Il tema dell’antipolitica
attraversa il dibattito pubblico, specie in occasione delle
tornate elettorali. Il termine, che sia assunto con orgoglio
o utilizzato con disprezzo, gode delle medesime ambiguità
di quello di cui è la negazione.
Si parla di antipolitica sia che si segnali la disaffezione
dei cittadini verso la cosa pubblica, sia quando si indica
il distacco progressivo dal sistema dei partiti. Se la politica
è il luogo della polis, l’antipolitica diviene
indice di qualunquismo, egoismo, esperire di soluzioni individuali
alle questioni sociali. Se la politica è weberianamente
l’ambito della conquista e del mantenimento del potere
e dell’esercizio legittimo delle forza, l’antipolitica
può essere il luogo dove la polis reclama il suo spazio
contro il dominio.
Il mescolarsi dei significati è indice della natura
squisitamente politica dell’invettiva contro l’antipolitica.
Ma non solo. È anche il segno di complessi intrecci
semantici che rimandano ad una prassi in cui la spinta alla
polis come luogo della partecipazione si esprime e si comprime
in modalità populiste che ne ridimensionano la portata
. Negli ultimissimi anni l’invettiva contro i partiti
– corrotti, corruttibili, irriformabili, casta –
la spinta alla “pulizia”, alla riforma democratica,
si è spesso incarnata in movimenti segnati dall’emergere
di leadership carismatiche che di fatto riproducono le modalità
di intercettazione del consenso tipiche della seconda repubblica.
In questo senso la parabola finale del berlusconismo ci aiuta
ad afferrare meglio le radici di quel che è accaduto
nel nostro paese nei vent’anni che hanno chiuso la parabola
del Novecento. Vent’anni che le anime belle di una sinistra
borghese, intellettuale e snob hanno vissuto come un flagello
morale. Hanno puntato l’indice sul potere mediatico
acquisito dall’uomo di mediaset, senza accorgersi che
Silvio, da buon salumaio, ha offerto quello che sondaggisti
e analisti di mercato gli suggerivano come desiderio condiviso.
L’Italia di Bossi e Berlusconi
Tutto è cominciato con le casalinghe che si calavano
le mutande su Canale 5: la nemesi dell’Italia democristiana,
quella delle ballerine con le calze nere per volontà
della Chiesa cattolica. La nemesi dell’Italia antidemocristiana
che aveva soffocato la spinta libertaria degli anni Sessanta
e Settanta, costruendo caserme intorno ai movimenti sociali
con il pretesto del terrorismo. La nemesi del togliattismo
che chiude la propria parabola passando dal “compromesso
storico” al Partito Democratico.
L’Italia scorreggiona, patetica, triste, ironica di
certa commedia degli anni cinquanta e sessanta era un’Italia
che si vergognava un po’ del proprio costume provinciale,
campanilista, popolare, ignorante, egoista, individualista,
sessista. L’Italia, che passa la boa degli anni ’80,
segna la fine della sobrietà in bianco e nero ed approda
al tecnicolor: da Drive in alla “realtà spettacolo”,
quando il fuori scena diventa ir-realtà vissuta. Vera
pornografia dei sentimenti e delle relazioni.
Il governo viene gestito da un buffone tragico come Berlusconi
perché il Cavaliere ha saputo incarnare mirabilmente
le aspirazioni di tanti: l’uomo che si fa da sé,
che diventa miliardario e si esibisce come un poveraccio con
l’auto nuova, che va a puttane e se ne vanta, che vede
comunisti dove nessuno si sognerebbe di scovarne neppure l’imitazione,
diviene insieme specchio e modello. Riflesso di se ed aspirazione
a diventare quello che si è già. Mescolateci
insieme le canottiere di Bossi, i cappi, i diti medi, il fragrante
turpiloquio da bar che entra nella scena politica ed il gioco
è fatto.
L’Italia di Bossi e Berlusconi è stata –
è – un’Italia antipolitica, e, insieme,
apoteosi della politica, nei due sensi confliggenti del termine.
Lo sfaldarsi del partito novecentesco, di massa e di apparati,
porta al modello aziendalista, snello, leggero la cui cifra
è l’assenza di un programma chiaro e di un modello
preciso. Il governo dei “liberali” ha corrisposto
con un secco appesantimento dello Stato: moltiplicarsi e razionalizzarsi
dei meccanismi disciplinari e aumento della pressione fiscale
nonostante la riduzione di servizi e tutele. Il partito/azienda
come il partito/famiglia si reggono su leadership carismatiche:
la personalità, poco importa se reale o costruita mediaticamente,
diviene il fulcro sul quale si raccolgono i consensi. La forza
– come la debolezza – di questo modello è
nei Berlusconi e nei Bossi. Il tutto, machiavellicamente mescolato
alla convinzione andreottiana che il potere logora solo chi
non ce l’ha, spiega anche l’arroganza impudica
del loro agire: che si tratti di prostitute minorenni o degli
affari di famiglia del leader della Lega.
Berlusconi in particolare ha anche giocato in modo pesante
la carta della democratura, basata sull’assunto dell’insindacabilità
dell’investitura democratica, che finisce con l’assumere
alcune delle caratteristiche della regalità. Solo la
forza del partito trasversale e transnazionale degli affari
l’ha obbligato ad abdicare.
Grillo è l’antiberlusconi e insieme la sua apoteosi.
Da attore gli ruba la scena e la occupa tutta, straripando
con le proprie invettive. Populismo, giustizialismo e spinta
alla partecipazione diretta si mescolano nel movimento fondato
dal comico genovese.
È un partito non partito, leggerissimo e insieme rigido,
perché imprescindibile dalla leadership carismatica.
Tra liste civiche e comizi spettacolo, riunioni virtuali e
le poltrone reali, c’è un mescolarsi spurio di
elementi diversi. Una miscela intrinsecamente pericolosa,
perché alimenta la speranza in una democrazia dal basso,
senza avere un programma chiaro, al di là delle intollerabili
pulsioni giustizialiste. Il suo unico nutrimento è
la linfa che viene erogata dalla leadership.
All’alba del secondo decennio del secolo i contorni
del partito politico novecentesco si fanno via via più
sfumati, prevalgono formazioni leggere, ma non per questo
meno autoritarie.
Un pizzico di democrazia diretta
Su di un altro versante la parabola della sinistra parlamentare
si è conclusa nell’inessenzialità politica
e sociale, aprendo spazi sempre più ampi ad un’opzione
più marcatamente libertaria.
La carta del realismo politico ha portato Rifondazione alla
debacle: diventare complice attiva delle peggiori porcherie
in cambio di qualche poltrona non è stata una mossa
troppo azzeccata. La formazione che ha raccolto l’eredità
del Partito Comunista si è così condannata al
declino e alla infinita scissione.
Tuttavia, occorre riconoscerlo, certa sinistra ha una capacità
infinita di proporre nuove formule, nuovi carrozzoni, nuovi
percorsi nomadi per l’eterno gioco delle poltrone.
Abbandonato – o messo temporaneamente in naftalina –
l’arcipelago di isolotti della diaspora comunista, il
solito gruppo di intellettuali si è messo al servizio
della politica. O, se preferite, dell’antipolitica a
seconda dell’accezione nella quale usate il termine.
Ne è scaturito un appello per un “nuovo soggetto
politico”, un appello pieno di tutto e pieno di nulla,
un costrutto che assume il lessico dei beni comuni ma evita
con cura il tema dei beni in comune, che riconiuga in modo
abile e assieme appassionato la questione dei diritti e delle
tutele, e, con destrezza, si sbarazza dell’ingombrante
tradizione rivoluzionaria, mettendo al centro la Costituzione
della Repubblica Italiana, da restaurare al più presto
nella sua integrità.
Un pizzico di democrazia diretta, una buona spruzzata di demagogia
referendaria, una robusta dose di welfarismo e un mucchio
di fumo per coprire il nodo dei nodi, quello della politica
che conta, conta perché decide/comanda nel senso weberiano
del termine. Hanno fatto un’assemblea – 7 minuti
a intervento – e hanno dato il nome al “nuovo
soggetto politico”, un nome potente, evocativo anche
se di sapore vagamente ottocentesco. L’hanno chiamato
“ALBA”, l’acronimo sta per “Alleanza
Lavoro BeniComuni, Ambiente”. Programmi? Beh…
quelli li decideranno poi.
Come se qualcuno comperasse il regalo dopo aver preso la scatola
per imballarlo. Ingenui? Cialtroni? Furbi? Forse un po’
di tutto questo e fors’anche convinti, con sensibilità
probabilmente autentica, che l’afflato morale che anima
i movimenti per il welfare, l’ambiente, i diritti sia
in se un collante sufficiente.
Decideranno poi se, come e con quali regole di ingaggio andare
alle elezioni. Probabilmente la dialettica cominciata con
la sinistra “classica”, da SEL a Rifondazione,
determinerà la scelta finale. La possibile fusione
tra SEL e il PD, auspicata dal partito di Repubblica, potrebbe
accelerare la nascita di un partito/non partito dei movimenti.
Perché, qualora non fosse già chiaro, il puntello
dell’intera operazione sono i movimenti sociali, supposti
eternamente orfani di tutela/rappresentanza politica. Come
non ricordare il moltiplicarsi dei social forum nati dopo
il G8 del 2001 a Genova, che si incaricarono con diligenza
di seppellire un movimento che, nel nostro paese, non era
mai nato davvero se non nelle fucine della solita ammucchiata
di partitini, associazioni, sindacati grandi e piccoli, centri
sociali più o meno embedded, che animarono il Genoa
Social Forum. Da allora però di acqua sotto i ponti
ne è passata parecchia. La situazione sociale nella
quale siamo immersi è difficilissima. In questi dieci
anni guerra, repressione, erosione di libertà e tutele,
precarietà e pericolosità del lavoro hanno segnato
le poltiche dei governi che si sono succeduti.
I padroni stanno combattendo e vincendo una violentissima
guerra di classe, senza che vi sia una risposta adeguata alla
gravità del momento. Politica e antipolitica sono andate
felicemente al governo: i tecnici di Monti, sostenuti in maniera
conflittualmente bipartisan dal centro destra e dal centro
sinistra, stanno coniugando una marcata attitudine disciplinare
alla scelta netta di eliminare qualsiasi forma di ammortizzazione
sociale.
Esperienze di esodo
In questo contesto gli spazi per un riformismo “illuminato”
proprio non ci sono.
D’altra parte i movimenti che l’ALBA conta di
convogliare sono saldamente radicati nel territorio, attuano
già forme di riappropriazione dal basso della polis,
sanno coniugare autogestione e conflitto, sono consapevoli
che la posta è altissima e il governo non sta facendo
sconti a nessuno.
Sarebbe un vero peccato che la spinta alla polis che anima
questi movimenti venisse convogliata nell’ennesimo gioco
di potere.
Non c’è vera polis senza messa in comune dei
beni. Quest’assunto tipicamente anarchico è la
sola risposta possibile alla retorica dei beni comuni –
sempre affidati alla logica statuale – al piagnisteo
sulla riformabilità della democrazia e sul capitalismo
dal volto umano.
Ma quest’assunto in se non basta, non può bastare.
Chi vive ed attraversa da protagonista i movimenti sociali
vuole risposte concrete a questioni concrete. Occorre impedire
che la radicalità sociale dei movimenti si infranga
sul nodo della politica, facendoci assistere all’eterno
ritorno dell’eguale, un’ALBA che ha in sé
il tramonto.
Servono intelligenza e impegno per costruire, nel conflitto
I movimenti sociali sono oggi innervati da potenti istanze
libertarie, che possono trovare spazi di sperimentazione non
istituzionale, se sapremo aprire interlocuzioni durature e
fare proposte adeguate alla sfida. Una scommessa difficile
ma ineludibile.