A
la gare comme à
la gare
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Chiunque abbia fatto l’insegnante
precario 30 anni fa (ma forse anche oggi) nella provincia
di Milano (ma forse anche in altre province) può vantare
una cospicua esperienza di treni, autobus e mezzi di trasporto
provvisori e improvvisati dai quali
negli anni ha subito vari
e fantasiosi abusi. Erano tempi eroici. L’insegnante
precario, spesso vestito in modo inadeguato (da seminarista,
da sciatore, da figlio della rivoluzione o da missionario)
si aggirava nell’hinterland, balzando da una littorina
a un autobus, calato nell’incospicuo ruolo di docente
fuori graduatoria: definizione curiosa, quest’ultima,
che alla lettera significava essere un fuori-classe: nel senso
che in classe si riusciva a entrarci di rado, e in genere
a pezzi.
A volte, ci si radunava in equipaggi con organizzazione paramilitare,
che si
strutturavano per spostarsi insieme e in macchina,
in modo da risparmiare spese e tempo. Di norma la macchina
era: una ‘500 ereditata dal padre, che a sua volta l’aveva
ereditata dallo zio; una 126 dove si tentava regolarmente
di entrare in cinque (i sovrappeso erano discriminati ed esclusi
dal passaggio); quando andava di lusso, una Diane decappottata
(nel senso che sarebbe stata decappottabile, ma la capote
era andata da tempo). Si divideva la spesa della benzina,
ma se si bucava una gomma, nessuno sapeva cambiarla: eravamo
intellettuali, dopotutto. In alcuni casi, si gestiva il mezzo
meccanico ricorrendo a pratiche magiche che sono ancora del
tutto inspiegate. Ricordo di aver fruito di alcuni passaggi
su una macchina che si spegneva a ogni semaforo rosso. Per
farla ripartire, era necessario che le due portiere anteriori
fossero sbattute nello stesso momento; naturalmente non sono
in grado di fornirvi la spiegazione scientifica del fenomeno,
ma posso dirvi che funzionava. Io e il mio collega eravamo
un po’ bizzarri nel nostro procedere “a farfalla”
da un semaforo all’altro, ma alla fine si arrivava puntuali
a lezione.
È evidente che questo genere di condivisone molto stretta
ha avuto alcuni effetti collaterali. Per esempio si sviluppavano
di frequente affaire amorosi che duravano di norma il tempo
della supplenza. Credo che vi fu anche un’impennata
di tresche peccaminose, nate soprattutto in conseguenza della
prossimità coatta e che altrimenti non sarebbero mai
neanche cominciate: come diceva mia nonna, l’uomo è
peccatore. I pettegolezzi fiorivano, la socializzazione non
era cosa da fb. Non c’era nulla di virtuale; al contrario
tutto era molto fisico e a tratti sudaticcio. Non so se fosse
meglio o peggio di ora, però, ecco, credo che la propensione
endogamica della classe insegnante sia stata in quel momento
e nella provincia di Milano in uno dei suoi picchi storici.
Anche la psicosi da deportazione tipica della classe insegnante
ha conosciuto una popolarità rilevante, ma questa è
già una notizia meno positiva.
Ricordo di aver accettato una supplenza a Castano Primo abitando
alla periferia di Sesto S.Giovanni, quando ancora non c’era
il metrò e io non avevo la macchina. Mi alzavo alle
5 meno un quarto del mattino, per prendere un autobus alle
5,30. Arrivavo al metrò a Milano. Il metrò mi
portava alla stazione di Cadorna, dove prendevo un treno delle
ferrovie Nord e di conseguenza precipitavo all’istante
nel vecchio West. Le carrozze erano mammuth neri, con panche
di legno logore e scomodissime e che ben si affiancavano al
biglietto preistorico: un rettangolino di cartone color mattone,
durissimo, che il controllore forava con una specie di trivella
a mano. Il treno impiegava circa un’ora e mezza per
raggiungere la steppa lombarda estrema. Facevo un paio d’ore
di lezione (perché non era neanche una cattedra intera,
ma uno spezzone monco) e poi tentavo di riprendere il mio
treno del West, e comunque arrivavo a casa stremata, che era
già buio. Non mangiavo una cippa, perché la
mia compagna d’appartamento era messa peggio di me e
non si aveva tempo di far la spesa.
Poi è arrivata la civiltà. I treni si sono metamorfizzati,
nei prezzi anche se non sempre nelle carrozze. Leggere l’orario
oggi è come scorrere la classifica di un torneo di
tiro con l’arco: frecce in ogni dove. La metafora del
West funziona ancora, ma questa volta ad averla vinta sono
gli Indiani, con una nemesi storica non destituita di un suo
senso di giustizia. Le Frecce sono di due colori: rosse e
bianche. Nere no, perché il partito fascista è
stato abolito da tempo, senza che per questo sparissero le
destre. Le Frecce sono costosissime e veloci come un aereo.
Ma per essere veloci, devono saltare parecchie stazioni: il
che inevitabilmente determina la desolazione del pendolare.
L’altro effetto collaterale è che le linee non
coperte da Frecce sono state dimenticate, e con loro le stazioni
dove non è prevista fermata. La settimana scorsa ho
avuto diversi momenti psicotici mentre tentavo di prenotare
un treno per San Benedetto del Tronto, che non è esattamente
un villaggio, ma siccome non vi si fermano Frecce rosse, esso
è scomparso dai tabulati. Ricordo con chiarezza il
momento di smarrimento che ho provato quando, una volta digitato
il nome della mia città d’origine nella casella
“destinazione”, il sistema mi rispondeva che il
luogo di destinazione era ignoto. Ho pensato che la città
fosse stata cancellata dalle mappe, e con lei i miei genitori.
Quando finalmente il bigliettaio umano mi ha confermato che
la stazione esisteva ancora, ho pagato 250 euro circa per
due biglietti di seconda classe per San Benedetto del Tronto.
Andare a Londra costa meno.
Naturalmente, in questo universo lucido, veloce ed efficiente,
non tutto funziona. Il 7 ottobre 2011, ad esempio, dovevo
andare a Desenzano a presentare un libro. Per fortuna sono
partita con parecchie ore di anticipo. Il mio treno è
stato annunciato con 20, poi 30, poi 60 minuti di ritardo.
Poi l’hanno soppresso. Mentre stavo cercando di decidere
se tornarmene a casa, una vocina tenue ha detto che i passeggeri
per Desenzano dovevano prendere un treno per la Stazione di
Rogoredo, dove avrebbero trovato una coincidenza. Frotte di
disperati che avevano visto soppressi vari regionali per Desenzano
si sono murati su un treno per Rogoredo, dimostrando come
una carrozza da 30 posti possa in realtà contenere
anche 123 esseri umani. Scesi in questo luogo marginale, i
passeggeri non hanno trovato una cippa. Ancora quaranta minuti
di attesa, su una banchina strettissima. Poi una vocina ha
annunciato che il treno aveva 60 minuti di ritardo. Incerta
se uscire a comprare un fucile, ho poi deliberato che invece
avrei investito i miei risparmi in una bottiglietta d’acqua:
l’ansia disidrata più del deserto. Stavo uscendo
dalla stazione, quando una vocina ha annunciato che il treno
era pronto al binario 7. Tra manifestazioni di giubilo, masse
di passeggeri si sono scapicollate verso il binario. Alcuni
inermi sono stati festosamente calpestati. I sopravvissuti
si sono stratificati su un treno che è partito in anticipo
rispetto al ritardo annunciato. Alcuni passeggeri rimasti
a piedi si sono messi con lena a smontare i binari. Non so
come sia finita. Per parte mia, sono arrivata a Desenzano
lievemente in ritardo rispetto all’orario previsto per
la presentazione, provata come se fossi stata in battaglia
e puzzolente come un carrettiere. Una scrittrice da treno,
appunto.