cultura
La
ferriera
occupata
Che la classe operaia sia scomparsa sia da un punto di vista
sociologico che politico, lo si può capire anche dalla
scarsità di ricerche e pubblicazioni che le sono state
dedicate in questi ultimi 20-25 anni.
Alla copiosa produzione degli anni '60 e '70, si è passati
alla rimozione del problema anche da un punto di vista storiografico.
Lo sconquasso istituzionale, la sconfitta dei movimenti, l'egemonia
culturale del capitale sui processi di ristrutturazione del
sistema in tutte le sue articolazioni, hanno accompagnato la
disintegrazione sociale del soggetto operaio come collettività
politica capace di autorappresentazione. In questo quadro, il
libro curato da Mauro Abati e Umberto Ghirardi La nave e
la burrasca. Condizione operaia a Nave dal miracolo economico
alla crisi della siderurgia (Comunità Montana dei
Valle Trompia/Comune di Nave/Brescia, Monografic, 2012, pp.
94, € 10,00) rappresenta una felice eccezione, in quanto
ci ripropone questa parabola partendo da un osservatorio particolare:
l'occupazione, da parte delle maestranze, di una ferriera dell'hinterland
bresciano, la “Fenotti e Comini”, nei primi anni
'80.
Il volume è diviso in due parti: nella prima Abati ricostruisce
questa vicenda all'interno di una cornice spazio temporale più
ampia, mentre nella seconda, l'obiettivo fotografico di Ghirardi
si concentra sull'episodio “dall'interno del movimento”.
Come la ricostruzione del primo autore si avvale delle memorie
di alcuni militanti sindacali “di base”, per narrare
in sintesi l'ascesa e il declino di una realtà industriale
geograficamente periferica ma per niente tale se la si guarda
dal punto di vista delle logiche di sviluppo, culture imprenditoriali,
qualità e livello del conflitto sociale, così
le immagini di Ghirardi ci restituiscono in un bellissimo bianco
e nero, ritratti onesti, persuasivi, in grado di riconsegnarci
una storia di uomini e donne fuori da clichè estetici
in voga in quegli stessi anni, in cui i soggetti ripresi diventavano
spesso comparse di una esibizione sollecitata dall'esterno.
Lo scatto racconta ciò che la parola scritta riesce solo
ad evocare giovandosi della documentazione cartacea e testimoniale.
Una storia collettiva fatta dei corpi dei suoi protagonisti
in cui la “classe”, come monolite sociale e ideologico,
sembra decantarsi riconsegnandoci una realtà umanamente
riconoscibile nei suoi singoli ed irriducibili elementi vitali,
fatta di individualità silenziose, attente, interroganti.
E quando invece la parola è agita, non è più
gridata, nemmeno nei cortei, non è “arma impropria”
di un'indignazione generosa, ma piuttosto forma di pensieri
da condividere, strumento di relazioni dialogiche, di vicinanze
calde. Quei volti rubati dall'obiettivo dentro il piazzale della
fabbrica occupata piuttosto che durante le manifestazioni, ci
restituiscono più che altro le preoccupazioni, le attese,
le domande, ma anche i sorrisi divertiti o appena accennati
dei singoli, che portano l'osservatore a immaginare i loro pensieri
e sentimenti.
Se un senso c'è, è quello dello “stare insieme”,
del condividere, prima che la storia di quella comunità
operaia sconfitta, si perda nei rivoli dei destini individuali.
Partiti in 280, alla fine rimarranno poche decine: i lavoratori
più sindacalizzati, quelli immigrati dal Sud, gli anziani
e gli invalidi. Gli altri troveranno nuove occasioni ricollocandosi
nelle altre aziende della zona. Nave - questo il nome del paese
al centro della ricerca - tra gli anni '50 e '70 si farà
“nuova frontiera” del “miracolo economico”
della provincia bresciana: da paese agricolo, nell'arco di vent'anni,
diventerà la capitale delle mini acciaierie più
famose nel mondo, ma anche di uno sfruttamento intensivo della
forza lavoro, di un uso scriteriato del territorio, di amministrazioni
locali prone alle volontà di questi particolari “padroni
delle ferriere”, di leggi trasgredite e contratti non
rispettati, di una catena senza fine di infortuni sul lavoro,
anche mortali. E tutto ciò accompagnato da un ostentato
livore antisindacale che troverà sponde politiche in
un neofascismo non estraneo alla strage del 28 maggio del 1974.
La solidarietà che si costruirà attorno a questa
lotta, vedrà momenti alti ma anche sempre più
marcate prese di distanza. Da esperienza positiva di resistenza,
sarà negli anni additata a esempio negativo, usato dai
padroni come ricatto e visto da alcuni settori operai come anticipazione
del loro possibile destino. E così sarà.
La crisi del comparto, le regole sulle “quote” produttive
imposte da Bruxelles faranno il resto. La “grande guerra”
dell'acciaio avrà anche in questa landa siderurgica le
sue vittime, radendo al suolo aziende ed impianti, provocando
come “danni collaterali” lo smantellamento di centinaia
di posti di lavoro. Quello che fu il “regno del tondino”
oggi è un sito di archeologa industriale: lì ci
sono ancora i capannoni di quella ferriera di cui questo libro
parla. Per sempre muta.
Roberto Cucchini
L'esperienza
e il pensiero
di Joyce Lussu
Nelle estati tra il 1984 e il 1998 ha luogo a Fano il Meeting
Anticlericale. Appuntamento libertario e anticlericale organizzato
dagli anarchici e dalle anarchiche del Circolo Culturale Napoleone
Papini, il Meeting nasce come momento di critica radicale al
potere politico della Chiesa cattolica e all'ingerenza di quest'ultima
nella vita degli individui. Festa, spettacolo, dibattiti politici
e culturali tingono di grande vivacità l'appuntamento,
il quale, almeno dal 1991 al 1995, vede la partecipazione di
un'energica Joyce Lussu. Spinta da una critica politica e morale
al ruolo della Chiesa cattolica e da una grande fiducia nelle
possibilità di cambiamento delle nuove generazioni, Lussu
apporta con grande energia la propria esperienza di vita e il
proprio pensiero in riguardo a una vasta gamma di argomenti,
che spaziano dall'antimilitarismo e anticlericalismo fino al
femminismo, all'etica, alla filosofia e a una lucida interpretazione
della storia e dell'attualità sociale.
La Chiesa e l'esercito sono descritti come delle monarchie assolute,
istituzioni “basate sul principio dell'assoluta autorità
e dell'assoluta obbedienza” che permettono nei secoli
l'affermarsi delle oligarchie sulle maggioranze di subordinati;
come “complici e addirittura promotrici di tutti i maggiori
delitti contro l'umanità”, a cominciare dalla conquista
dell'America nel quindicesimo secolo e dal genocidio delle sue
popolazioni indigene, passando per la schiavizzazione dell'Africa,
fino al nazismo e alle guerre più recenti. Altro tema
che si riscontra frequentemente tra gli interventi di Joyce
è quello legato alla questione della donna, collocato
all'interno del più ampio discorso del progetto Osservatorio
delle donne libertarie sugli integralismi, avviato all'interno
del Meeting. “C'è stato un movimento femminista
fino in fondo? Avete mai incontrato una contadina, un'operaia,
una colonizzata che si definisse femminista?”. Questi
alcuni dei quesiti posti dalle riflessioni di Lussu, cui la
ex-partigiana e scrittrice cerca di rispondere con un'argomentazione
che ricorda l'importanza delle donne appartenenti a movimenti
che vengono dal basso e di figure come Louise Michel, “che
le femministe hanno sempre snobbato”. Senza la pretesa
di affermare delle verità, ma anzi con la volontà
di avviare dibattiti con i numerosi giovani che partecipavano
alle sue relazioni, Lussu tocca numerosi tasti dolenti della
società occidentale, cercando di fare critiche che portino
alla nascita di soluzioni concrete, mirate a creare una società
più equa, libera da dogmi di ogni genere e caratterizzata
invece da un concetto di cultura intesa come libertà
di scegliere, di utilizzare la propria intelligenza per partecipare
attivamente alla costruzione sociale.
Al fine di evitarne la decadenza causata dal trascorrere del
tempo, i numerosi interventi di Joyce Lussu al Meeting Anticlericale,
registrati su audiocassette e videocassette, sono stati recentemente
digitalizzati dall'Archivio-Biblioteca “Enrico Travaglini”
(Un'eretica del nostro tempo. Interventi di Joyce Lussu al
Meeting Anticlericale di Fano (1991-1995), a cura di Luigi
Balsamini, introduzione di Mimmo Franzinelli, Gwynplaine Edizioni,
Camerano, 2012).
All'interno di questo volume, il curatore Luigi Balsamini li
raccoglie e li trascrive, puntualizzando nella prefazione la
difficoltà incontrata nel rendere per iscritto degli
interventi orali, difficoltà cui ovvia ripulendo a volte
i periodi, per permettere al lettore una facile lettura e comprensione.
Ogni documento è introdotto da una breve premessa che
lo colloca in un contesto ben definito ed è accompagnato
da note che chiariscono i diversi riferimenti. Oltre all'introduzione
di Mimmo Franzinelli, che ritrae la scrittrice come una figura
estremamente sicura, capace di catalizzare l'interesse degli
interlocutori e di fungere da elemento di stimolo e coordinazione
all'interno dei dibattiti, il testo è arricchito da due
“ricordi di Joyce Lussu”: il primo, Anticlericale
e non solo di Donato Romito e l'altro, Nella calura d'agosto
di Antonia Sani.
Nei nove capitoli di cui è composto il volume emerge
tutta l'energia di una donna che, nonostante l'età avanzata
e i gravi problemi alla vista, ha avuto la capacità di
trasmettere ai giovani che hanno partecipato ai Meeting (ma
anche a chi, come me, non li ha vissuti) un'idea di giustizia
e libertà da cui far partire un radicale cambiamento
sociale.
Pamela Galassi
Per
una storia
del pensiero vegetariano
“In nome di ciò che è sacro nelle nostre
speranze per il genere umano, io scongiuro quelli che amano
la felicità e la verità di fare un ragionevole
esperimento del sistema vegetariano”. Queste parole di
P.B. Shelley sono poste come esergo al volume Che cos'è
il vegetarismo? di Edmondo Marcucci (1900-1963). La recente
ripubblicazione da parte delle Edizioni dell'asino (www.gliasini.it)
di questo libriccino ha un merito: quello di aver indirettamente
posto la questione, in una maniera affatto originale, di una
ricognizione riguardante la storia del pensiero antispecista
(e vegetariano in particolare) in Italia, tutta ancora da indagare
e da raccontare. Il testo in questione è apparso infatti
la prima volta nel 1953 per conto della Società vegetariana
italiana, organizzazione che Marcucci fondò in quegli
anni insieme ad Aldo Capitini.
Questa nuova edizione la troviamo arricchita da una partecipata
prefazione di Goffredo Fofi e da un'altrettanto lucida postfazione
di Annamaria Manzoni, nonché da un'appendice costituita
da alcune pagine animaliste di Aldo Capitini e da altri materiali
(la Dichiarazione universale dei diritti dell'animale e il
Manifesto per un'etica antispecista) che forniscono il lettore
di ulteriori elementi di riflessione sul tema.
Che cos'è il vegetarismo? sviluppa, con grande
anticipo rispetto ai tempi in cui vide la luce (decine di anni
prima delle pubblicazioni di Peter Singer e di Tom Regan), un
ampio discorso riguardante la necessità di rivedere in
modo radicale il rapporto tra la specie umana e le altre, riflettendo,
tra l'altro, sull'illegittimità delle sofferenze inferte
dall'uomo agli altri animali. Come l'amico Capitini, il quale
divenne vegetariano negli anni Trenta in segno di aperto dissenso
verso la visione violenta e totalitaria del fascismo e della
cultura ad esso ispirata, pure Marcucci, che nel medesimo periodo
fu indotto al vegetarianesimo dalla frequentazione di Tatiana
Sukhòtin Tolstoj, figlia dello scrittore russo, motivò
la propria decisione come una forma di opposizione antiassolutistica.
Che cos'è il vegetarismo? si presenta come un
percorso articolato attraverso la letteratura, la religione,
la medicina e le scienze naturali, toccando trasversalmente
i temi della nonviolenza a lui cari. L'opzione vegetariana viene
illustrata da Marcucci non sotto il profilo – alla fine
riduttivo – del benessere salutistico, ma direttamente
dal punto di un'etica antispecista, una radicale presa di distanza
dal totalitarismo antropocentrico e dai suoi fondamenti filosofici
e religiosi (cfr. tutto il paragrafo “Religioni e vegetarismo”).
Non a caso Marcucci riflette, scavando tutti gli esiti possibili,
sulla nota frase di L.Feuerbach – “L'uomo è
ciò che mangia” – con cui il filosofo tedesco,
ponendosi in una prospettiva radicalmente anti-hegeliana, giungeva
a sostenere che noi coincidiamo precisamente con ciò
che mettiamo dentro la pancia.
Rileggendole oggi, le pagine di Marcucci rimangono a distanza
di anni un riferimento importante per tutti coloro che riconoscono
nella sensibilità animale tracce di somiglianze con quella
umana. Come afferma, in fondo lapalissianamente (ma a quanto
pare c'è ancora gran bisogno di simili affermazioni…),
Fofi nella prefazione: “non solo l'umanità soffre
(e certi individui molto più di altri) ma anche gli animali”
e, per queste ragioni, con Marcucci, ci rivolgiamo verso la
“costruzione di una nuova morale”, poiché
crediamo “nel vegetarismo come una delle indispensabili
tappe nella lotta per la difesa della natura e per la dignità
dell'uomo”. Come aveva precedentemente sostenuto Capitini,
“il vegetarianesimo è in stretto rapporto con i
problemi morali e religiosi, ed anzitutto con il problema dei
fini e dei mezzi”.
Ma chi era Edmondo Marcucci? Umbro di nascita, ma marchigiano
di adozione (trascorse a Jesi gran parte della sua vita), studiò
all'Università di Roma, dove conobbe Ernesto Buonaiuti
(ex prete, scomunicato da Pio X, fu uno dei tredici docenti
universitari che rifiutarono di giurare fedeltà al regime
fascista), di cui fu amico e seguace. Divenuto insegnante di
materie letterarie nelle scuole medie, si dedicò allo
studio delle religioni e della nonviolenza.
Risale agli anni Quaranta l'incontro con Aldo Capitini, da cui
nacque un sodalizio che segnò in maniera significativa
gli ultimi venti anni della sua vita. A questo proposito, sarà
interessante poter leggere la corrispondenza fra i due, che
l'editore Carocci dovrebbe pubblicare entro l'anno in corso,
a cura di Amoreno Martellini (centocinquanta lettere dal 1941
al 1963). Marcucci collaborò fattivamente a numerose
iniziative religiose e sociali promosse da Capitini: non solo
all'interno della Società Vegetariana, ma anche iniziative
pacifiste, come le battaglie per l'obiezione di coscienza. Furono
queste attività che gli procurarono nuove amicizie, italiane
e straniere, con anarchici, protestanti, quaccheri, ex-sacerdoti,
nel corso di raduni e convegni nazionali e internazionali. Ricordava
lo stesso Capitini: “Poteva accadere nei molti nostri
convegni a Roma, a Firenze, a Perugia ed altrove di arrivare
prima dell'inizio e trovare già nella sala un amico di
media statura e di aspetto vigoroso che passeggiava su e giù,
toccandosi i piccoli baffi che ricordavano un po' l'Ottocento
e i primi decenni del secolo” (cfr. Aldo Capitini, Ricordo
di Edmondo Marcucci, in AAVV, Ricordo di Edmondo Marcucci. Commemorazione
tenuta nella Sala maggiore del Palazzo della Signoria, Jesi,
Amministrazione civica, 1963).
Oltre a Capitini, Marcucci entrò in contatto anche con
Ferdinando Tartaglia (co-fondatore nel '47 con Capitini del
Movimento di Religione). Viene descritto da Marcucci come una
persona dall'aspetto magro e pallido, d'abito modesto, ma che
era in grado di suscitare immediato entusiasmo in chi lo ascoltava.
Anch'egli, come Buonaiuti, ex prete scomunicato, avvicinatosi
per un breve periodo al movimento anarchico, era considerato
dal mondo cattolico un pericoloso eretico, anche per la sua
elevata preparazione in ambito filosofico e teologico. Così
infatti dirà Marcucci di Tartaglia: “Questo scrittore,
parlatore, organizzatore che non si risparmia è, naturalmente,
l'oggetto dell' ‘odio teologico': in altri tempi avrebbe
fatto ‘la fine della castagna' degli eretici!”.
Si tratta di un mondo pochissimo conosciuto, quello costituito
dagli autori qui citati, meritevole pertanto di essere riportato
alla luce e degnamente apprezzato; per questo la riproposizione
del libro di Marcucci rappresenta un tassello importante all'interno
di questo percorso in via di costruzione.
Federico Battistutta
Spagna '36/
Miliziano e operaio agricolo
Il 30 dicembre del 1907 nasceva nella contea di Södermanland
(Svezia) il futuro militante, agitatore, giornalista anarchico
Nils Lätt, pure denominato Nisse Lätt, noto in Spagna
come Nils el rubio o “il rosso”. A 15 anni
si arruolò nella marina mercantile, si affiliò
all'organizzazione anarcosindacalista Sveriges Arbetares Centralorganisation
(SAC) e iniziò ad imparare l'esperanto.
Durante gli anni Trenta prese diretto contatto con la CNT a
Bilbao, prima e dopo l'ottobre rosso del 1934. Nel 1936 lasciò
il suo paese e ottenne a Parigi un salvacondotto dal Comité
Anarcho-syndicaliste pour la Défense et la Libération
du Prolétariat Espagnol; all'inizio del 1937, attraversò
i Pirenei con alcuni compagni e il 5 gennaio si mise al servizio
del movimento libertario catalano a Barcellona: dapprima, per
poco tempo, nella formazione guidata da Antonio Ortiz, successivamente
nel Gruppo internazionale della colonna Durruti, che raggiunse
a Pina de Ebro (Saragozza), sul fronte di guerra. A metà
aprile del 1937 fu gravemente ferito dallo scoppio di una granata
nella terribile battaglia di Santa Quiteria (Huesca), perdendo
l'occhio sinistro. Dopo le cure ospedaliere a Tarragona, non
potendo tornare a combattere, si integrò nella collettività
agricola di Fabara (Saragozza).
Tornato in Svezia nel 1938, raccolse immediatamente i suoi ricordi
in un opuscolo: Som milisman och kollektivbonde i Spanien
(Miliziano e operaio agricolo in una collettività in
Spagna), che qui è presentato in versione italiana
(Nils Lätt. Miliziano e operaio agricolo in una collettività
in Spagna, a cura di Renato Simoni, Lugano, Edizioni la
Baronata, 2012, 77 pagg). N. Lätt continuò la sua
militanza nella SAC di Göteborg, distinguendosi per l'impegno
nella diffusione del pensiero libertario.
L'esperienza del nostro miliziano nella Spagna del 1937 si articolò
in tre momenti, altrettanto significativi: la partecipazione
alla guerra nella Colonna Durruti, la più nota formazione
libertaria sul fronte d'Aragona, il ricovero in ospedale a Tarragona
che gli permise di vivere da vicino i tragici eventi del maggio
1937 in Catalogna e, ciò che risulta abbastanza eccezionale
nell'esperienza dei combattenti nella guerra di Spagna, il soggiorno
prolungato in una collettività rurale libertaria.
Il marinaio anarchico Lätt, con questa attenta testimonianza
scritta ancora a caldo, ci offre una lettura appassionata e
appassionante degli eventi, di una straordinaria lucidità
e ricchezza di dati, che trovano ampio riscontro nella storiografia
più aggiornata. Alle nitide descrizioni degli episodi
vissuti, si alternano più ampie considerazioni storiche
e filosofiche che ci fanno rivivere la tragedia della guerra,
ma anche le speranze suscitate dalla rivoluzione.
La traduzione in lingua francese ad opera di Anita Ljungqvist
ci ha permesso di accedere al testo, stimolandoci ad elaborarne
una versione per il pubblico di lingua italiana.
La ricerca sul periodo passato da Nils nella località
aragonese di Fabara è stata facilitata dall'aiuto della
maestra Lola Bielsa Masdeu; senza il suo apporto difficilmente
avremmo potuto abbozzare in tempi brevi un quadro storico della
borgata durante la guerra civile. Grazie alla sua generosa collaborazione
ci è stato possibile intervistare alcuni testimoni dell'epoca
e disporre del suo archivio privato, ricco di fotografie e di
documenti, tra cui il prezioso regolamento della collettività
“Renacer”.
Il volume comprende pure, in appendice, un documentato articolo
scritto per l'occasione da Marianne Enckell, responsabile del
Centre International de Recherches sur l'Anarchisme (CIRA),
dal titolo Sui volontari svedesi nella guerra di Spagna.
La pubblicazione di questo lavoro va ad affiancare i ricordi
di due altri miliziani libertari, Albert Minnig e Antoine Gimenez,
già stampati presso La Baronata1.
Renato Simoni
1 Albert Minnig, Diario di un volontario
svizzero nella guerra di Spagna, Lugano 1986.
Antoine Gimenez, Amori e rivoluzione. Ricordi di un miliziano
in Spagna (1936-1939), Lugano 2007.
Personali
e viscerali
convinzioni anarchiche
Il Maggio di Fabrizio De André. Un impiegato, una
storia, il poeta di Claudio Sassi e Odoardo Semellini, con
prefazione di Mario Capanna, con contributi di Brunetto Salvarani,
Raffaele Fiore, Alberto Bazzurro, Romano Giuffrida, Giovanna
Panigadi, Lucia Coccia (Edizioni Aereostella, Milano 2012) è
un libro dettagliato e molto ben documentato, per far rivivere,
a molte voci, la stagione della canzone d'autore, in cui i pensieri,
le parole, la musica e la poesia si misurano con scelte coinvolgenti
che segnano la Storia.
“Storia di un impiegato” di Fabrizio de André,
nella profondità e intensità del racconto, è
un atto di coraggio e di onestà intellettuale, che rispecchia
un periodo storico fecondo e rivoluzionario: il disco è
concepito durante il pieno fermento sociale del Sessantotto.
Quando comincia a scrivere questo album, Fabrizio De André
vive un momento magico della personale carriera: Mina registra
“La Canzone di Marinella” in 45 giri, sottraendo
Faber ad un tranquillo anonimato e ad un destino inquadrato
nei dettami stantii di un'esistenza borghese e decadente. La
pubblicazione del disco, in un periodo storico come quello dell'Italia
di metà anni '70, scatena una scia polemica, sia tra
i giornalisti musicali, sia nell' area militante della sinistra.
“Storia di un impiegato” è considerato l'album
più controverso e tormentato di De André. È
stato definito il disco più “ideologico”
dell'artista genovese, che in seguito non si esprimerà
più in modo così politicamente manifesto.
Lasciata definitivamente alle spalle la stagione degli esordi
artistici, fondata su due capisaldi spaziali e autorali, la
Genova periferica e marginale e il suo maestro, ovviamente,
il francese Georges Brassens, Faber mostra un'attenzione nuova
al contesto sociopolitico dell'epoca e sembra alla ricerca dell'acquisizione
di una consapevolezza maggiore della parola in sé
e per sé, che deve rispecchiare un'enfasi rivoluzionaria,
un pathos politico e sociale emergente, dove i più
deboli, gli ultimi, si emancipino dalla sottomissione autoritaria,
dalla demagogia del potere.
“Storia di un impiegato” è un disco importante,
non solo in relazione al periodo storico e sociale in cui uscì,
ma soprattutto nell'ambito dell'itinerario artistico di De André,
come riflessione sul presente, che dal G8 di Genova, ai recenti
movimenti ispirati a Occupy Wall Street, insegna quanto sia
velleitario “buttare bombe” sui parlamenti, quando
il vero potere risiede in ben altre e più occulte sedi.
L'album esprime un messaggio chiaro ed incisivo: è necessaria
una prassi politica militante di tipo collettivo, nella partecipazione
attiva, per porre al centro della comunità l'individuo
e per cambiare un sistema che, adesso più che mai, sembra
inesorabilmente immutabile, arroccato sull'egemonia autoritaria
del potere speculativo dei mercati finanziari. Infatti, in un
concetto anarchico di società, non esistono “poteri
buoni”, ma solo sistemi violenti e autoritari che cercano
di perpetuarsi, magari chiamando in servizio permanente effettivo
i “ rivoluzionari” di ieri.
È il 1973 e un'Italia postsessantottina in piena rivoluzione
artistica, politica e culturale, lo sfondo su cui Fabrizio de
André compone questo nuovo album: la storia di un uomo
che rifiuta le proprie convenzioni borghesi e che agirà
secondo personali e viscerali convinzioni anarchiche e rivoluzionarie,
ma comprenderà che la ribellione ha senso solo se collettiva
e partecipata, in una dimensione comunitaria dell'esistenza
sociale, dove la prassi politica e militante sia volta al raggiungimento
della pace come bene comune.
Laura Tussi
Per
una storia dell'ORA
(con l'accento sulla “a”)
Mi è sempre sembrato discutibile fare “storia”
di esperienze i cui protagonisti sono ancora, in massima parte,
vivi e vegeti e questo per ovvi motivi“ mi scrive Guido
Barroero. Eppure per quanto possa apparire incredibile –
alla “veneranda” età di 55 anni – ciò
che si è, intensamente, vissuto in gioventù è
diventato oggetto di studio e di ricerca nell'ambito della...
Storia contemporanea.
Ovvero con la pubblicazione della tesi di laurea (in Storia
contemporanea) di Luca Lapolla (Gli anarchici di Piazza Umberto
– La sinistra libertaria a Bari negli anni '70, a
cura del Centro Documentazione Franco Salomone www.archiviofrancosalomone.org)
in cui si descrive la nascita, lo sviluppo e l'inesorabile declino
dell'ORA (ma a noi piaceva dirlo “alla francese”
con l'accento sulla À) ovvero “la microstoria di
poche decine di anarchici che stavano da tutte le parti, che
amavano fregiarsi con grande serietà del nome di organizzazione
rivoluzionaria con tanto di sezioni in tutta la Puglia –
tanto per scrollarsi di dosso qualche stereotipo che vede gli
anarchici sempre disorganizzati – e che se la giocavano
alla pari per seguito ed influenza con le altre formazioni della
sinistra extraparlamentare” (cfr. Introduzione di
Donato Romito). Non entro qui nel merito dei contenuti della
ricerca storica che rimangono – ahimé – circoscritti
alla sola città di Bari limitandomi a formulare due considerazioni.
La prima di carattere “dottrinario” la seconda
di carattere storiografico.
Sulla prima questione (quella dottrinaria) l'Autore privilegia
la tesi cara alla (futura) Federazione dei Comunisti Anarchici
della cosiddetta “responsabilità collettiva”
in contrapposizione al principio tuttora vigente tra tutti
i gruppi libertari di tutte le tendenze (ad es. della Federazione
Anarchica Italiana) che le decisioni prese a “maggioranza”
coinvolgono solo coloro (gruppi o individualità) che
le hanno sostenute e non implicano, necessariamente, l'accettazione
da parte della minoranza che non le condivide. Questo concetto
(una vera e propria rivoluzione “copernicana”
che rovescia il principio malatestiano della responsabilità
soggettiva) unitamente alla, rigida, divisione tra militanti
e simpatizzanti operati dall'ORÀ sono state alla
base dell'uscita – nel 1978 – dell'intero gruppo
(o sezione come ci si definiva all'ora) di Molfetta (di cui
facevo parte) e di numerose altre individualità che non
hanno mai condiviso i postulati della, cosiddetta, “Piattaforma
di Archinoff” che, in seno ai gruppi archinovisti, ha
portato alla fondazione (nell'81 se non ricordo male) del Partito
Anarchico Italiano (sigla PAI) un'aberrazione (dal punto di
vista libertario) sia teorico che... lessicale.
Dal punto di visto storico, poi, probabilmente perché
gran parte della documentazione cartacea è andata perduta
(i volantini, ad esempio, venivano ciclostilati manualmente
a seconda delle esigenze contingenti... previa preventiva colletta
collettiva per comprare la matrice, la risma, l'inchiostro)
manca completamente l'apporto dei molfettesi la cui sede storica
– situata in pieno centro storico di fronte alla Cattedrale
con a fianco la Camera del Lavoro e la sede del PSI –
è stata fino all'ultimo sempre aperta a tutti per ospitare
ed organizzare tutte le genuine espressioni di lotta dal basso,
autogestite ed auto organizzate. Questa sua “centralità”
la espose inevitabilmente anche agli attacchi, violenti dello
squadrismo fascista visto che - nei tumultuosi mesi che seguirono
l'omicidio di Benedetto Petrone - subì anche un attentato
incendiario. Un attentato che solo per fortuna non ebbe esiti
infausti dal momento che in sede, in quel momento, erano presenti
2 compagni (Onofrio e Chiara) che ancora oggi ricordo con affetto.
E come non ricordare, poi, la robusta contestazione al Ministro
Lattanzio che – reduce dalla “fuga in valigia”
di Kappler – ebbe la faccia tosta di presentarsi a Molfetta
per inaugurare la prima “Festa dell'Amicizia” democristiana.
Al “nostro” fu semplicemente impedito di parlare
e, per evidenziare ancor più i rapporti di forza esistenti
in quel momento, quel magma composito che si autodefiniva “movimento”
e nel quale gli anarchici erano parte integrante improvvisò
anche un corteo che attraversò tutte le principali arterie
della città.
A dimostrazione che “quel pugno di anarchici”
era un elemento naturale della rivolta sociale in atto perché
non era composto da “alieni piovuti dall'alto“
che si mettevano alla testa del movimento ma era formato - in
una sorta di “simbiosi sociale” - da studenti
tra studenti, donne tra donne, lavoratori tra lavoratori, residenti
di quartiere tra residenti.
Al di là del vissuto esperienziale e delle scelte individuali
operate da ciascuno – a partire dai primi anni '80 –
la pubblicazione di questo, parzialissimo, studio su quello
che fu il movimento libertario in Puglia negli anni '70 rappresenta
indubbiamente uno stimolo di riflessione interessante per chi
– senza settarismi o ambiguità – si propone
di ricostruirlo o, più prosaicamente, di studiarlo.
Pasquale Piergiovanni
Sulle
tracce
di Ugo Fedeli
“Amo la lotta e la carta stampata”. Questa la
citazione in esergo opportunamente scelta da Antonio Senta per
il suo libro su Ugo Fedeli e l'anarchismo internazionale
(1911-1933), edito da Zero in condotta (pagg. 273, €
20,00) e intitolato A testa alta!. Nonostante abbia conosciuto
per lunghi anni le asperità dell'esilio, le espulsioni
e la clandestinità, Ugo Fedeli ha infatti costantemente
accompagnato la propria militanza anarchica con una formidabile
passione per la salvaguardia delle testimonianze scritte del
movimento.
Alla sua morte, tramite la moglie Clelia Premoli e lo studioso
Arthur Lehning, la biblioteca e l'archivio personali sono stati
acquisiti dall'Internationaal Instituut voor Sociale Geschiedenis
di Amsterdam, prestigioso istituto attivo fin dagli anni Trenta
nella conservazione delle carte del movimento operaio e socialista
internazionale. Il fondo archivistico non è rimasto inutilizzato,
ma fino a tempi recenti si presentava privo di un inventario
analitico. Nel 2006 l'istituto ha affidato la redazione di questo
strumento di corredo ad Antonio Senta, che ha completato il
lavoro nel 2008 rendendo un apprezzabile servizio a quanti vorranno
consultare tale documentazione e utilizzandola egli stesso,
come fonte primaria ma non unica, per ricerche storiche culminate
nella stesura di questo volume. Scorrendone l'inventario (disponibile
anche online sul sito http://socialhistory.org)
si percepisce subito come gli Ugo Fedeli papers rappresentino
una miniera di materiali sul movimento operaio internazionale,
con una copertura cronologica che si estende per quasi cent'anni,
dal 1869 al 1964.
La ricerca proposta da Senta procede in un'alternanza di piani,
dal particolare al generale e viceversa, da una storia di vita
alla rete del movimento anarchico, nel quadro del movimento
operaio del primo trentennio del Novecento. Per la chiarezza
espositiva e per la sintesi storica che viene complessivamente
delineata il libro si inserisce tra i contributi significativi
e di alto livello della produzione storiografica attenta alle
tematiche del conflitto sociale. In particolare è la
storia dell'anarchismo a risaltare, una storia che come puntualizza
l'autore è un intreccio di idee, di movimenti, di fatti
e di persone, lungo un filo conduttore da cui si dipanano mille
modi diversi d'intendere la teoria e l'azione, che nella loro
complessità e disomogeneità mal si prestano a
rassicuranti e univoche chiavi di lettura.
La ricostruzione della biografia di Fedeli accosta storia politica
ed economica, con calzanti incursioni nella storia sociale e
nella teoria politica dell'anarchismo. Attraverso le tappe del
suo percorso biografico (Milano, la Russia, Parigi e l'Europa,
l'Uruguay) Senta ne rintraccia l'attività politica e
pubblicistica, ma investiga anche l'evoluzione del suo anarchismo
e ripercorre le difficoltà esistenziali di una vita in
esilio. Non trascura inoltre di soffermarsi sul ruolo di Clelia
Premoli, compagna di Ugo, complice nella vita e nelle lotte,
nonostante abbia lasciato poche tracce documentarie com'è
consuetudine in un attivismo politico, anche tra gli anarchici,
tradizionalmente declinato al maschile.
Viene poi rivalutato il lavoro storiografico di Fedeli rispetto
a giudizi forse ingenerosi sulla sua carenza di scientificità.
Se il difetto di quest'ultima è difficilmente negabile,
va d'altra parte valutato sulla base di alcuni decisivi fattori:
il carattere pionieristico delle sue ricerche, le notevoli difficoltà
nel reperimento delle fonti, il disagio nello storicizzare avvenimenti
recenti e spesso vissuti in prima persona ma, soprattutto, la
preoccupazione di base che muove l'autore, ovvero, quasi una
missione da adempiere, la necessità di tramandare alle
future generazioni la memoria storica del movimento. Pertanto,
il ruolo del militante, dell'archivista conservatore, dello
storico e del bibliografo si fondono senza soluzione di continuità.
Fedeli nasce a Milano nel 1898 (esattamente l'8 maggio, mentre
i cannoni di Bava Beccaris mettono a tacere i tumulti popolari).
Giovanissimo, si avvicina al movimento anarchico tra il 1910
e il 1911, in occasione dei moti pro-Ferrer e contro la guerra
di Libia, subendo il primo arresto all'età di quindici
anni. Nell'ambiente milanese la sua formazione politica è
fortemente influenzata dalle teorie dell'anarchismo individualista,
che si vanno però a intrecciare e sovrapporre alla solidarietà
di classe: “la militanza anarchica è per lui il
mezzo attraverso cui trova sintesi una doppia emancipazione,
sociale e individuale” (p. 55). Chiamato alle armi per
la Grande guerra diserta e si rifugia in Svizzera, dove constata
che le autorità elvetiche non lasciavano vita facile
ai disertori politici, soprattutto se quest'ultimi perseveravano
nelle loro attività di propaganda e agitazione.
Rientra quindi a Milano per vivere tutti gli entusiasmi e le
aspettative rivoluzionarie del Biennio rosso, fino al “fattaccio”
del Diana. Una serie di attacchi e sabotaggi sono in quel periodo
messi a segno dagli individualisti milanesi, nell'illusione
di provocare una sollevazione di massa: “tutto un complesso
di cose non ci permettevano di vedere la realtà non deformata
dalla passione” (p.106), scriverà più tardi
Fedeli. La febbre d'azione si spinge fino al gesto inconsulto:
con l'intenzione di colpire il questore, giovani compagni compiono
una strage attentando al caffè-teatro Diana. Quel “maledetto
Diana” segna uno spartiacque nella vita di Fedeli che,
pur estraneo all'attentato, è costretto a oltrepassare
la frontiera con un mandato di cattura sulle spalle.
Zurigo, Berlino e poi la Russia “patria della rivoluzione”,
dove si consuma rapidamente la parabola da un'iniziale simpatia
non aliena da diffidenze verso i bolscevichi alla totale disillusione
di fronte alle repressioni del regime. Mentre va rivalutando
in positivo il ruolo dell'organizzazione anarchica, nel 1923
giunge a Parigi. Qui si ricongiunge con Clelia ed è in
prima fila nelle reti di solidarietà antifascista e in
tutte le iniziative politiche ed editoriali del movimento. Infine,
nel 1929, Ugo e Clelia s'imbarcano alla volta di Montevideo
dove di nuovo Fedeli è al centro delle attività
del movimento anarchico, persevera nella raccolta dei materiali,
nello studio e nell'attività pubblicistica fino al 1933,
quando la polizia lo arresta e consegna alle autorità
italiane. Si chiude così un capitolo nella vita di Fedeli,
l'ultimo analizzato in questo libro, ed è sorprendente
realizzare che, arrivati a questo punto, dopo averlo seguito
in una lunga biografia mai quieta, Fedeli sia ancora poco più
che trentenne.
A testa alta! si conclude con un accurato apparato bibliografico:
generale, di e su Fedeli. Le segnalazione dei suoi articoli,
che si limitano a quelli effettivamente consultati dall'autore,
sono oltre trecento. D'altra parte, come scrive lo stesso Fedeli
a Pietro Ferrua nel 1959 “si può dire che abbia
collaborato a tutti i giornali nostri che si pubblicano e si
sono pubblicati in lingua italiana da quarant'anni a questa
parte” (p. 234).
Luigi Balsamini
Un
gagè
in un campo Rom
Si è affacciato di recente, con timidezza, sul panorama
editoriale italiano un piccolo libro che affronta la difficile
tematica del rapporto tra rom e gagè. Vicini distanti.
Cronache da via Idro (Ligera edizioni, collana Idee, Milano
2012, pagg. 128, € 14,00) è una sorta di diario,
una cronistoria apertamente partigiana della vita del campo
comunale di via Idro, al limitare di via Padova, aperto nel
1989 e ospitante circa 130 rom harvati.
L'autore, Fabrizio Casavola, è un gagè e, prima
ancora di essere un attivissimo blogger specializzato in cultura
rom e sinta, è un comune cittadino che, per ragioni occasionali
e personali, è entrato in contatto con questo microcosmo
e non l'ha più abbandonato. Dalla sua esperienza, basata
su una lunga e assidua frequentazione del campo e un dialogo
diretto con i suoi abitanti è nato un blog (www.sivola.net/dblog/)
e successivamente un libro, che della scrittura in rete conserva
molte forme e stilemi. L'autore, che apprezza la peculiare bellezza
della cultura orale, è anche consapevole di quanto quest'ultima
non fornisca gli strumenti per fronteggiare una “società
esterna molto più numerosa, organizzata e strutturata”
– di qui la scelta di mettere per iscritto i frutti di
anni di conoscenza reciproca, maturata “sul campo”.
La struttura del lavoro è piuttosto eterogenea, non a
caso il nome dell'autore è riportato con la dicitura
“a cura di”, perché ospita interventi e contenuti
provenienti da voci diverse: mediatrici culturali, insegnanti,
giornalisti; nonché differenti forme testuali, dalla
piccola fiaba al comunicato stampa fino alla lettera –
ancora in attesa di risposta – spedita dagli abitanti
di via Idro alla nuova giunta cittadina. Si tratta di una sorta
di collage, tenuto insieme dal commento asciutto e allo stesso
tempo appassionato di Casavola, che non a caso si autodefinisce
un “collezionista di notizie”.
La stessa scansione temporale degli avvenimenti non segue un
lineare andamento cronologico ma procede attraverso rimandi
di natura tematica: una scelta precisa che richiede al lettore
uno sforzo in più per approssimarsi ad una dimensione
del tempo più vicina a quella percepita dal popolo rom.
Nei vari quadri tematici che si susseguono – infanzia,
scuola, lavoro... – trovano quindi spazio, tra i ritagli
di giornale e gli interventi più tecnici, anche frammenti
dal taglio più intimista e poetico.
Ne è un esempio il capitolo denominato “Spazio
bambini” che offre due brevi storielle incentrate sul
rapporto tra i rom e l'animale a cui forse più di tutti
questo popolo è legato: il cavallo. Il primo è
una favola della buona notte per i più piccoli, il secondo
– un “raccontino per i più grandi”
– attraverso una storia amara di evoluzioni urbanistiche
e vecchi mestieri divenuti obsoleti, apre timidamente una riflessione
niente affatto banale, auspicando un'accezione di cultura che
non si limiti alla cosiddetta 'cultura alta' delle opere d'arte,
o peggio, sia ricondotta, con uno sguardo di sufficienza dentro
le griglie del folclore, ma tenga conto del lavoro dell'uomo
e dei suoi riti quotidiani: “quando si parla di cultura
e di possibilità di esprimersi, pensiamo alla musica,
alla poesia, ma lo è anche una vita di lavoro passata
ad allevare i cavalli”.
Sicuramente personali sono anche l'apertura – una sorta
di presentazione e dichiarazione di intenti – e l'epilogo
del libro, che chiude il cerchio con il racconto della mattina
del 1 gennaio 2012, in cui ha preso forma l'idea di scrivere
questo resoconto: “è la storia di una sbronza mancata”,
spiega con ironia Casavola durante le presentazioni del libro,
“ve la racconto, così potete dire di averlo letto
anche se non lo farete – lo so bene che in Italia ci sono
più scrittori che lettori...”. E personale lo è
il libro in genere: Casavola non è né uno studioso
di antropologia né tanto meno un professionista del sociale;
può essere considerato una sorta di testimone che parla
solo di ciò che conosce direttamente e lo fa con umiltà
ironica ma anche con intento militante, invitando al dialogo
e alla conoscenza reciproca, da milanese fermamente convinto
che “se Milano dovesse campare dei soli milanesi, sarebbe
ancora uno sperduto villaggio celtico.”.
Laura Antonella Carli
Dove
Milano muore
Laggiù in fondo, laggiù in fondo alla
via
Ci sono posti poetici a prescindere
Altri lo diventano per qualche
ragione personale
Altri non lo sono e non lo saranno mai
Ma laggiù, in fondo a via Padova la poesia
c'è
L'acqua della martesana scorre veloce,
ma non troppo
Insomma scorre
E poi una anatra e un bambino rom
Dove Milano, Sesto San Giovanni
e Cologno Monzese si scontrano
in quel punto Milano muore, o meglio vive.
Federico
Riccardo Chendi
|
La
depressione post-parto
delle donne (forzate) madonne
Ho visto Maternity Blues, il bene dal male di Fabrizio
Cattani all'arena di Faenza, la sera del 28 giugno. Era spiazzante
ascoltare urla e trombette dalle case vicine, poi i clacson
per strada, mentre scorrevano le immagini di un film assolutamente
diverso da ogni altro, per il tema scelto e per la sensibilità
del regista.
A vederlo non eravamo poche e pochi a vederlo ma - ancor più
del solito – è importante precisare il maschile
e il femminile invece di rifugiarsi nell'ingannevole neutro.
Quattro o cinque uomini per 50-60 donne: per il tema (l'infanticidio)
e per la concomitanza con la partita di calcio, sport “maschio”?
A mio avviso due bugie – che la maternità sia affare
di femmine e gli sport roba virile – sia pure con un grande
e convinto seguito.
Dopo il film abbiamo – intendo noi 50/60 più 4/5
– a lungo chiacchierato con il regista. Fuori cresceva
“la festa” coprendo spesso le nostre parole.
A me è sembrato uno dei film italiani più belli
di sempre: per il coraggio, per la direzione delle attrici (e
di due bravi attori), per il rifiuto degli effetti – e
dei giudizi – facili. Dagli applausi, dalla gran voglia
di parlare con il regista, mi è parso che quasi tutte
le persone lì abbiano avuto la stessa impressione: di
avere assistito a un evento eccezionale, sorprendente in tempi
come questi (di ignoranza e di totale conformismo).
È probabile che, anche se il cinema vi appassiona, non
abbiate sentito parlare di «Maternity Blues».
Gira poco, nonostante lo distribuisca Fandango. E i media ovviamente
non possono/vogliono informare su un film che affronta un tema
rimosso, ma soprattutto che evita di dare giudizi, che non colloca
il bene tutto da una parte e il male tutto dall'altra. Prima
di incontrare la pièce teatrale («From Medea»
di Grazia Verasani che continua a girare nei teatri ma si può
leggere anche nel libro pubblicato da Sironi) che lo ha ispirato,
il regista era uno di quelli con le idee chiare; pensando di
fare un film «ho voluto capire di più, incontrare
alcune di queste donne». Le sue certezze sono sparite
strada facendo. In modo sommesso ma profondo (è il suo
stile nel parlare come nel far cinema) Fabrizio Cattani ha ricordato
quanto sia pesante sulle madri, soprattutto nei Paesi cattolici,
l'obbligo di essere madonne, sante per forza. Qualunque cosa
succeda loro, quale sia la loro età e il contesto, molto
spesso le concrete, fragili donne credute “madonne”
restano sole: se la depressione post partum (che viene
appunto definita maternity blues oppure baby blues) si protrae,
se per mille motivi non reggono, se intorno a loro crolla tutto...
si ritrovano senza aiuti, magari con vicino tante e tanti capaci
solo di pontificare, a garantire che l'istinto della maternità
risolverà ogni cosa, che “le creature” sono
sempre e solo una benedizione.
Ho rivolto tre domande a Fabrizio Cattani. Eccole con le sue
risposte.
Dicevi a Faenza di avere certezze che si sono sgretolate.
Come è accaduto? Quanto ha pesato il testo di Grazia
Verasani e quanto gli incontri successivi con le donne?
«Su questo tema anche io, come molti, mi limitavo al giudizio
nei confronti di queste donne: non concepivo il fatto che una
madre potesse arrivare a uccidere un figlio e quindi la condannavo
a priori. Attraverso il testo di Grazia e poi nell'incontro
con queste donne e soprattutto con il dottor Calogero che le
cura da molti anni, questo mio senso di giudizio veniva sempre
meno, lasciando spazio a una sensazione di pietas, quel sentimento
che si prova nel momento in cui si smette di giudicare e si
inizia a cercare di comprendere. Ho capito che spesso una donna
arriva a tanto anche per un “concorso di colpa”,
in situazioni familiari disastrose o per infanzie violente;
ho capito che se la depressione post partum non viene curata
può portare a una psicosi e quindi a gesti estremi».
È sempre l'Italia delle donne-madonne ma lasciate
sole oppure qualcosa sta cambiando?
«Purtroppo si fa ancora troppo poco per le donne, in generale.
Nulla si fa a esempio contro la violenza nei loro confronti.
Sono le istituzioni italiane che, nonostante più volte
sollecitate, non hanno ancora firmato la “Convenzione
Europea per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le
donne” approvata l'anno scorso a Istanbul. Questo vale
anche per la maternità: si accompagnano le madri, magari
amorevolmente, fino al momento del parto per poi abbandonarle
a loro stesse una volta partorito. Se alcune hanno un compagno
che è presente o familiari che stanno loro vicino sono
fortunate. Ma spesso accade che non abbiano nessuno e loro stesse
si vergognano di ammettere che sono in difficoltà, di
chiedere aiuto per la vergogna, che deriva appunto da una nostra
cultura dove la madre deve essere perfetta. Ma fortunatamente
stanno nascendo centri in Italia, ancora troppo pochi, che aiutano
queste madri: mi vengono in mente Ca' Maman a Genova o Il Melograno
ad Arezzo, dove psicologhe e psichiatre visitano gratuitamente
a casa queste madri in difficoltà, aiutandole e sostenendole
psicologicamente».
Cosa racconta e cosa tace il cinema italiano di oggi? Ti
va di dirlo da regista e da spettatore-cittadino?
«Se uno vuole fortunatamente ha la possibilità
di raccontare in un film ciò che magari in altri tempi
non era possibile. Magari ha difficoltà a trovare una
produzione o una distribuzione visto che per lo più sono
interessate solo al riscontro economico. Non è tanto
l'impossibilità di parlare attraverso il cinema di temi
tabù quanto di trovare chi, con te, ci crede. Certi argomenti
purtroppo non hanno un grosso seguito di pubblico e di conseguenza
i produttori non vogliono esporsi. Oggi chiedono solo commedie,
divertimento e spensieratezza possibilmente al limite dell'idiozia.
Adesso, dopo il successo del film francese “Quasi amici”,
vorrebbero tutti la commedia divertente e commovente con sfondo
sociale, ma solo perché hanno riscontrato che ha avuto
un grande successo di botteghino. Mi auguro che i nostri giovani
autori, perseguano invece ciò in cui credono, al di là
delle leggi di mercato. È l'unico modo per fare un cinema
di qualità in Italia».
Daniele Barbieri
Se volete sapere di più
andate sul sito cioè http://www.maternityblues.it/film
che indica anche le prossime proiezioni e i dibattiti con il
regista. È importante che un film così circoli,
sia discusso. Dà speranza un film così.
Intervista a Felice D'Agostino
Fare film (e politica) in Calabria
Fanno un cinema radicalmente politico, autarchico (e anarchico).
Con materiali d'archivio e gente comune, girano nella propria
regione (la Calabria) e in estrema povertà docu-film
che, cozzando contro il muro dei casi irrisolti della storia
d'Italia, codificano una poetica che chiede a chi guarda lo
sforzo di interpretare. Felice D'Agostino e Arturo Lavorato
sono cugini e al momento hanno all'attivo un pugno di opere,
tra cui “Il canto dei nuovi emigranti” (2005) e
“In attesa dell'avvento” (2011).
Grazie al primo, un omaggio al conterraneo poeta Franco Costabile,
sono stati premiati al Festival di Torino e Bellaria, mentre
con il secondo, firmando un breve e corrosivo trattato sulla
retorica del Risorgimento e dell'Unità d'Italia, si sono
aggiudicati lo scorso anno al Festival di Venezia il primo premio
nella sezione cortometraggi. Del loro lavoro, della loro ricerca
documentaristica sulla Calabria e il Meridione e di quella tensione
artistica e politica che vuol essere pure rilancio del conflitto
sociale, abbiamo parlato con Felice D'Agostino.
Quando è iniziato il sodalizio cinematografico D'Agostino-Lavorato?
Io ed Arturo è da un bel po' di anni che facciamo cinema
insieme, entrambi autodidatti abbiamo iniziato ad appropriarci
del mezzo audiovisivo lavorando per il cinema e la televisione.
Io vengo da una passione prematura per la fotografia, mentre
Arturo ha coltivato un impegno politico negli anni dell'università,
creando pure una cooperativa di produzione di documentari. La
molla di avvicinamento all'audiovisivo è stata (e rimane
ancora oggi) la necessità di raccontarci come individui
e come calabresi. Se non ci fossimo imbattuti in questo linguaggio
sicuramente avremmo cercato in qualche modo di cantare la nostra
terra con altri strumenti.
“Il canto dei nuovi emigranti” e “Prima
dell'avvento” sono i film che vi hanno fatto conoscere
a livello nazionale, ma prima ci sono state altre opere…
Insieme ad Angelo Maggio, fotografo e animatore culturale calabrese,
per anni abbiamo portato avanti un progetto di documentazione
audiovisiva delle feste popolari calabresi. Questa è
stata la nostra vera “palestra cinema”. E mentre
archiviavamo, abbiamo realizzato un paio di documentari etnografici
che sono stati proiettati in ambienti accademici.
Le vostre due opere più importanti sono state molto
apprezzate. Oltre che per rassegne e festival, dove hanno circuitato?
“Il canto dei nuovi emigranti” e “In attesa
dell'avvento” sono stati proiettati durante molte iniziative
politiche. Non affermo niente di nuovo se dico delle reali carenze
distributive presenti nel nostro paese. Se poi si pensa che
registi come Tonino De Bernardi e Fabrizio Ferraro trovano difficoltà
a far entrare i loro film in sala, non credo che ci si debba
stupirsi più di tanto se i nostri film gravitano solo
intorno a festival e rassegne. Ora, possa piacere o meno, questi
contenitori sono l'unico canale alternativo per vedere un certo
tipo di cinema.
In questo momento a cosa state lavorando?
Stiamo preparando un lungometraggio di cui “In attesa
dell'avvento” costituisce un piccolo studio iniziale.
Un film sull'Unità… un film contro il Risorgimento:
vogliamo far vedere l'Unità d'Italia dalla parte delle
periferie più lontane del Regno, raccontare come si è
generato un ulteriore processo di colonizzazione del Meridione.
Verso quali registi e cinematografie si rivolge in particolare
la vostra attenzione?
Tra i nostri “sguardi preferiti” ci sono sicuramente
Godard, Straub-Huillet e Rocha, ma anche Tarkovskij, Anghelopulos,
Bela Tarr, De Oliveira, Herzok, Rouch, Jarman, Marker, Bresson.
Insomma, siamo attratti da un certo cinema autoriale e d'impegno.
Fate un cinema politico, ma di là della macchina cinema
come manifestate la militanza politica e civile?
Il nostro cinema è un prolungamento del nostro fare politica
in Calabria. Raccontare l'emigrazione meridionale, ricercare
una lingua che ci aiutasse contemporaneamente ad esprimerci
e a riconoscerci comunità ci ha portato a confrontarci
con la storia. E da qui che siamo stati sollecitati altresì
a sostenere in Calabria battaglie contro discutibili mega-investimenti
come l'inceneritore di Gioia Tauro, la Turbogas di Rizziconi
e il Ponte sullo stretto. Da un anno e mezzo io e Arturo abbiamo
contribuito alla nascita e alla crescita di una sorta di consorzio/movimento,
Equosud, che agevoli i piccoli produttori della nostra terra
a bypassare la grande distribuzione, vero cappio al collo della
nostra economia agricola e causa di molte tensioni, come quella
che sfociò nella rivolta di Rosarno. Inoltre, per la
vicinanza nei confronti di chi ha sempre lottato per la nostra
terra, abbiamo voluto dedicare “In attesa dell'avvento”
all'economista marxista e meridionalista Nicola Zitara e a Ciccio
Svelo, avvocato di movimento e compagno di tante battaglie,
purtroppo prematuramente scomparso lo scorso anno.
Dei partiti e dell'attuale governo cosa pensate?
Noi siamo comunisti libertari. E come tali non abbiamo mai creduto
alla forma partito e nemmeno nel voto come espressione di partecipazione
alla vita politica. Crediamo che la politica si faccia nelle
strade, nelle piazze e non nelle sedi partito. A proposito di
forma di partito, voglio ricordare che su questo tema Weil ha
scritto un bellissimo pamphlet (Manifesto per la soppressione
dei partiti politici, ndr) consiglio a tanti di leggere.
Mimmo Mastrangelo
Tra
i minatori
disoccupati
Wigan Pier, cittadina mineraria dell'Inghilterra settentrionale,
costituisce il punto di partenza e il simbolo dell'indagine
politica e sociologica condotta da George Orwell nelle pagine
di questo libro-documento pubblicato nel marzo del 1937; il
viaggio che l'autore compie nell'inferno delle miniere rappresenta,
infatti, un tentativo di entrare nel mondo della classe operaia
per scoprirne sofferenze e valori. Opera commovente, tragica
e attualissima.
Potrete leggere passaggi come questi:
- (...) in breve il treno raggiunse l'aperta campagna,
e ciò parve strano, quasi innaturale, quasi che l'aperta
campagna fosse stata una specie di parco; ché nelle zone
industriali si ha sempre la sensazione precisa che fumo e sporcizia
debbano continuare per sempre e nessuna parte della superficie
della terra debba sfuggire loro.
- (...) tutte le specie di lavori manuali ci tengono
in vita e noi dimentichiamo che esistono. Più di ogni
altro, forse, il minatore può rappresentare il prototipo
del lavoratore manuale.
- Questa faccenda di meschini disagi e mancanze di decoro,
di essere tenuti ad aspettare in piedi, di dover fare ogni cosa
secondo il comodo altrui è implicita nella vita della
classe operaia. Mille influenze costringono di continuo l'operaio
in una parte passiva. Egli non agisce, ma subisce l'azione altrui.
Si sente schiavo di una misteriosa autorità ed è
fermamente convinto che “quelli” non gli permetteranno
mai di fare questo, quello o quell'altro.
- (...) la gente ha cessato di scalciare sotto
le frustate.
- (...) lo sviluppo postbellico di generi voluttuari
a buon mercato è stato una fortuna per i nostri governanti.
È molto verosimile che pesce e patatine fritte, calze
di seta, salmone in scatola, cioccolata a prezzi modici (...),
il cinematografo, la radio, il tè forte e i Football
Pools abbiano fra tutti evitato la rivoluzione. Così
che ci sentiamo dire ogni tanto che tutta la faccenda è
un'astuta manovra della classe dirigente (...) per tenere
a bada i disoccupati. Ciò che ho visto della nostra classe
dirigente non mi convince che abbia molta intelligenza. La cosa
è avvenuta, ma attraverso un processo inconscio: l'interazione
affatto naturale tra la necessità da parte dell'industriale
di un mercato e il bisogno, da parte di gente semiaffamata,
di palliativi a basso prezzo.
- (...) meno quattrini si hanno e meno ci si sente
disposti a spenderli in cibo sano. Un milionario può
apprezzare a colazione, la mattina, succo d'arancia e biscotti
leggeri; un disoccupato no.
- (...) Quando si è disoccupati, quando
cioè non si mangia abbastanza, e si è tormentati,
annoiati e depressi, non si ha voglia di mangiare tediosi cibi
sani. Si ha voglia di qualcosa un po' “stuzzicante”.
C'è sempre qualche cibo appetitoso e a buon mercato che
vi tenta.
- In una casa della classe operaia – non penso
per il momento a case di operai disoccupati, ma ad altre relativamente
prospere – si respira un'atmosfera calda, onesta, profondamente
umana, che non è molto facile trovare altrove.
- (...) l'orribile arma della disoccupazione ha
sottomesso l'operaio.
- (...) erano stati in guerra ed erano ritornati
a casa col tipico atteggiamento del militare nei riguardi della
vita, atteggiamento che in modo fondamentale è, nonostante
la disciplina, da fuorilegge.
- (...) il peggior criminale che abbia mai camminato
su questa terra è moralmente superiore al giudice che
lo condanna alla forca.
- È solo quando s'incontra qualcuno di cultura
ed educazione differenti dalle nostre che si comincia a scoprire
quali siano realmente le nostre opinioni.
- (...) l'uomo occidentale inventa macchine con
la stessa naturalezza con cui un polinesiano nuota nelle acque
della sua isola. Affidate a qualunque individuo dell'occidente
un lavoro manuale e subito comincerà a ideare una macchina
che faccia quel lavoro per lui; dategli una macchina e lui penserà
a vari modi di migliorarla.
- È qualcosa peggio che inutile scartare il fascismo
come “sadismo collettivo” o “di massa”,
o qualche altra facile etichetta del genere. Se sostenete che
è soltanto un'aberrazione che in breve tempo si esaurirà
da sola, vi cullate in un sogno dal quale vi desterete nel momento
in cui qualcuno vi darà una manganellata sulla testa.
- Chiunque conosce il significato della povertà,
chiunque nutra un odio genuino per la tirannide e la guerra,
è, potenzialmente, dalla parte dei socialisti.
- Ogni impiegato di banca che trema all'idea del licenziamento,
ogni negoziante che vacilla sull'orlo della bancarotta sono
essenzialmente nella stessa posizione. Essi rappresentano il
ceto medio che sta sprofondando e molti di loro si aggrappano
alla loro signorilità con l'idea che essa possa mantenerli
a galla.
- (...) gli interessi di tutti gli sfruttati sono
gli stessi.
Volete sapere qualcosa di più di questo libro? Sappiate
che questa esperienza di Orwell tra i minatori disoccupati non
si esaurisce in una testimonianza viva e drammatica sulla crisi
degli anni Trenta del Novecento, ma si propone soprattutto come
uno studio approfondito del complesso problema dei rapporti
fra socialismo e civiltà industriale.
Marco Sommariva
marco.sommariva1@tin.it
I treni (e la nave)
per Reggio Calabria
Anno esplosivo, il 1972. Letteralmente. Cominciamo da Milano.
11 marzo: Il Comitato di lotta contro la strage di Stato
indice una manifestazione contro un raduno della “Maggioranza
silenziosa”, la “buona” borghesia milanese
più fascista che democristiana. La città è
in stato d'assedio, la tensione alle stelle; furibondi, scoppiano
di scontri tra servizi d'ordine della sinistra extraparlamentare
e polizia e carabinieri. Candelotti e proiettili di pistola
sono sparati ad altezza d'uomo; muore un pensionato, Giuseppe
Tavecchio, e per questo crimine saranno rinviati a giudizio
un ispettore e alcuni agenti di polizia. 110 arrestati, tra
cui la sottoscritta, che sarà scarcerata tre mesi dopo,
alla chiusura dell'istruttoria. Il 17 marzo, sui tralicci di
Segrate, salta per aria l'editore GianGiacomo Feltrinelli. Il
5 maggio il compagno Franco Serantini viene barbaramente ucciso
dalla polizia sul Lungarno Gambacorti, a Pisa. Il 17 dello stesso
mese viene assassinato a Milano il commissario Luigi Calabresi.
Tutto il carcere brinda all'evento; nonostante da anni si tenti
di farne un eroe buono, anche i detenuti comuni lo conoscevano
come un duro, un picchiatore. Nel corso dell'anno centinaia
di attentati a sedi sindacali e di partiti e associazioni di
sinistra, fino a quelle sui treni che dal Centro Nord portavano
gli operai e gli edili, e lavoratori di altri settori, a Reggio
Calabria, il 22 ottobre, pochi giorni prima del cinquantesimo
anniversario della marcia su Roma.
Durante la mia detenzione scoppia una rivolta nel carcere di
San Vittore, che si estende anche al braccio femminile; la repressione
è violentissima, non ho mai avuto tanta paura in vita
mia: nessuna possibilità di sottrarsi alle botte, ai
vetri in frantumi che diventavano proiettili sotto i getti degli
idranti, e colpivano anche le donne e i bambini del nido. Persino
alcune suore sentirono sulla testa e sulle spalle i manganelli
dei poliziotti.
Per tutto l'anno si susseguono senza soluzione di continuità
scioperi, manifestazioni, occupazioni di fabbriche, scuole,
case. L'anno si conclude con la scarcerazione di Pietro Valpreda
e dei compagni anarchici, mentre sotto i bombardamenti USA su
Hanoi muoiono 2000 civili vietnamiti. In tutto il mondo il 1972
fu un anno esplosivo.
I fatti che voglio ricordare hanno origine nel 1970, quando
furono indette le prime elezioni per la costituzione dei Consigli
delle Regioni a statuto ordinario, la più importante
riforma istituzionale italiana dopo il passaggio dalla monarchia
alla repubblica nel 1946. La riforma era stata bloccata per
oltre vent'anni dai partiti di centro destra, DC in testa, che
temevano il costituirsi di “regioni rosse”, e soprattutto
di perdere il controllo, e i relativi privilegi e affari, che
il potere centralizzato garantiva.
In Calabria si pose subito il problema del capoluogo, conteso
tra le città di Catanzaro e Reggio. Quando fu chiaro
che il governo propendeva per la prima, a Reggio esplose la
rivolta: era il 14 luglio (presa della Bastiglia!) 1970, e già
il giorno successivo ci fu il primo morto, Antonio Labate. I
partiti di sinistra presero subito le distanze, e le sedi di
PCI, PSI e Camera del Lavoro furono assaltate da squadristi
fascisti, infiltratisi nella rivolta, le cui origini in realtà
erano nella miseria e nella disoccupazione, che costrinsero
milioni di lavoratori ad emigrare, dopo la lunga stagione dell'occupazione
delle terre e l'inutile attesa della riforma agraria: era dai
tempi di Garibaldi che l'aspettavano! Il 22 luglio il Treno
del sole Palermo Torino deraglia a Gioia Tauro a causa delle
bombe poste sui binari della ferrovia: 6 morti e 54 feriti il
bilancio delle vittime. Il 3 agosto nasce, su iniziativa del
sindaco DC di Reggio e del sindacalista della CISNAL Ciccio
Franco, che al grido del famigerato “boia chi molla”
cerca di capeggiare la rivolta, il Comitato per Reggio capoluogo.
Junio Valerio Borghese, comandante della X MAS, noto golpista
e tessitore di trame nere, cerca di tenere un comizio a Villa
San Giovanni, vietato però dalla questura. Il 17 settembre
Ciccio Franco e alcuni suoi compari vengono arrestati per l'omicidio
di un autista di autobus (alla fine i morti furono sei). Il
26 dello stesso mese muoiono in un misterioso incidente sull'autostrada
cinque giovani, Gli anarchici della Baracca (un quartiere
di Reggio), i quali stavano portando a Roma dei documenti comprovanti
le infiltrazioni fasciste e relativi mandanti nella rivolta.
Il governo invia l'esercito a controllare la ferrovia Salerno
Reggio Calabria, ma col nuovo anno una manifestazione del Comitato,
cui partecipano 20.000 persone, e l'occupazione del quartiere
Sbarre, inducono il ministro dell'interno Restivo a sospendere
le garanzie costituzionali, fino alla fine dell'anno (1971).
Il presidente del Consiglio Colombo si barcamena, promettendo
in TV che Reggio sarà la sede del Consiglio regionale
(Catanzaro della Giunta) e soprattutto la creazione del V polo
siderurgico IRI, che occuperà 7500 lavoratori. Almirante
soffia ancora sul fuoco, e tiene un comizio, rivendicando il
capoluogo per Reggio; ma restano solo le braci, che piano piano
si spengono.
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La
cantautrice Giovanna Marini
(foto di Carmelo Giordano) |
Dal 20 al 22 ottobre del 1972 i sindacati confederali, che hanno
molto da farsi perdonare, indicono a Reggio una Conferenza sul
Mezzogiorno; la città è in stato d'assedio, come
ai massimi livelli della rivolta. Per il giorno della chiusura,
viene organizzata una manifestazione di solidarietà tra
lavoratori del Centro Nord e del Sud. Nella notte tra il 21
e il 22 ottobre vengono poste diverse bombe lungo la ferrovia
che porta i manifestanti a Reggio; a Roma i treni restano in
attesa delle ore prima di poter partire. La tensione è
altissima e la paura tanta: chi ha messo le bombe sta cercando
la strage. Anche molti pullman vengono bloccati alle porte della
città, dove i fascisti hanno organizzato una contromanifestazione.
Sembra che la manifestazione sindacale non possa partire, ma
la forza di volontà vince sulla paura e, tra i sassi
e gli insulti, il corteo riesce a muoversi; quando a pomeriggio
inoltrato si scioglie, arrivano ancora operai che erano rimasti
bloccati lungo il percorso; da Genova arrivò persino
una nave coi lavoratori dell'Ansaldo.
Il viaggio da Roma a Reggio, con la sua drammaticità,
le paure, ma anche la voglia di lottare e la gioia e l'orgoglio
di avercela fatta, sono raccontati quasi in cronaca diretta,
con voce nitida ed emozionata da Giovanna Marini, che vi partecipò
personalmente, ne I treni per Reggio Calabria, la sua
canzone più bella, ex aequo con il Lamento per la
morte di Pasolini.
Nonostante il tentativo di appropriarsene delle destre clerico
fasciste, favorito dall'astensionismo e dalle diverse letture
dei fatti da parte delle sinistre, quella di Reggio fu la più
grande rivolta sociale dell'Italia repubblicana, e la richiesta
di lavoro e giustizia sociale ne furono l'elemento centrale;
ma, come sempre, la risposta furono le bombe fasciste, un nuovo
anello della strategia della tensione. Dopo quarant'anni il
Sud è, se possibile, ancora più abbandonato a
se stesso e dimenticato. Di tutti i manuali di storia che mi
sono capitati tra le mani (tanti) nessuno la menziona. Un'omissione
colpevole e offensiva, ma purtroppo solo una delle tante che
riguardano la storia di lotte e il tributo di sangue di questo
nostro popolo, che Gramsci definì “grande e terribile”.
Sandra D'Alessandro
I finanziatori
del fascismo
Chi
ha finanziato il primo movimento fascista? Un elenco completo,
inedito, accurato e rigoroso, di oltre tremila finanziatori
del primo fascismo è stato finalmente reso noto dallo
studioso salernitano Gerardo Padulo nell'opera I finanziatori
del fascismo, pubblicato nel primo quaderno Le carte
e la storia della Società italiana di storia delle
Istituzioni curato dalla casa editrice Nuova Immagine di Siena
nel 2010 (pag. 112, €. 10,00, da richiedere al n. 0577.42625
email: nuovaimmagineeditrice@tin.it).
Un lungo elenco di nomi e cifre che comprende banche, industriali,
agrari, principi, conti, marchesi, baroni, nobildonne, avvocati,
notai, editori, massoni, geometri, cavalieri, bottegai, editori,
armatori, imprenditori, officine, ingegneri, medici, farmacisti,
albergatori, ecc. e che copre il periodo che va dal 1 ottobre
1921 al 3 marzo 1925. Accanto ad ogni nome l'indirizzo, la data
e la somma versata. Le offerte vengono da circa duecentocinquanta
località, comprensive di trentuno capoluoghi di provincia
come Alessandria, Ancona, Ascoli Piceno, Bari, Benevento, Bergamo,
Brescia, Caltanissetta, Catania, Como, Firenze, Genova, L'Aquila,
Macerata, Messina, Milano, Napoli, Novara, Padova, Palermo,
Pavia, Pesaro-Urbino, Porto Maurizio (l'odierna Savona), Roma,
Siena, Siracusa, Sondrio, Teramo, Torino, Trapani e Verona.
L'elenco non comprende oblazioni provenienti dalle provincie
di Bologna, Forlì, Salerno, Cremona, Ferrara, Trieste,
ecc. ed è improbabile che nessun contributo sia stato
dato dagli uomini di queste provincie, alcune delle quali hanno
espresso un fascismo e uno squadrismo violento e robusto. Per
la verità anche Renzo De Felice aveva parlato dei finanziatori,
senza però pubblicarne l'elenco, che è conservato
all'Archivio Centrale dello Stato nella busta 47 del fondo della
Mostra della Rivoluzione fascista. E' un notevole documento
su una delle prime forme di finanziamento occulto della politica
italiana. Sono più di cinquecento carte, manoscritte
e dattiloscritte, raccolte in cinque fascicoli e non è
da escludere che l'elenco è mutilato, nel senso che ci
furono tanti altri finanziatori del fascismo, che l'autore –
recuperando una felice intuizione contenuta nel titolo di un
libro dell'anarchico Luigi Fabbri, pubblicato nel 1922 dalla
Casa editrice Cappelli di Bologna e recentemente riproposto
da Zero in condotta di Milano nel 2009 – definisce «contro-rivoluzione
preventiva». Viene inoltre pubblicato l'elenco degli oblatori
dal 13 giugno 1919 al 9 gennaio 1920, che è in ordine
cronologico e telegrafico, nel senso che vi sono solo i nomi
ma non gli indirizzi e si tratta di una lista di circa 780 oblatori
completamente sconosciuta e ritrovata all'ultimo momento dall'autore,
il che conferma che ulteriori ricerche potrebbero fornire altri
elenchi.
Le offerte oscillano tra le duecentomila lire del Credito italiano
e le cinque lire. A volte gli oblatori non si accontentano di
aver dato un solo contributo e mettono nuovamente mano al portafoglio
per finanziare il movimento e la violenza fascista. Per dare
un valore alle oblazioni bisogna ricordare che il valore di
mille lire del 1924 corrisponde ad un valore attuale di 900
euro.
L'universo dei finanziatori è variegato: vi risaltano
tutti i nomi dei «padroni del vapore». Ci sono quasi
tutti quelli dell'epoca. Tra i sovvenzionatori i Fratelli Feltrinelli
e Carlo Feltrinelli che insieme danno ben ventisettimilacinquecento
lire; Lorenzo Allievi, Max Bondi, Giacinto Motta e Giovanni
Agnelli. Padulo spiega: «Allievi e Motta erano uomini
forti e rappresentativi dell'industria elettrica. Bondi era
notissimo tra i “pescicani“: alla testa dell'Ilva
era stato protagonista di mille imprese durante la guerra».
Se all'epoca si fossero conosciuti questi finanziamenti «sarebbe
stato possibile ai fascisti e ai loro estimatori sostenere che
il fascismo era antisocialista quanto anticapitalista?»
si chiede nel saggio introduttivo all'elenco. A ragione Gerardo
Padulo sottolinea e commenta che «generalmente, chi la
mano destra impegnata a ricevere denaro non alza la sinistra
per minacciare il donatore» e difatti le squadracce fasciste
danneggiarono sempre ed esclusivamente Camere del lavoro, Cooperative,
Leghe di resistenza, giornali, sedi dei partiti popolari, circoli
popolari, giammai una direzione aziendale o una struttura padronale.
Inoltre nottetempo le squadracce picchiano i contadini e gli
operai, devastandone le abitazioni, ma mai i padroni. Ribadisce
che la grande industria non ebbe alcun timore delle proclamate
volontà rivoluzionaria dei fasci e dal 1919 finanziò
tranquillamente Mussolini e il movimento fascista. Il ministero
dell'Interno sapeva di questi contributi, molti prima del 1922,
e tacque.
Infine la ricerca di Gerardo Padulo dà conto del ruolo
della «scuola quadri» che il fascismo assegnò,
dopo la marcia su Roma, alla casa editrice, «Imperia»
di Milano, la prima casa editrice del PNF, voluta da Dino Grandi
nell'ottobre 1922 per formare la classe dirigente del partito
e ampiamente sovvenzionata dalla massoneria, che, «con
forti capitali uomini della massoneria; entrano e governano,
costituendo la maggioranza del consiglio di amministrazione».
La massoneria poi cercò di contrastare il fascismo a
partire dal 1925.
Giuseppe Galzerano
Ricordando
Misiano
Si chiamava Misiano Barbieri, ma con quel nome originale
per noi è sempre stato Misiano e basta: Misiano
dell'Infoshop Mag6, di Reggio Emilia. Il solito “brutto
male“ se lo è portato via poco più
che cinquantenne, nel bel mezzo di questa estate torrida.
E tra i nostri compagni e amici della Mutua AutoGestione,
Mag6, e in particolare dell'Infoshop di via Vincenzi,
ora Misiano non c'è più. Lui che una ventina
di anni fa aveva contribuito a fondare questo bel centro
di “smistamento“ di materiali alternativi,
ecologia, diritti, zingari, lotte e tanti altri temi
“giusti“: e anche l'anarchia.
A Renato, Matthias, Giovanna, Romano, Fabio e a tutte/i
gli altri del “suo“ giro reggiano e non
solo, un abbraccio fraterno da noi di “A”,
di Elèuthera, del Centro Studi Libertari/Archivio
“Giuseppe Pinelli”.
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