percorsi di
vita
a cura di Alessio Lega
Lo
statuto dei Gabbiani
di Horst Fantazzini
1) I gabbiani sono nati per volare liberi.
È l'amore e la gioia di vivere che determina il loro
essere sovversivi. 2) Con il loro comportamento essi insegnano
a volare agli altri uccelli, senza la presunzione d'essere l'avanguardia
di chicchessia. 3) Essi si cercano e si trovano in base alle
affinità comuni e non accettano regole all'infuori delle
proprie passioni, dei propri desideri e del loro piacere di
vivere e di volare insieme. Su questa base si uniscono in piccoli
stormi d'affinità, federati tra di loro, per vivere e
volare insieme e per lottare contro tutto quanto umilia il senso
della vita e della libertà. 4) i gabbiani praticano il
mutuo appoggio e quindi s'impegnano ad aprire e rompere le gabbie
dove sono rinchiusi i gabbiani e gli uccelli. 5) Con questo
articolo si annullano i precedenti quattro ed eventuali futuri
articoli, perché i gabbiani non riconoscono statuti,
né leggi, né regolamenti, né forme programmate
d'esistenza, all'infuori del loro piacere di volare liberi.
tutto il precostituito e il programmato non fa che limitare
e umiliare la vita.
Questo lo Statuto dei gabbiani. Persino questo statuto
solidale e solitario, persino questo andava rifiutato, perché
nessuna regola può essere approvata e definita una volta
per tutte.
È un breve testo – fortunosamente recuperato alla
dispersione – che ora fa parte e dà il titolo al
libro che compendia “tutte le opere” di Horst Fantazzini,
anarchico e bandito, ribelle incoercibile alle gabbie, ma che
per quasi tutta la vita in gabbia è stato costretto a
vivere e che, per un insulto beffardo del destino, uscito alla
fine dopo tanti anni, in una libertà che nel nostro mondo
non gli doveva sembrare più tale, in gabbia è
morto.
Non era un “bandito gentile”: definizione giornalistica
che gli era stata appioppata al tempo delle sue prime rapine
fatte con pistole giocattolo. Horst Fantazzini, era un uomo
che si era dovuto fare bandito, forse per troppa gentilezza.
La sua passione, la sua attenzione nello spiegare riga per riga,
passaggio per passaggio, il senso e la ragione del suo agire,
è un chiaro segno del rispetto per chi legge le sue parole,
e dunque per ogni ipotetico interlocutore. È forse questo
che colpisce innanzi tutto del suo stile.
Necessaria era la ripubblicazione di Ormai è fatta
– il pezzo forte che apre questa raccolta di scritti
– il racconto del suo rocambolesco tentativo di evasione
dal carcere di Fossano nel 1973, che ci pone sotto gli occhi
una delle più belle e ritmate narra-azioni che si possano
leggere. Ormai è fatta. Cronaca di un'evasione
fu pubblicato nel '76 dall'editore di “movimento”
Bertani, per interessamento di Franca Rame, con una meravigliosa
prefazione di Franca Basaglia. Commovente l'introduzione scritta
all'epoca da Anna, la prima compagna di Horst, la madre dei
suoi due figli, per sfamare dignitosamente i quali, da operaio
s'era fatto bandito. Questo libro divenuto celebre all'epoca,
ricomparso in forma di un film col medesimo titolo nel 1999,
era sostanzialmente rimasto introvabile.
L'ultima cosa che voglio fare è quella di contribuire
al “mito” di Horst. Horst non è un esempio
di vita, non avrebbe mai nemmeno desiderato di esserlo. È
però senz'altro un esempio della rettitudine ideale che
un uomo – pochissimi uomini per la verità –
si può portar dietro, anche nella buia zona del chiuso
carcerario.
Lo voglio dire esplicitamente a scanso di equivoci: penso che
Horst rapinatore sia un ragazzo che s'è messo nella mani
della repressione, un potenziale ribelle imploso per non aver
saputo fare della propria ribellione un'arma contro la repressione,
ma per esserne diventato una vittima designata. Questo fa di
lui un uomo simpatico, non esemplare. Penso che forse Horst
sia un po' colpevole in questo, perché l'esempio di suo
padre, il veramente mitico Libero Fantazzini, partigiano anarchico
e antifascista, incoercibile ribelle eternamente vivo nella
memoria della sua Bologna, gli aveva fornito un tangibile modello...
ma si sa i gabbiani non hanno modelli, devono improvvisare.
Il volo di Horst fu spezzato presto, con una violenza e una
durezza brutale. Assurda la quantità di anni di carcere
(più di 30) affibbiati a questo rapinatore, che non s'era
mai macchiato di reati di violenza, da una giustizia tutta schierata
a difesa delle proprietà e contro gli esseri umani.
Horst che io ammiro è quello che non si rassegna mai
alla gabbia, che colleziona evasioni su evasioni e poi che partecipa
a ogni rivolta possibile e impossibile, ritrovando alla fine
una dimensione collettiva dell'agire. Horst attraversa a viso
alto decenni di carcerazione senza chiedere sconti, senza piegarsi
alla logica del pentimento, della dissociazione, senza compromessi
coi carcerieri. Le sue poesie e i suoi scritti raccolti in questo
libro ci testimoniano un incessante lavorio volto a capirsi
e a far capire. Sono la parte più nobile del suo passaggio:
il riscatto del gabbiano, le parole che un giorno renderanno
palese l'inutilità cieca della gabbia.
Sono parole raccolte con amore da Patrizia – Pralina –
Diamante, curatrice dell'intera operazione editoriale e ultima
compagna di Horst.
Lei, che all'adorato “Pirata Fantazzini” dedica
ancora tante energie, è il suo “lascito”.
Il fatto che il libro della vita di quest'uomo sia aperto e
chiuso dalle parole d'amore delle sue compagne, la dice lunga
sui sentimenti che Horst, bambino affamato d'affetto, aveva
tenuto intatti nelle troppe celle di troppi anni.
Cosa sopravvive di un uomo una volta che si è immerso
per sempre nel fondo scuro della notte? Un corpo sofferente
crivellato di colpi? Un cadavere insultato sul tavolo di marmo?
No, la sua gentilezza, la sua storia, il suo amore.
La
screanza
di Mauro Macario
L'osceno dolore si sparpaglia su carta, s'imprime. Prende nome
di poesia. Sanguina inchiostro. Non pare acquietarsi.
Mauro Macario, il poeta, il dicitore, l'amico di Léo
Ferré e il compagno di strada di molti anarchici - cantori
e no - è uscito dalla sua notte per assestare un'altra
zampata di carta e inchiostro.
Prende nome La screanza questo nuovo libro, la sesta
raccolta dei suoi versi.
Eppure è una raccolta profondamente diversa dalle altre.
Impregnata di un dolore privato, confessato sin dalla prima
lirica - la morte tragica del figlio - questo libro giunge a
una nuova maturità, a una compostezza inedita per quest'autore.
Macario è sempre stato brulicante: di passioni, di idee,
di personaggi, di paesaggi, di parole. Le parole nei suoi libri
precedenti erano assalti, morsi di carne, sputi di veleno, fantasmagorie
di memorie e di avvenire. In questo libro il dolore è
più vivo che mai: dolore del mondo e pena del vivere
ingrato, sembrano toccarsi e congiungersi. Nella tragedia del
futuro strappato da una morte imperdonabile - la morte che fa
il padre seppellitore del figlio - proprio qui, Macario evolve
il suo registro in ebollizione verso un dolore glauco, raggelante,
intensissimo.
La prima poesia Autopsia d'amore, lo dicevamo, è
la descrizione, appena velata di metafora, della reale autopsia
subita dal corpo del figlio. Qui l'antico furore s'affaccia “è
una macellaia di stato” dice del patologo incaricato della
trista incombenza “seziona e ricuce/al mattatoio giudiziario/.../osserva
distrattamente/.../l'estraneo allungato sul tavolo/pronto alla
mattanza/è nessuno/non appartiene alla madre/né
al padre/è proprietà dello Stato/che ne fa libero
scempio”. Eppure, già subito in questa lirica, senza
pronunciare assoluzioni, il corpo e la rabbia vengono ricomposti
nel finale, nella calma di un dolore ammesso e infinito.
Non smette di essere poeta politico Mauro Macario in questo libro,
le riflessioni sulle sorti del mondo ci sono sempre, ci sono i
giudizi, l'indignazione. Una meravigliosa poesia di disillusione
Pioggia a Big Sur e mille scintille di rivolta. E tutto
alla fine si riconcilia nel Tao del quale, sulla scorta dei maestri,
Mauro si appropria alla sua maniera, mai del tutto riconciliato,
funambolo in cerca di un doloroso equilibrio sul presente.
Rosso
è il colore dell'amore
di Mario Bonanno
Una faccia bellissima, franca, aperta. Una voce frontale, indomabile,
che stagliava luce nel buio del teatro Politeama di Lecce. Un
uomo che non aveva paura di scontrarsi col mondo. Un combattente.
Una faccia bella, franca, che non si nascondeva mai all'incontro.
Così mi è riemersa la faccia di Pierangelo Bertoli.
Era un'epoca in cui tutto mi appariva “mitico”. Non
potete capire voi di Milano, di Bologna, di Roma, di Torino...
ma anche voi di Parma, di Ferrara, di Novara cosa fosse per noi
un concerto. Le vostre città – per quanto di provincia
– hanno sempre visto passare gli artisti in tourné,
o, al limite, poche ore di macchina vi separavano dalle grandi
città.
A Lecce, negli anni '80, tutto era lontanissimo. Da Lecce parti
e 4 ore dopo sei arrivato a... Foggia!
E così benedetto era Pierangelo Bertoli che ogni due,
tre anni, con la sua bulimia di serate, con la sua passione
del darsi al pubblico, veniva a farsi vedere da noi appassionati
di canzone d'autore leccesi. Avevo 16 o 17 anni la prima volta.
Bertoli era un uomo esemplare: chi ha potuto incontrarlo ha
avuto la fortuna di misurarsi non solo col suo bel canto chiaro,
con le melodie vitali, con le parole forti e mai arroganti,
ma proprio con lui: con un uomo che canta e non un cantante.
Io ne rimasi così entusiasta che al mattino dopo ottenni
– pensate voi!!! – il permesso di “marinare
scuola” e andarlo a trovare in albergo. Andai con un'amica
di famiglia, lo tirammo letteralmente giù dal letto,
gli portammo una guantiera di dolci – pasticciotti –
per la colazione. Lui s'intrattenne per un paio d'ore con noi,
col suo fare diretto, al limite del brusco. Era fatto così,
anteponeva la passione dell'incontro alla stanchezza, alle ore
di macchina fatte, a quelle ancora da fare.
C'è un libro che me lo ha riportato davanti tale a quale
a come lo ricordo. È appena uscito per Stampa Alternativa,
lo ha scritto Mario Bonanno. È un libro fatto di passione,
d'amore, di dedizione... e anche di rabbia per la facilità
con la quale Pierangelo è stato messo da parte dopo la
sua morte. Non mi stupisce il fatto che un artista che aveva trovato
una sintesi così perfetta fra dichiarata militanza politica
e musica pop sia stato comodamente rimosso dai gestori del mainstream.
Mi stupisce la memoria corta del pubblico che si riconosceva davvero
– l'ho visto coi miei occhi – in quest'uomo del popolo,
in questo poeta diretto e senza fronzoli.
“Rosso è il colore dell'amore” è un
libro corale che, accanto alle parole piene di dedizione dell'autore,
cuce le testimonianze di amici e collaboratori di Bertoli, e
le interviste che lo stesso autore gli fece nel corso di 15
anni. Non è dunque una disamina oggettiva, perché
con un artista così fraterno, così schietto, c'è
poco da essere oggettivi, c'è poco da sottolineare le
tante perle di poesia e qualche rara – ma non inesistente
- caduta retorica. Bertoli va amato, o quanto meno rispettato,
con la sua testardaggine, la sua forza, il suo orgoglio, il
bel viso franco da operaio emiliano. Bertoli va amato con la
sua voce spiegata, le parole semplici, i versi netti. Bertoli
va visto nel dvd allegato al libro, che presenta un concerto
del 1992 inframmezzato da stralci d'intervista. Bertoli va conosciuto
anche da voi che non lo avete incontrato da vivo, e dunque non
potete ricordare che quest'uomo quasi non ti lasciava accorgere
della sua sedia a rotelle, sembrava un gigante buono, sicuro,
incrollabile.
Un uomo che ho avuto la fortuna d'incontrare allora - “quando
avevamo cent'anni di meno” - e oggi, su questo libro.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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