
in Brasile, la partecipazione non è strutturale. È
un optional. I comitati popolari infatti sono consultabili
dalle istituzioni (ma non sono tenute a farlo) le quali, a
loro volta e a loro discrezione, decideranno se tener conto
del parere dei comitati. Del resto le istituzioni autoritarie
non riescono a ragionare in termini di autentica democrazia
e non avrebbero mai accettato organismi che potrebbero mettere
in discussione le loro decisioni.
Guardiamo per esempio lo scontro tra popolazione e istituzioni
statali che si sta consumando in Val di Susa da più
di vent’anni. La popolazione ha documentato ampiamente,
molto più delle istituzioni, le ragioni del suo diniego
alla costruzione del TAV. Ma lo stato pone un problema politico
di legittimità di comando che dev’essere rispettato,
per cui si ritiene autorizzato ad usare la forza. Le ragioni
per cui si vuol costruire quella tratta ferroviaria, che deturperà
l’equilibrio ecoambientale dell’intera valle,
sono sostanzialmente di business e di egemonia politica. Solo
che in questo caso la popolazione ha deciso, praticamente
compatta, di non essere espropriata della sua volontà.
Nella non/democrazia lo stato non può permetterlo e
si sta sfiorando la guerra civile.
Al contrario a Spezzano Albanese, in provincia di Cosenza,
da decenni si sta consumando un’esperienza di democrazia
diretta efficace e funzionante, che le istituzioni locali
sono state costrette ad accettare in modo informale senza
riconoscerla ufficialmente. Qui è riuscita a prevalere
la forza della volontà popolare, sopportata e subita
dalla non/democrazia. La Federazione Municipale di Base (FMB)
interviene su tutte le questioni dell’amministrazione
comunale basandosi sul principio della democrazia diretta
in piena autonomia dall’amministrazione stessa e da
ogni formazione politica e partitica. Controlla ogni decisione
comunale presa e interviene in modo deciso per contrastarle
quando non le condivide. È uno strumento d’intervento
diretto e di lotta per far trionfare dal basso la volontà
popolare. È un’applicazione creativa e autentica
dei presupposti dell’autogestione nell’era della
non/democrazia trionfante.