Rivista Anarchica Online


Medio Oriente

Fibrillazioni continue

di Antonio Cardella

Rischi di guerra, interessi economici, conflitti storici, nuovi protagonismi. Nello scacchiere dell’Asia Occidentale
la tensione non accenna a calare. E l’Europa...

 

Credo che in Europa – alle prese con una crisi economica di portata storica – pochi abbiano la percezione esatta dei pericoli che la situazione in Iran comporti per gli attuali assetti geopolitici del mondo intero.
Con le ulteriori sanzioni che Barak Obama ha imposto al regime iraniano nel gennaio scorso, sanzioni che tenderanno a penalizzare tutte le istituzioni finanziarie che intratterranno relazioni con la banca centrale di Teheran, si renderà praticamente impossibile all’Iran di commercializzare il suo petrolio, dal quale ricava il 60% della sua sopravvivenza.
Detta così può apparire assai probabile che il regime iraniano sia indotto a non tirare troppo la corda, soprattutto sul suo temutissimo programma nucleare. Ma le cose non stanno precisamente in questi termini.
Intanto, non è affatto certo che sia possibile attuare un embargo di tale natura dall’oggi al domani, ed è per questo che lo stesso Obama ha previsto un periodo di transizione della durata di circa un anno per portare a regime le sanzioni. Privare, di colpo, dell’afflusso di petrolio un contesto in sofferenza come quello occidentale significherebbe ridurre se non azzerare le già scarse prospettive di ripresa. L’Europa, ad esempio, che importa dall’Iran 2,2 milioni di barili giornalieri, alla fine del 2012 vedrebbe ridotta la sua quota di 450 mila b/g, ai quali andrebbero aggiunti, prevedibilmente, i 100mila b/g dal Giappone e i 40 mila dalla Corea del Sud.
Poi c’è da mettere in conto le resistenze di Cina ed India a colpire così profondamente il regime iraniano. La Cina ha investito molto sui pozzi petroliferi di quella zona e l’India non intende destabilizzare i suoi rapporti con il paese islamico. Del resto, a prescindere dai trattati commerciali, in quell’area si gioca una partita di egemonia politica di portata planetaria. Washington sa bene che, se il suo messaggio venisse esplicitamente ignorato, il prestigio statunitense sarebbe irrimediabilmente compromesso in contesti – quello asiatico e medio orientale – decisivi per le sorti future del Pianeta. Per questo il suo affondo contro il regime di Ahmadinejad, duro nei toni, affida al tempo la possibilità di compromessi che allentino le tensioni senza pregiudicare il ruolo dell’America in questa spinosa questione.
Francamente, non so se la strategia di Obama sia dettata da un’attenta valutazione dei rischi che gli Stati Uniti correrebbero se il conflitto si radicalizzasse.

Afghanistan e Iraq

La politica estera americana è fortemente indebolita dal pantano afghano, nel quale, sul terreno, l’esercito a stelle e strisce, con i suoi alleati sempre più recalcitranti, si è arenato, mentre, politicamente, non si sa più con quali molle prendere la figura ingombrante di Karzai, arroccata a Kabul, priva di prestigio e a capo di un governo corrotto. In pratica il programmato ritiro degli eserciti occupanti appare sempre più simile ad una fuga che ad una fine di missione.
Analoga è la situazione in Iraq. Quelle terre devastate da un intervento militare demenziale, saranno presto abbandonate al loro destino, con una popolazione decimata dalla guerra e da un conflitto etnico interno che non ha prospettive di soluzione. Un conflitto che chiama in causa anche una potenza, la Turchia, che pesa sempre di più sul quadro degli equilibri strategici del Medio Oriente e non solo. Un tempo fedele alleata dell’Occidente, che per lungo tempo auspicò persino il suo ingresso nella Comunità Europea per consolidare l’argine contro l’espansionismo islamico, adesso con il governo di Erdogan ha mutato la sua prospettiva strategica, ritenendo, a ragione, che le aspettative di crescita economica e di prestigio politico del Paese andassero consolidate guardando al nuovo che emerge nelle regioni asiatiche piuttosto che ad un Occidente avvitato in un declino irreversibile.
Per la presunzione di ribadire il ruolo di potenza egemone, quindi, la defezione della Turchia è per l’America di Obama un colpo assai duro perché sconvolge il quadro delle alleanze in aree decisive per i futuri assetti geopolitici del pianeta. Il pragmatismo del governo di Ankara, l’ambizione di svolgere un ruolo egemone nella regione che dal Nord Africa si estende all’intero Medio Oriente, rendono assai difficile prevedere su quali fronti di volta in volta la Turchia si assesterà nei vari conflitti che, negli sconvolgimenti che caratterizzano questa prevedibilmente lunga transizione, destabilizzeranno l’area. È difficile anche, e conseguentemente, immaginare sino a che punto questa potenza, a suo modo anch’essa emergente, intenderà assecondare gli ostracismi occidentali nei riguardi dell’Iran, che è certamente un suo competitor pericoloso sul piano degli assetti egemonici, ma è pur sempre una componente fondamentale di quel vasto fronte che esprime logiche e modelli di sviluppo profondamente diversi da quelli espressi dalla predominante civiltà dell’Occidente.

Israele e Iran

Ritorniamo così alla questione iraniana che rischia di coinvolgerci in un conflitto che è sempre più difficile mantenere sul piano della diplomazia.
È un fatto che sia Israele che l’Iran si preparano ormai da lungo tempo alla guerra. Per certi versi, tutti gli attori del dramma mediorientale, Stati Uniti compresi, sono convinti che solo un’operazione militare, limitata o meno, può, in certo modo, garantire la sicurezza dello Stato ebraico, sempre più isolato nell’area e, di fatto, circondato da regimi che non perdono occasione per dare sfogo al loro antisemitismo e antiebraismo . Il conflitto palestinese, il contenzioso con la Siria per le Alture del Golan, il complesso rapporto con i Paesi Arabi determinano una condizione di guerra perennemente latente, che ha continue fiammate di vere e proprie operazioni militari. Parliamo della striscia di Gaza, che influenza anche i rapporti di Israele con l’Egitto e l’instabilità dell’intero Nord Africa, alle spalle di un’area in costante ebollizione (1).
Il fattore determinante che deciderà il futuro di questo groviglio di questioni è attualmente la consapevolezza dei due principali attori – Iran e Israele – dei rischi che ambedue corrono nello scatenare un conflitto armato, per il quale non sembrano ancora in grado di valutare il rapporto costi/benefici.
L’opinione pubblica israeliana è divisa, come del resto lo stesso governo in carica. Il primo ministro Netanyahu, sostenuto dal ministro della difesa Ehud Barak e dal ministro degli esteri Avigdor Liebermann, non è riuscito a compattare l’intera compagine governativa su un attacco preventivo ai siti nucleari iraniani, per il quale l’aeronautica con la stella di David si prepara da almeno cinque anni. I voli sperimentali degli F15i e degli F16i si moltiplicano da tempo e sono mirati a verificare la possibilità e l’efficacia di un attacco ai centri di produzione nucleare iraniani: Natanz, Isfahan, Arak e Fordow, i principali. A mettersi di traverso al decisionismo di Netanyahu sono importanti settori dell’esercito e i servizi segreti, lo Shin Bet e il Mossad, per i quali Israele non è ancora preparato a difendersi da una più che probabile rappresaglia che, oltre che dal Paese islamico, potrebbe venire da Hamas, dal Libano degli hezbullah e persino dalla Siria, tutti Paesi che sono dotati di missili di media-lunga gittata.
Dal canto suo l’Iran sta forzando i tempi del suo progetto nucleare e sembra già in grado di arricchire l’uranio in misura sufficiente per allestire in sei mesi la sua bomba atomica, preparata in bunker costruiti a oltre 20 metri sotto il livello del suolo, tutelati da un complesso sistema che li sottrae alla ricognizione aerea e satellitare. C’è poi, messa in conto, nel caso di un intervento militare israelo-americano, la chiusura dello stretto di Hormuz, un collo di bottiglia largo appena 4 km tra la costa iraniana e quella dell’Oman, dal quale transita una percentuale elevata del fabbisogno petrolifero mondiale.
Insomma, gli scenari che si aprono nel breve periodo sono tutt’altro che rassicuranti ed è illusoria la possibilità, eventualmente coltivata da qualcuno, di potersi chiamare fuori dallo scontro già in atto.

L’inesistente Europa

In uno scenario in così grande e rischiosa fibrillazione, l’Europa resta nell’angolo a leccarsi le sue ferite. A prescindere dal risibile, velleitario interventismo del presidente francese Sarkozy, la diplomazia del Vecchio Continente sembra neppure percepire la delicatezza del momento che il mondo attraversa. Nello scontro tra l’Occidente ed il mondo arabo-islamico non sono in gioco solo gli equilibri politico-economico-strategici del vicino Oriente, ma l’esito di un confronto definitivo tra una civiltà, la nostra, che sembra volgere al tramonto, ed un mondo nuovo che, pur tra mille contraddizioni, sembra voler percorrere strade nuove, modelli di sviluppo inediti, che presuppongano una visione del futuro in una certa misura affrancata dal fardello di disuguaglianze, pregiudizi e tabù che l’Occidente esalta nel suo lungo declino.
Certo, in un territorio su cui si ridefiniscono valori così essenziali, l’opera di mediazione che l’Europa, se davvero esistesse e se fosse in grado di battere un colpo, potrebbe svolgere, sarebbe in ogni caso difficile e presupporrebbe una rimeditazione profonda sui suoi destini e, prima ancora, sui fondamenti della sua cultura.
Tutte possibilità che, allo stato attuale delle cose, appaiono remotissime.

Antonio Cardella

  1. Una precisazione: così come non è lecito identificare lo Stato di Israele con i suoi governi, allo stesso modo non è opportuno attribuire la logica dei governi di Stati quali Siria, Iran ed Egitto a tutta la popolazione; bisogna distinguere, infatti, tra chi è vittima ancora di pregiudizi antisemitici e chi si impegna ad affrancarsi da dittature familiari quasi sempre sanguinarie.