Nonostante
la
camicia di forza
Il vagabondo delle stelle di Jack London, edito da
Adelphi, amato da Isaac Asimov e apparso per la prima volta
nel 1915, è l’ultimo romanzo di Jack London ed
è anche il suo libro più originale, estremo. Il
protagonista, detenuto nel braccio degli assassini di San Quentin
(California), viene regolarmente sottoposto alla tortura della
camicia di forza; riesce, però, in questa condizione
disperata, con feroce autodisciplina, a trasformarsi in un moderno
sciamano che attraversa le barriere del tempo, capace di condurci
nel cosmo e nelle epoche con stupefacente naturalezza.
Potrete leggere passaggi come questi:
- (…) che cos’è la memoria, se non
esperienza?
- Se gli uomini intelligenti possono essere crudeli, gli
imbecilli lo sono ad un livello mostruoso.
- Se riuscire a dimenticare è segno di sanità
mentale, il ricordare senza posa è ossessione e follia.
- (…) esiste una qualche legge di compensazione,
(…) più ci si indebolisce, più si diventa
insensibili al dolore: si viene feriti di meno perché
c’è meno da ferire.
- In tutto il mondo di donne come lei ne nascono un paio
ogni secolo. Non teneva in alcun conto le norme e le convenzioni
sociali, e la stessa religione (…) era secondo lei una
serie di concetti astratti. Quanto alla religione del volgo,
la religione pubblica, riteneva che fosse un sistema per mantenere
milioni e milioni di sudditi sotto il loro faticoso giogo.
• (…) chi nulla ha può dispensare a piene
mani.
- Generalmente, tutte le donne esercitano sugli uomini
un fascino di fondo. Quando questo fascino assume una sua peculiarità,
noi lo chiamiamo amore.
- (…) giuro che taglierò in due il primo
che verrà a parlarmi del mio destino dopo la morte.
- (…) è stato proprio l’aver molto
amato a fare di me il grande combattente.
- Spesso mi meraviglio dei modi in cui la gente si guadagna
da vivere.
- Come negare che la civiltà che ricopre la nostra
barbarie altro non sia che un sottilissimo velo (…)?
- Il bambino appena nato diverrà un selvaggio se
non lo si forma, se non lo si ingentilisce per mezzo di quell’astratto
sistema morale che si è andato accumulando così
a lungo.
- “Non uccidere”. Stupidaggini. Proprio ora
nei cantieri navali di tutte le nazioni civili stanno costruendo
le chiglie di corazzate e supercorazzate. Cari amici, io che
sto per morire vi saluto con questa parola: stupidaggini!
- Ditemi, la morale che oggi si predica è superiore
a quella che predicavano Cristo, Buddha, Socrate, Platone, Confucio
e l’anonimo autore del Mahabharata? (…) Debbo ammettere
che la morale che si praticava in quelle epoche remote era migliore
di quella odierna. Rifletteteci per un momento. Pensate al lavoro
minorile, alla corruzione che dilaga nella polizia e nella politica,
pensate ai cibi adulterati, alle figlie della povera gente,
che sono delle vere e proprie schiave.
- Riesamino rapidamente le molte esistenze che ho vissuto,
in molte età e in molti luoghi: non mi sono mai imbattuto
in una crudeltà più terribile del sistema carcerario
di oggi.
- Un tempo punivamo con estrema severità e uccidevamo
rapidamente. Lo facevamo assecondando il nostro desiderio o,
se vi pare, il nostro capriccio, ma non eravamo ipocriti. Non
facevamo appello alla stampa, al pulpito, all’università
perché ratificassero la nostra volontà di dare
sfogo agli istinti più selvaggi. Se volevamo fare una
cosa, la facevamo e basta, a piè fermo, e a piè
fermo affrontavamo rimproveri e censure, senza nasconderci dietro
agli economisti classici e ai filosofi borghesi, né dietro
ai professori, ai predicatori e direttori di giornali, tutti
foraggiati.
- L’uso peggiore che si possa fare di un uomo è
quello di impiccarlo.
No, non ho alcun rispetto per la pena di morte. Si tratta di
un’azione sporca, che non degrada solo i cani da forca
pagati per compierla ma anche la comunità sociale che
la tollera, la sostiene col voto e paga le tasse specifiche
per farla mettere in atto. La pena di morte è un atto
stupido, idiota, orribilmente privo di scientificità:
“… ad essere impiccato per la gola finché
morte non sopravvenga” recita il pittoresco frasario della
società…
Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Leggete
cosa scrive Edward Bunker nella sua autobiografia “Educazione
di una canaglia”: “Ricordai un libro che avevo letto
ai tempi del riformatorio, Il vagabondo delle stelle
di Jack London, la storia di un uomo in una cella di San Quentin
come la mia, forse la stessa cella che occupavo io. Quest’uomo
terrificante, con un’inflessibile forza di volontà,
fu costretto in una camicia di forza. Fissava la sua mente su
una stella e in qualche modo si proiettava nello spazio e nel
tempo, e viveva altre vite. Era reale, o avveniva soltanto nella
sua mente? Non riuscivo a ricordare quale fosse la risposta,
ammesso che fosse stata data una risposta. Non sembrava rilevante
per il tema del racconto, la capacità di quest’uomo
di sfuggire al suo tormento in virtù della sua mente.
Il pensiero del Vagabondo delle stelle mi entusiasmava. La conoscenza
della storia permette a ciascuno una maggiore percezione della
vita. Come potevamo capire dove eravamo se non sapevamo dove
eravamo stati prima?”.
Letture
di classe
Dino Erba, Nascita e morte di un partito rivoluzionario.
Il Partito Comunista Internazionalista (1943-1952), All’Insegna
del Gatto Rosso, Milano, 2012.
Pagine 300. e 20, comprese le spese di spedizione.
Richiedere a: dinoerba@libero.it
Quando, nel luglio 1943, gli Alleati iniziarono la lentissima
occupazione dell’Italia – che richiese quasi due
anni –, il Paese si presentò ai loro occhi come
un possibile «laboratorio» politico, per sperimentare
soluzioni, che poi avrebbero potuto essere applicate in altri
Paesi. Da parte sua, la classe dirigente americana, che già
guardava al dopoguerra, cercò soluzioni che favorissero
il decollo dell’Italia verso una piena maturità
capitalistica, con caratteristiche che fossero complementari
a quelle degli USA.
Ed è in questo contesto socialmente mutante che si inserì
l’azione del Partito Comunista Internazionalista. Un partito
che aveva ancora un forte legame con gli anni rossi 1919-1920,
grazie al rapporto con un proletariato che, nel suo insieme,
non aveva mai abbandonato la prospettiva della rivoluzione socialista.
Durante il Ventennio, la carota della legislazione sociale fascista
non aveva lenito il bastone del dispotismo padronale che, con
l’appoggio del Regime, regnava nelle fabbriche e, ancor
più, nelle campagne.
Negli anni del primo dopoguerra, in un clima di forti tensioni
sociali, il Partito Comunista Internazionalista fu l’unico
partito che difese gli interessi degli operai, dei braccianti
e dei contadini che, dopo gli orrori della guerra, aspiravano
a una vita migliore.
La storia del Partito Comunista Internazionalista rappresenta
un filo conduttore per ripercorre le varie fasi di una feroce
normalizzazione capitalista, in cui la presenza di proletari
sovversivi costituiva una variabile più che prevedibile
per la borghesia, e come tale fu affrontata: prima fu inibita
dalla politica nazionalpopolare del PCI di Togliatti, poi fu
repressa dallo Stato, quindi fu disgregata dal grande flusso
migratorio e infine fu assorbita nel boom economico, indotto
dal Piano Marshall.
Questi passaggi furono tutt’altro che lineari e pacifici;
essi dettero adito a momenti di resistenza e di lotta, che spesso
trovarono un punto di riferimento nel Partito Comunista Internazionalista.
Al tempo stesso, la storia del Partito Comunista Internazionalista
mostra come il filo rosso della sovversione non possa essere
spezzato: ancor oggi esso continua a dipanarsi, sottotraccia,
tra i pori di una società che, malgrado i suoi splendori,
corre verso il baratro.
Il Partito Comunista Internazionalista nacque nell’Italia
del Nord verso la fine del 1942, per iniziativa di alcuni militanti
della Sinistra comunista, che si richiamavano all’indirizzo
originario del Partito Comunista d’Italia.
Durante la Resistenza, il Partito Comunista Internazionalista
fu in aperto contrasto con la politica di unità nazionale,
sostenuta da Palmiro Togliatti.
Dopo la Liberazione, si unirono al Partito altre formazioni
marxiste rivoluzionarie, che si erano costituite nell’Italia
Centro-Meridionale. In breve tempo, sorsero sezioni nelle principali
città italiane, coprendo buona parte del territorio nazionale.
E si formò quello che si può definire un piccolo
partito comunista «di massa».
I comunisti internazionalisti erano presenti in molte grandi
fabbriche, dove animarono una tendenza sindacale in opposizione
alla linea di Giuseppe Di Vittorio, che faceva ricadere i costi
della ricostruzione nazionale sulle spalle degli operai. Nelle
campagne, soprattutto in Calabria e in Puglia, gli internazionalisti
parteciparono al movimento dei braccianti e dei contadini. In
tutte le lotte, furono in prima fila contro la reazione padronale,
contro la violenza statale e contro i compromessi dei nazional-comunisti.
Ma, come si precisava, più che dagli attacchi dei nemici
di classe, la loro sconfitta fu segnata dalla profonda trasformazione
che il Piano Marshall produsse nella società italiana
e, di conseguenza, nella composizione del proletariato.
Dino Erba
|
San
Giovanni in Persiceto (Bologna), 12 giugno 1949, funerali
di Loredano Bizzarri, bracciante, assassinato
da una Guardia Campestre |
In
sella
a biciclette bianche
Imprevedibili provocatori, antigerarchici e antiautoritari,
creatori dell’happening, anarchici pacifisti e nonviolenti,
gioiosi interpreti di un ambientalismo alle prime armi, protagonisti
di uno dei movimenti più caratteristici, emblematici,
decisivi, della controcultura che, negli anni precedenti il
‘68, pose le basi, e fra le più solide e fertili,
di quella rivoluzione libertaria che da lì a poco avrebbe
“trasformato” il mondo, se non nelle sue basi economiche,
senz’altro in quelle del costume e delle libertà
civili e sociali. Tali furono i Provo, i mitici “capelloni”
contestatori e irregolari che fecero di una Amsterdam popolata
di favolosi “folletti” la meta sognata da una intera
generazione; una generazione che cercava gli strumenti per uscire
(e ce l’avrebbe fatta) dalle secche di una società
ingessata dalle contraddizioni di un diffuso benessere economico
e ingabbiata dalle esigenze “superiori” di una interminabile
guerra fredda.
Ai più giovani, forse, il “Movimento Provo”,
dice ben poco e sicuramente non provoca particolari suggestioni,
ma per quelli della mia generazione, che colsero a piene mani
gli stimoli che arrivavano dal nord Europa, l’esperienza
di quel movimento fu davvero in grado di trasmettere emozioni
e, soprattutto, riflessioni. Perché furono loro i primi,
pur con tutte le insicurezze tipiche di un movimento nato tumultuosamente
e tumultuosamente vissuto, a indicare la concretezza di un impegno
civile e sociale capace di scardinare le presunte verità
che i regimi di tutti i colori cercavano di far passare come
le sole destinate ai giovani.
Attenti, infatti, a cogliere le forti contraddizioni di una
società attraversata dai profondi mutamenti provocati
dall’onda consumistica degli “anni del benessere”,
i Provos si fecero promotori di una serie di proposte, tutte
dalla forte impronta neodadaista e molte, volutamente, irrealizzabili,
che in effetti mutarono il tessuto sociale e le abitudini quotidiane
della civilissima Amsterdam. E, a cascata, dell’Olanda
e di mezza Europa. Come non ricordare le biciclette bianche,
ecologici strumenti di libero scambio, e le prime occupazioni
degli ambienti sfitti, e i “camini bianchi” contro
l’inquinamento metropolitano, e le pressanti proposte
di controllo delle nascite e di affermazione della dignità
della donna, e le lotte contro la guerra del Vietnam? Stimoli
continui all’azione e alla riflessione e viatici per la
scoperta di una vita diversa, vissuta diversamente grazie a
un forte impegno politico e sociale. Un impegno, però,
creativo, tale da essere totalmente estraneo agli stilemi della
vecchia sinistra a pugno chiuso, e irriducibilmente ostile a
quelle forme di politique politicienne che sembravano le uniche
praticabili e appropriate. Fu loro, infatti, l’invenzione
dell’happening, l’azione improvvisa, clamorosa e
dissacrante, “superamento della contrapposizione tra arte
e vita, dove l’arte si fa azione, con il tentativo di
fonderla con la vita quotidiana”. Una invenzione che spiazzò
completamente il potere e destrutturò i meccanismi del
controllo sociale.
Sull’argomento è uscita una recente pubblicazione
(Luca Benvenga, Il movimento Provo. Controcultura in
bicicletta, Aprilia, Novalogos Ortica, 2012) nella
quale l’autore, facendo anche riferimento al bel testo
che Matteo Guarnaccia dedicò nel 2005 alla magica Amsterdam
degli anni Sessanta, ricostruisce i passaggi essenziali di quell’esperienza,
aiutando il lettore con l’utile riproduzione di numerosi
documenti prodotti dai Provos. Una lettura spesso interessante
e ricca di stimoli, ma purtroppo altrettanto spesso penalizzata
da una scrittura ostica se non, a tratti, quasi indecifrabile.
Tutto il contrario della esemplare linearità con la quale
i Provos comunicavano e si facevano capire.
Massimo Ortalli
La
lezione
della Fenísia
La Fenísia è uno di quei personaggi che se hai
frequentato e frequenti un certo tipo di letteratura (a sfondo
antropologico, per dire!) ti sembra d’aver sempre conosciuto.
Ma questa «montagnina» è un troppo, che se
alla fine non stroppia, è solo perché Laura Pariani
è un’affabulatrice, che d’incantamenti della
lingua se n’intende come pochi.
La valle delle donne lupo di Laura Pariani
(Einaudi, Torino 2011, pagg. 242, euro 19,50) la prima volta
te lo leggi d’un fiato. La seconda, invece, va diversamente.
E dalla Fenísia-montagnina ti tocca prendere le distanze.
(Oh!, se fosse per lei ti terrebbe abbrancato…) E questo
succede perché è troppo perfetta, la Fenísia,
troppo topos letterario, per riuscire a convincere del tutto.
Intendiamoci! Sfido chiunque a non trovare della verità
in questa figura di donna ribelle. C’è, eccome
se c’è! Ma è la verità di tante donne
concentrate in una sola. E allora la Pariani avrebbe forse fatto
meglio a lavorare di scrematura. Oppure a scegliere di scrivere
un saggio. Un compendio su quella che lei stessa definisce la
«singolare quotidianità» della vita di montagna.
La vicenda della Fenísia e del suo Paese Piccolo, dove
trascorre quasi tutta la vita, si snoda lungo un arco temporale
che va dal 1928 al 2007. E nei 49 capitoli che compongono l’architettura
del romanzo ne succede di ogni. C’è la morte, innanzitutto.
Che la fa da padrona dal principio alla fine… (E vorrei
vedere, visto che ab ovo sia la Fenísia che la Grisa,
sua cugina, sono figlie di becchini – il Marziano e il
Biâs – e stanno di casa praticamente muro a muro
col cimitero!) Ma ci sono anche la fame, le malattie, la violenza
ingiustificata degli uomini. E poi la guerra e l’emigrazione.
Un amore proibito e l’esperienza del manicomio. Non mancano
d’altronde – e come farne a meno? – le storie
di «stríe» sepolte laggiù, in quello
che viene chiamato «il prato delle Balenghe». (Con
tanto di noce, per antonomasia l’albero delle streghe.)
E via così, una «storia nera» dietro l’altra…
Di morti, di incendi, di abbandoni. Di lupi e di lupe. Sino
al cammeo, assolutamente fantastico, della costruzione delle
«macchine». Financo quella per fabbricare…
lupe! Insomma, un pot-pourri con un unico comun denominatore:
il punto di vista della Fenísia. Che, a dirla tutta come
sta, non è esattamente ottimistico! «Si fa per
la meglio; alla peggio ci siamo» afferma infatti la protagonista,
ormai vecchia, a un certo punto della narrazione. «Si
vive da ottenebrati. Quel che i tuoi occhi non stanno vedendo
oggi può darsi che dovrai soffrirlo come colpa posdomani.
Per non sbagliare non bisognava nascere.» E punto lì,
ché questo è il concetto che, gira che ti rigira,
salta fuori per il lungo e per il largo in tutto il libro.
Ma allora perché leggerlo, questo romanzo? Perché
se è vero che è all black e dal punto
di vista dell’ideazione dei personaggi principali non
del tutto persuasivo – almeno a mio parere! –, tuttavia
il racconto stilla un mondo che è storia nostra, delle
genti delle nostre montagne. Il principale merito del libro
sta proprio nel calco di un’oralità che la Pariani
ricostruisce con pazienza e straordinaria capacità. «…
canzoni, leggende, detti popolari, aneddoti…», tutto
concorre a ricreare un tempo, atmosfere, odori da riscoprire
come vecchie foto di famiglia conservate in una scatola di latta.
Inoltre val la pena di leggerlo, questo romanzo, per una certa
idea di libertà che lo pervade.
In questo appartato universo di montagna che consideriamo morto
e sepolto sotto tonnellate di tv-spazzatura, tablet, blackberry,
suv e quant’altro, ma che è dell’altro ieri
soltanto (e forse in una qualche maniera ancora attuale), chi
la pensava con la sua testa l’aveva da pagare. E la pagava
tutta, altroché! In quanto figlia di «pelamòrti»,
«lavoro sporco, ribrezzevole», la Fenísia
è fuori dal gregge fin dall’inizio. Crescendo,
impara sulla sua pelle la legge della montagna. Poi la decisione
fatidica: farsi lupa, anche metaforicamente, tramite un escamotage.
Gratta gratta, qual è la lezione di questa donna? Purtroppo
che la libertà la si purga tutta la vita con l’emarginazione,
la solitudine e soprusi di ogni genere. Quando va bene…
In tempi non troppo remoti perfino con la morte, la più
crudele. Come nel caso delle donne che la comunità bollava
come «balenghe». Quelle, per capirci, che non accettavano
di «Vivere da morta. Patire da muta. Obbedire da cieca.
Amare da vergine» – precetti di una mentalità
bestiale e coercitiva, propugnati in primis dallo stesso
curato del Paese Piccolo, «Don Lardo».
(Ma balenghe erano considerate dalla comunità anche le
«sanatrici», cioè le donne che avevano la
sapienza nella «física», «l’arte
di sanare o uccidere con le erbe». E balenghe erano pure,
manco a dirlo, le donne nate con qualche segno particolare.
Diverse perché mancine, per esempio. Con i capelli rossi.
Oppure strabiche)
Una lezione, quella della Fenísia, ben faticosa da digerire.
Che ingroppa lo stomaco. In particolare per l’ingiustizia
che nei «seculòrum» non conosce catarsi.
Ed è precisamente questo il punto. Che la libertà,
di pensiero e di azione, non condurrà mai a una catarsi!
È in uno degli ultimi capitoli dispari del romanzo –
ché i pari sono concepiti come una fiction nella
fiction, sotto forma di dialogo tra intervistatrice
(la «sciura milanese») e intervistata (la Fenísia)
– che troviamo un senso, se senso si può chiamare,
all’apparente follia della scelta di una libertà
appunto senza catarsi.
Nel ripetersi di ribellioni e condanne, la Fenísia, «la
stría, la pelamòrti, la “Lupa”»,
ha l’impressione di occupare un posto preciso. Lei è
certa «… di essere transitata in questa lagrimarumvalle
per provare che è sempre possibile andare controcorrente.»
Solo questo!
Il che può essere, anzi lo è senz’altro,
molto vero. Ma è anche molto duro. E quindi molto doloroso.
Una verità lancinante!
Emanuela Scuccato
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