I miei
amici avevano il grammofono
André Sève –
Mi hai detto d’essere stato “segnato”
dalla canzone molto presto, fin dall’infanzia…
Georges Brassens – In casa nostra cantavano tutti, mio
padre, i miei nonni, mia madre, mia sorella. Devi partire
da qui: in casa cantavano tutti e, di conseguenza, se penso
a me bambino, mi sento cantare fin dall'età di quattro
o cinque anni. Cantavo le canzoni che si usavano allora, soprattutto
quelle che cantava mia sorella.
Tua madre era italiana?
Sì, di Napoli. E mio padre era di Sète. Così,
si cantava 'O sole mio insieme ad arie d'epoca o
d'operetta, si mescolava Si l'on ne s'était pas
connus con Salut, demeure chaste et pure, Santa
Lucia con Fascination. Cantavamo continuamente
senza farci troppe domande su quel che cantavamo.
Una famiglia “canterina”
Proprio così. E poiché ero il più giovane,
andavo in giro a imparare altre canzoni, perché anche
i miei amici avevano il grammofono. Andava molto di moda,
il grammofono, tra il 1920 e il 1930. Sentivo una canzone
che mi piaceva, mi mettevo a cantarla a casa mia e mia madre
diceva: “Che cos'è? È bella, dovresti
insegnarmela”. Tornavo dall'amico per copiare le parole,
oppure mi facevo prestare il disco. Mia madre imparava in
fretta, era una vera militante della canzone. A quel punto,
arrivava mia sorella dall'ufficio, sentiva la novità
e hop! ci si metteva anche lei, e dopo di lei tutti gli altri.
In fondo, eravamo tutti dei militanti della canzone. Per esempio,
andavo dietro a mio nonno, in giardino. Cercava di tirar su
qualche rosa, ma è difficile, a Sète: c'è
troppo sole e poca acqua. Ad ogni modo, lo sentivo canticchiare
un motivo, e quell'aria mi entrava subito in testa; le tenevo
a mente con molta facilità, le melodie. Mia madre mi
sentiva canticchiare e m'insegnava le parole.
Era comunque lei la
più patita di canzoni?
Sì, senz'altro. Imparava sistematicamente quelle che
le piacevano e, non disponendo dei mezzi che esistono oggi,
chiedeva alle amiche di passarle le parole che eventualmente
le mancavano e le annotava poi su un grosso quaderno. E cantava,
cantava! Vivevo immerso in un bagno di canzoni, e così,
fatalmente, dato che ho avuto la fortuna d'essere stato allevato
da mia madre, l'ho sempre sentita cantare, fin dai miei primi
anni: cantava mentre cucinava, mentre lavava, mentre stirava...
Pensa un po' che ricchezza di repertorio!
Il
piacere particolare della musica
(…) E quasi tutte le
canzoni, dal 1930 al 1940, da quando avevo nove anni a quando
ne avevo diciannove, mi hanno dato qualcosa dal punto di vita
della musica. E com'ero avido! Ogni musica era una festa.
Tutto ciò legato
al fascino dell'infanzia.
Difficile spiegare. Come una sorta di vibrazione interiore,
qualcosa di intenso che non riesco a tradurti, un piacere
che sembra appartenere al campo della sensualità. E
la sola cosa in terra che mi dà questo piacere particolare
è la musica. Non lo provo leggendo un testo che mi
piace, né vedendo passare per la strada una donna di
mio gusto o assistendo a uno spettacolo che giudico buono...
No, solo la musica mi dà quel brivido particolare.
E sono molto eclettico, in questo campo; mi capita di lasciare
di stucco la gente che mi apprezza perché sostengo
di amare questo o quel successo di oggi o di ieri che non
sembra corrispondere ai miei gusti, ma il fatto è che,
semplicemente, ascoltando quella musica, ho sentito quel certo
brivido.
Dici “quella
musica” e non “quella canzone”...
Ma mi stai seguendo? Riuscirò mai a farti capire che
attribuisco più importanza alla musica che alle parole?
Ma... e i testi?
È diverso! Io parlavo delle canzoni degli altri. Per
quel che riguarda le mie, è un altro discorso, sono
un autore e cerco di scrivere dei testi che siano dignitosi.
Ma se si tratta di ascoltare canzoni, quelle degli altri,
il mio piacere viene solo dalla buona musica. Se voglio anche
delle parole che funzionino, mi leggo Verlaine, Baudelaire.
Sedurre
sotto sotto, furtivamente
(…) Mi sono creduto
capace di scrivere versi. Nella mia presunzione, ho pensato
d'essere un poeta. A Parigi, mi ero rimesso a comporre canzoni
– e cioè musica, essenzialmente, come ti ho già
detto – ma dicevo a me stesso: “Distinguiamo:
farai delle canzoni per guadagnarti da vivere, scriverai delle
sciocchezzuole come queste per le tue musiche... Ma, contemporaneamente,
scriverai un'opera poetica, geniale”. E mi sono messo
a studiare la versificazione. Imparavo l'arte di far versi
non per le mie canzoni ma per un'opera poetica.
Tu ami le mie canzoni e, proprio per questo, automaticamente,
la loro musica ti entra dentro e ti piace senza che tu neanche
te ne renda conto. Guarda, prendo la chitarra e ti canto proprio
i testi che ti piacciono di più ma su u'altra musica,
vedrai...
(Canta, ma su una musica diversa: “La Camarde, qui
ne m'a jamais pardonnné – D'avoir semé
des fleurs dans les trous de son nez – Me poursuit d'un
zèle imbécile”.)
Ho capito!
Vedi? Sei sensibile al fascino della mia musica anche tu,
ma senza saperlo. Questa è la mia vittoria! Sedurre
sotto sotto, furtivamente... La gente crede che la mia musica
sia inesistente ed è proprio quello che voglio, voglio
che sia discreta, come una musica da film.
Conclusione: si va
direttamente alle parole.
Sì, ma dire “La vera musica di Brassens sono
le parole” è sbagliato! Nella mia musica c'è
qualcosa di intimamente legato alle parole e che le rende
affascinanti. Cerca un po' di cantare Le gorille
su un'altra musica!
Quando
la mia musica e la mia poesia si sono incontrate
(…) Dal 1940 al 1944,
ho scritto pressappoco un centinaio di canzoni e tre o quattrocento
poesie che non avevano alcun rapporto con le canzoni; queste,
però, erano notevolmente migliorate dal punto di vista
del testo, perché i miei studi sui poeti e i miei personali
tentativi in campo poetico mi avevano ovviamente dato modo
di migliorare i testi delle canzoni.
Già, e così mi sono detto: “Stupido che
sono, perché scrivere cose insignificanti da una parte
e opere geniali dall'altra?” Aspetta, però: quando
dico “geniali” devo anche confessare che, a quel
punto, mi sono reso conto di non avere un vero talento. Era
dura, ma mi sono detto: “Lascia perdere, non sarai mai
un grande poeta, un Rimbaud, un Mallarmé, un Villon.
Cambia strada. Perché non mettere in musica le tue
stesse poesie? Poesie che forse non toccheranno le vette del
sublime ma daranno luogo a canzoni decenti, non troppo mal
scritte”. Così ho fatto la La mauvaise réputation,
Le fossoyeur, Le parapluie, La chasse
aux papillons... Volevi sapere quando è nato il
Brassens autore di canzoni? Eccoti servito! Quando la mia
musica e le mie poesie si sono incontrate.
Sei un uomo per il
quale “libertà” è una parola che
dice tutto. Detesti ogni tipo di autoritarismo, di costruzione.
Ah! Questo sì! È una delle poche cose che non
riesco a sopportare nelle persone che incontro. È molto
difficile che possa diventare amico di qualcuno che cerca
d'imporre la sua volontà agli altri.
In gioventù
hai creduto negli ideali anarchici, hai persino collaborato
al Libertaire...
Sì, ho scoperto in quegli ideali molte cose che avevo
dentro e non sapevo come definire. Priorità assoluta
alla libertà... Pensieri che mi erano familiari. Non
sono il tipo adatto a spiegarti quelle teorie, è come
un attaccamento viscerale alla libertà, una rabbia
profonda quando si vedono uomini che vogliono imporre qualcosa
ad altri uomini. Ma, vedi, il mio processo creativo va in
senso inverso rispetto a quello che tu mi vuoi far prendere.
Rifiuto il gruppo o
la setta irregimentata
(…) Quando qualcuno
vuole spiegare la libertà in una canzone, non fa più
una canzone, fa della propaganda. Io sono esattamente il contrario
di questo, mi sarebbe piaciuto scrivere canzoni senza nessuna
morale. Mi piacerebbe saper giocare così con le parole,
ma so che ci infilo dentro qualcosa di più, nelle mie
canzoni. E così, punto e basta. È la mia morale,
quella che ci infilo dentro. “Morale”, comunque,
è una parola grossa: la uso per farti piacere.
Ma devi prendermi come sono: amo la canzone, amo le parole,
amo le note, strimpello la chitarra, racconto delle storie
a degli amici... Si dà il caso che abbia letto parecchio,
che abbia maturato delle idee, che abbia visto delle cose
che mi sono piaciute e altre che mi sono dispiaciute, tutto
questo mi è dentro e, un bel giorno, è uscito
fuori in una canzone. Come una vacca al pascolo che rumina
l'erba e questa, poi, diventa latte. Non devi chiederle di
spiegare il suo latte, devi solo berlo.
Brano tratto
da Attenti al gorilla di Nanni Svampa
e Mario Mascioli (Lampi di stampa, Milano 2012). Traduzione
dal francese a cura degli autori.
Quando si parlava degli
operai, hai detto che hanno ottenuto molto unendosi, eppure
nelle due canzoni biasimi sempre il plurale: “Il plurale
non vale niente per l'uomo e appena siamo più di quattro,
diventiamo una banda di stronzi”.
Attenzione! Mi piace il pensiero solitario, detesto il gregge,
ma questo non ha niente a che vedere con i necessari sforzi
collettivi. Se ho bisogno di amici che mi aiutino a spostare
una pietra, li chiamo. Non siamo stronzi se ci uniamo per
trarre in salvo degli uomini sepolti in una maniera. Ma rifiuto
il gruppo o la setta irreggimentata e nessuno riuscirà
a convincermi che si pensa meglio quando mille persone urlano
tutte la stessa cosa. Quando ci si riunisce per pensare e
dettare regole di comportamento, la setta non è lontana.
Ma forse non hai capito bene Le pluriel. Le canzoni
bisogna ascoltarle in modo intelligente. Non sono contro il
plurale di reciproco aiuto, sarebbe pure egoismo. Il mio individualismo
di anarchico è una lotta per pensare liberamente, non
voglio che un gruppo mi detti legge. La mia legge, me la faccio
da me. Siamo il risultato di quanto ci è stato dato,
di quanto vediamo e sentiamo. Non posso pensare da solo, ma
non voglio abdicare davanti al pensiero di un gruppo e neppure
di un maestro.