dossier Georges
Brassens
Per lui mi sciolgo
i capelli
di Margherita
Zorzi
Esce in
queste settimane “Georges Brassens – Il maestro
irriverente” (Zona Edizioni). Ne è autrice una
giovane scrittrice veronese, ricercatrice di Logica Matematica
presso l'Université Paris 13.
Ne pubblichiamo l'introduzione e parte del capitolo “Georges,
il ribelle”.
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Se
vi capita di passeggiare tra i vicoli di Parigi, tendete l'orecchio:
potreste sentir cantare di fiori, di amore, di guerra, di
vita di strada. Se vi trovate per caso nei pressi del cimitero
di Sète, piccolo porto sul Mediterraneo, lasciate un
fiore: siete vicini a Georges Brassens. Georges è lì
da molti anni, quasi come aveva desiderato nella sua Supplique
pour être enterré à la plage de Sète,
quando cantava accompagnandosi con la chitarra e con i suoi
occhi bellissimi.
La prima volta che vidi una sua fotografia rimasi colpita
dal suo sguardo, profondo e vagamente inquieto. Quel signore
dall'aria sorniona, così poco francese, mi fissava
da un bianconero d'altri tempi, imbracciando la chitarra e
stringendo tra le labbra una grossa pipa. Poco tempo più
tardi avevo scoperto molte cose di lui. Georges amava i poveri,
i gatti, le ragazze, la liquirizia, i ceci in scatola. Aveva
la passione per i libri e per quelli che i libri li scrivono.
Georges odiava i borghesi, la pena di morte, la piccola morale
dei bigotti e la guerra. Georges era una persona fuori dal
comune, dal carattere dolce ma difficile, ricca di umanità
ed incapace di tollerare le ingiustizie. Un uomo dalla personalità
complessa, dotato di un assoluto talento musicale, con una
passione smisurata per le piccole storie; sapeva dare alle
piccole storie le più diverse ambientazioni, dai microcosmi
dell'emarginazione al mondo dorato della nobiltà decadente.
Per le sue favole insolite sapeva dipingere personaggi indimenticabili
e commoventi, fragili di un'umanità disperata ed immortali
nel loro lieto fine o nel loro destino triste: centinaia di
occhi, centinaia di fiori, centinaia di amori felici o infelici,
fedeli o infedeli sono vissuti e vivono tra versi alessandrini,
rime baciate e andamenti accattivanti. Nelle mani di Brassens,
la piccola arte della chanson ha potuto risplendere nella
sua indefinibilità, che la rende un'arte nobile, e
contemporaneamente in quei limiti che la rendono un'arte per
tutti. O, più precisamente, un'arte per tutti quelli
che hanno voglia di ascoltare, di farsi raccontare, di affrontare
un modo di cantare disarmante: statico nell'impercettibile
gioco di sguardi e di sorrisi accennati (raccontano così
le vecchie immagini di repertorio); dinamico nell'ineguagliabile
impassibilità, nella dizione perfetta della parola,
che si tratti di turpiloquio o di una struggente frase d'amore.
Non-interpretazioni contrarie ad ogni estetica del “belcanto”,
ma cifra stilistica di chi, in un modo personalissimo, sapeva
limare le parole e le rime, con l'abilità antica del
cantastorie, che canta la storia dall’esterno, ma la
canta anche da dentro, senza che ce ne accorgiamo.
E Georges nelle sue canzoni è ovunque, anche se a volte
sembra non essere da nessuna parte, perché, come diceva
lui stesso, nelle sue canzoni è necessario andarlo
a cercare. Di cercare, a me è capitato, ed è
stato come certi incontri fortuiti e fortunati: disarmante
ed indimenticabile, perché queste canzoni non sono
canzoni qualsiasi, sono canzoni che fanno compagnia, a volte
per la loro lucidità, a volte per il loro essere ingenuamente
e splendidamente d'altri tempi.
Ho conosciuto ladri, suonatori, assassini, contadinelle, querce,
nelle canzoni di Georges Brassens, e ho conosciuto le loro
storie. Che fossero vere o favole immaginate, da quando lui
le ha cantate sembrano esistere da qualche parte, forse in
quell'iperuranio a misura di musicanti, in quell'aldilà
laico di dei festanti e dispettosi in cui l’autore ha
mandato come splendido augurio tante persone care, e nel quale,
un po' commossa, a me piace immaginare lui.
La commozione non ha nulla a che vedere con la tristezza,
è un sentimento che può, o meno, appartenere
alla sfera emozionale che nasce nell'ascoltare una canzone.
Non si può suggerire, la commozione; si può
solo raccontare, soprattutto quando è la commozione
nei confronti dei deboli, dei piccoli, dei fiori, degli animali,
dei cuori limpidi ed imperfetti.
La stessa commozione la provano ancora oggi gli amici di Georges,
quando parlano di lui. La stessa commozione che provo io che
non c'entro niente, che allora non c'ero ma mi sembra di esserci
stata, e che davanti alle sue canzoni non mi tolgo il cappello,
perché a lui non sarebbe piaciuto, ma mi sciolgo i
capelli.
Georges,
il ribelle (il suo anarchismo)
Nei giardini mal frequentati,
nei vicoli malfamati, ma anche nei cabaret o al mercato del
rione… Nei giorni qualsiasi oppure il Quattordici Luglio…
Per Georges Brassens, ogni tempo ed ogni luogo offrono l’opportunità
di trasformare la propria insofferenza per regole ed imposizioni,
in storielle divertenti e dispettose, ricamando versi insolenti
con sottile ed efficace ironia. Parlando di guerre, di amori,
di morte e di fiori, e analizzando il suo singolare e personalissimo
approccio ai meccanismi sociali e alle situazioni della vita,
abbiamo già iniziato a conoscere il rifiuto dell’autore
per il potere costituito, la sua posizione nei confronti della
morale comune, il suo individualismo umanitario, voce fuori
dal coro (o dalla bande des moutons, come direbbe lui…)
che preferisce le sartine alle regine, le eterne fidanzate
alle spose, i gatti alla gelosia.
Ritroveremo
tutto questo, strutturato, “teorizzato” (che il
libertario Tonton Georges ci passi l’espressione!) nel
lato più irriverente della sua poesia. Andremo a sbirciare
tra le canzoni “cattive”, quelle in cui l'ostentazione
dispettosa di comportamenti impopolari, diventa dichiaratamente
uno strumento di protesta nei confronti dell’omologato,
pubblico pensare. E che il comportamento impopolare si manifesti
nell'appartenere al mondo della strada, della piccola malavita,
dello sgangherato sottoproletariato parigino, oppure nell'assumere
un atteggiamento da fannullone quando tutti gli altri stanno
festeggiando una celebrazione nazionale, il significato finale
è in ogni caso quello di creare un elemento di dissonanza
con le più o meno tacite regole di comportamento dettate
dalla morale, considerate da Brassens uno strumento di vessazione
nei confronti dei più deboli.
E così il maestro francese sembra ancora una volta
fare il tifo per la polverosa gente della strada, che sopravvive
alle difficoltà e alla disperazione, e che viene descritta,
anche negli atteggiamenti considerati socialmente riprovevoli,
senza esprimere giudizi e condanne; non stupisce quindi se
ne La mauvaise réputation (un manifesto di pensiero
per Georges), è il contadino che subisce lo sgambetto
e non il ladro di mele...
In questi brani viene apparentemente a mancare l'elemento
della favola come pretesto narrativo, o, ancora, viene meno
la ricerca di toni poetici ricercati; le trame, se presenti,
sono racconti o immagini di vita catturati alla strada, in
bilico tra elementi autobiografici (o comunque ispirati all'esperienza
personale) e situazioni che sembrano rubate ai vecchi film
in bianco e nero degli anni Cinquanta. Ritroviamo in ogni
caso i personaggi tipici della poetica di Brassens in tutta
la loro nitidezza: la puttana, il protettore, i gendarmi,
il ladruncolo, e quel personaggio libertario che di fatto
rappresenta lo stesso cantautore, che ama osservare i bassifondi,
frequentare (con amore) ragazze facili e soprattutto starsene
a dormire nel bel mezzo del Quattordici Luglio…
Anche in veste di personaggio pubblico, di uomo di successo,
il nostro chansonnier mostra una certa insofferenza, soprattutto
nei confronti dell'opinione pubblica, della stampa e dei giornalisti.
A questi ultimi e ai morbosi meccanismi della notizia, dedica
alcune canzoni, tra cui la divertentissima Le bulletin de
santé, martellante invettiva in cui ironizza sulla
puntualità con cui la stampa, ad ogni suo allontanamento
dalla scena, si affretta a dichiararlo morto.
Tra i bersagli preferiti di Georges, ci sono in primis le
forze dell'ordine e i rappresentanti della legge (indimenticabile
il giudice de Le gorille), presi in giro in più di
una canzone. Come già osservato, la diffidenza nei
confronti di flics e gendarmes si deve probabilmente far risalire
allo spiacevole episodio del furto ai tempi del liceo, episodio
che fu però l'incipit di quel percorso di formazione
che probabilmente assecondò l'anima artistica e forgiò
lo spirito anarchico di Georges.
A dire il vero, egli fu un anarchico molto sui generis, essendo
probabilmente geneticamente inadatto ad aderire a qualsiasi
tipo di pensiero e a qualsiasi militanza. Il culto quasi religioso
per l'amicizia esclusiva che lo legava ai suoi pochi storici
amici, e la sua diffidenza per le folle (fino a teorizzare
l'incompatibilità dell'essere umano con i plurali in
Le pluriel), hanno portato alcuni a definirlo un anarchico
individualista. Di fatto la definizione calzerebbe soltanto
tenendo separati i due aggettivi, perché la definizione
sociopolitica di anarchismo individualista può essere
lontana dall'anarchia di Georges, un'anarchia caratterizzata
da sincretico connubio di ribellione e di pietas nei confronti
del genere umano, nei suoi splendori e nelle sue miserie.
Un'anarchia che non ha radici nelle contingenze storiche,
ma in un particolare modo d'essere, un po' d'altri tempi,
un po' al di fuori da ogni definizione.
Probabilmente Georges era troppo anarchico per tutto, come
ha giustamente osservato qualcuno, considerando la sua incapacità
di partecipare a qualsiasi situazione organizzata, compresa
la redazione di Le Monde Libertaire. Per comprendere e descrivere
il suo anarchismo non dobbiamo cercare delle definizioni,
ma delle associazioni di idee: anarchia come tolleranza, come
rifiuto per il militarismo, come opposizione al moralismo;
un'insofferenza per le imposizioni e per il senso comune che
trova ragione in un personale senso di giustizia, in un amore
per i perdenti che è al contempo causa ed effetto di
una straordinaria dolcezza e risolve uno splendido ossimoro,
quello del suo commovente, altruistico individualismo (…).
Margherita Zorzi
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In Germania, l'inferno
Ho vissuto per anni ai
margini della società, completamente ai margini.
Non avevo soldi, ma non ne avevo bisogno. Perché
ero come un uccellino o un gatto, che gratta alla porta
e voi lo nutrite. Io non me ne accorgevo. Gli altri, gli
amici con cui vivevo, in qualche modo dovevano avere dei
contatti con la società. Io non ne avevo, ma loro
sì. Andando in Germania (ndt: durante l'occupazione
nazista Brassens fu confinato a Baesdorf) e poi tornando...
era l'inferno, non ero più abituato, non sapevo
cosa fosse vivere. Erano gli altri che se ne occupavano
per me, non oso dirlo ma vivevo un po' come un pazzo.
Ma era capace comunque
di andare a comprare il pane o il latte...
No, perché non erano il mio pane o il mio latte,
era il pane degli altri che lo dividevano con me. Non
ero mai io ad avere contatti con il panettiere o il lattaio.
Allora non ci ero più abituato, ero incapace di
andare a comprare il pane. O meglio facevo fatica ad andarci.
Avrei potuto farlo, ma a forza di non fare qualcosa, si
finisce per non saperlo più fare. Esattamente come
quando non si usano i sensi, li si perde.
E questi altri
di cui lei parla, chi erano?
Erano miei amici, gente che avevo conosciuto dai miei
genitori, che mi hanno accolto quando sono tornato dalla
Germania e si sono presi cura di me perché gli
piacevo.
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