attenzione sociale
a cura di Felice Accame
Critica della modernità
e critica della democrazia
1. A quanto sembra le lamentele
nei confronti della modernità si perdono nella notte
dei tempi. Ricostruendone la genesi, in Un'altra modernità
(Bietti Edizioni, Milano 2012), Davide Bigalli, d'accordo con
Eugenio Garin, ne individua già i prodromi in Bernardo
di Chartres (XIII secolo), ma è presumibile che, cercando
e volendo trovare, possiamo andare ben più in là.
Per esempio: che sono tutti i sospiri nostalgici delle varie
età dell'oro perdute fioriti nella letteratura greca
se non disapprovazione della modernità?
A prima vista, contro queste lamentele ci si potrebbe accontentare
di rilevare la falsità – o l'improbabilità,
perlomeno, e di certo la non dimostrabilità – dei
vari paradisi perduti e dire che una società umana che
si rispetti e che tenda alla convivenza felice non ha bisogno
di miti negativi fondativi. Tuttavia, a ben guardare –
a ben guardare ciò che rimane più vicino a noi
e dunque più guardabile – ci si accorge ben presto
di alcuni tratti comuni, in queste tesi, che, più o meno
surrettiziamente, costituiscono il quadro essenziale di una
proposta in positivo. Su alcuni di questi tratti varrà
allora la pena – l'espressione qui non vuol essere un
modo di dire – di riflettere.
2. Il primo di questi tratti
concerne l'arte del governo che, almeno a partire da un certo
momento in poi – chiamiamolo “illuminismo”,
questo momento – comincia a prendere in considerazione
la democrazia come un'alternativa possibile. L'atteggiamento
degli antimoderni – da Herder a Novalis, da Joseph De
Maistre a Burckhardt, da Chateaubriand a Jünger, da Nietzsche
a Guénon e a Evola passando anche per la Scuola di Francoforte
(per citare solo alcuni dei collezionati nel ricco catalogo
di Bigalli) – nei confronti della democrazia è
di esplicita insofferenza. Kant – forse anche perché
non ce l'ha in casa propria – sostiene la rivoluzione
francese e, al contempo, che non “non si può giudicare
(...) circa la legittimità del potere vigente”,
ma considera la democrazia come una forma di dispotismo, “perché
fonda un potere esecutivo in cui tutti deliberano su uno e nel
caso anche contro uno (che dunque non dà il suo consenso),
quindi tutti che però non sono tutti”, mentre gli
argomenti degli altri sono di tutt'altra natura.
Flaubert giustifica la sua opposizione al suffragio universale
dicendo che “la forza del braccio, il diritto del numero,
il rispetto della folla sono succeduti all'autorità del
nome, al diritto divino, alla supremazia dello spirito”.
Forse meno beotamente, ma senza mutarne di una virgola il senso,
i fratelli Goncourt nel loro Journal, contro il suffragio
universale sostengono che “il diritto divino del numero,
rappresenta un'enorme diminuzione dei diritti dell'intelligenza”.
L'argomento è noto e lo si ritrova in varie forme in
tutta la storia della nostra cultura. Per Francesco Guicciardini
– nel Libro primo delle considerazioni intorno ai ‘Discorsi'
del Machiavelli – “el popolo per la ignoranza
sua non è capace di deliberare le cose importante”
ed è morta lì. Con il passare degli anni l'argomento
cambia poco: dall'impresentabile Baudelaire che associa la democrazia
alla “sifilide” e dà per assodata e immodificabile
una “stupidità nazionale” ai teorici più
perbenino del secondo Novecento che teorizzano una democrazia
“informata” per decretarne – nuove tecnologie
alla mano – l'impossibilità. Così un Robert
Dahl che dall'aumento del “divario tra il livello di informazione
dei cittadini elettori (modesto) e il livello di conoscenza
richiesto per esprimere un mandato adeguato” ricava l'idea
di un “minipopulus”, ovvero di un campione di cittadini,
rappresentativo – scelto con le tecniche statistiche in
uso nei sondaggi della cosiddetta “opinione pubblica”
-, pronto a costituirsi in “elettorato presunto”
svolgendo diligentemente il compito di un organo consultivo.
Così un Niklas Luhmann, secondo il quale “concepire
la democrazia come la partecipazione di tutti o della maggior
parte ai processi di decisione politica è prima ancora
che un'utopia, un radicale nonsense”, perché ciò
a suo avviso contraddirebbe la “logica sistematica delle
società complesse, il cui obiettivo funzionale è
‘l'economia del consenso', ossia la supposizione o funzione
istituzionale del consenso, non già la ricerca di un
consenso effettivo, fondato su ‘convinzioni comuni' dei
cittadini. Una tale ricerca, così come la promozione
di una partecipazione politica attiva dei cittadini, non solo
distoglierebbe il potenziale di attenzione disponibile da altri
temi e lo esaurirebbe rapidamente, ma farebbe esplodere la dimensione
temporale dei processi decisionali. Il tempo è un bene
anch'esso sempre più scarso nelle società complesse“.
Come dire, insomma, che, alla luce della capitalizzazione del
“tempo”, non c'è istanza democratica che
tenga – del consenso “effettivo” dei cittadini
ci se ne deve fregare ampiamente o, più elegantemente
– come fosse un bene esauribile –, se ne deve “economizzare”.
Giustamente Giorgio Galli ha sottolineato come l'impostazione
di Luhmann – così come quella di Lipset e di Sartori
(o, perché no? quella di un Evola che definisce la democrazia
come “perversione ideologica tipica del mondo moderno”)
– “sia un completo capovolgimento del presupposto
illuminista: il cittadino elettore non diviene sempre più
colto e quindi sempre più informato ma sempre più
ignorante e sempre più teledipendente, per cui non è
in grado di partecipare alle scelte, ma solo di delegarle, da
'subordinato'”. Il che farebbe “regredire l'idea
di democrazia a una concezione arcaica” – una sentenza
che, a mio avviso, avrebbe potuto anche essere espressa nei
termini del Lukács de La distruzione della ragione
quando osserva che la critica occidentale alla moderna democrazia
borghese “è sempre legata all'irrazionalismo”.
3. Nel 1993, in occasione della
ripubblicazione de Le illusioni del progresso, sul “Corriere
della Sera”, Riccardo Chiaberge, apparentemente preoccupato,
annotava che “proprio ora che avremmo bisogno di riscoprire
le radici del pensiero democratico, un editore 'progressista'
non trova di meglio che propinarci il pensatore più antidemocratico
e antimoderno”. Lo stesso che Andrea Casalegno, su “Il
Sole 24 Ore“, definiva come “eroe del regresso”
seppellendo il suo pensiero come “radicali imbecillità”.
Si tratta di Georges Sorel che, nel libro di Bigalli, risulta
assente ma che, in quanto ad argomentazioni antidemocratiche,
non sfigura di fronte a nessuno. La sua sfiducia nell'istituzione
parlamentare e in coloro che, tramite questa, vorrebbero riformare
la società implica per lui la condanna della democrazia
in quanto tale. è con Vico nel ritenere che “i
cittadini delle democrazie non considerano nient'altro che i
loro interessi particolari”, ma si dice anche convinto
che “la democrazia finisce pian piano col sopprimere tutte
le opposizioni” – compreso il suo “sindacalismo”,
corrotto com'è dalle infiltrazioni di “intellettuali”
e di “socialisti ufficiali”. Quando, in odor di
conversione a destra per aver cercato sodali nell'uggia antimoderna,
scriverà la dichiarazione programmatica della rivista
che non verrà mai stampata, “La Cité française”,
la democrazia, per lui, costituirà “il più
grande pericolo sociale per tutte le classi della Cité,
principalmente per le classi operaie”. E questa volta
non si trattava semplicemente di imputare alla democrazia lo
svuotamento delle opposizioni, parlamentari e sindacali, ma
anche la “confusione delle classi”, una sorta di
esito interclassista obbligato dalle pratiche democratiche,
“al fine di permettere a qualche banda di politicanti,
associati a dei finanzieri o dominati da essi, lo sfruttamento
dei produttori”. Nel 1921, in un'amara lettera a Missiroli
in cui guarda con angoscia gli sviluppi del fascismo in Italia
– di quello stesso fascismo che, più tardi, al
momento di farsi teoria, lo eleggerà a proprio padre
se non nobile almeno alfabetizzato – e l'incapacità
del socialismo di “difendere le posizioni che aveva conquistato”,
crede di poter constatare, attorno a sé (“partout”),
“debilità intellettuale” e “democrazia
che trionfa”.
4. Contro queste argomentazioni
ho almeno tre obiezioni. La prima concerne il presupposto tacito
che le regge: l'uomo – o, al meno, l'uomo sociale –
è una bestia infida o tonta. Nessuno può sperare
che ne possa venire qualcosa di buono. È il tipico presupposto
di uno dei versanti più frequentati dei vari sistemi
di morale derivati dalla filosofia: dove il risultato di un
nostro operare – con cui giudichiamo i vari comportamenti
dividendoli in buoni e cattivi, ammessi e non ammessi –
è spacciato come caratteristica insita nella persona
che assume il comportamento in questione; dove una categoria
mentale – tutta dell'osservatore – è attribuita
come stigma dell'osservato considerato indipendente dall'osservatore.
Chi ne usa e ne abusa, di queste argomentazioni, come minimo
non si è ancora liberato da ulteriori presupposti inequivocabilmente
di ordine metafisico.
La seconda obiezione concerne la pratica della democrazia medesima.
Posso anche condividere, posso anche farla mia, la constatazione
che, nelle democrazie realizzate, qualcosa non vada per il verso
giusto a proposito della formazione – e dell'informazione
– dei suoi cittadini; posso anche essere pienamente d'accordo
sul fatto che governi e loro strumentazione tecnologica in perenne
evoluzione producano più inetti e stolidi subordinati
che cittadini consapevoli e responsabili di sé e del
proprio ruolo sociale. Ma ciò non lo posso affatto ritenere
un argomento contro la democrazia. L'argomento è analogo
a quello usato dalla borghesia faccendiera nei confronti del
comunismo – che in quanto tale sarebbe da rifiutare insieme
all'Unione Sovietica, a Cuba, alla Cina di Mao ed alle altre
soluzioni autoritarie che si sono barricate dietro il suo nome.
Se nella pratica democratica – difficile e faticosa quanto
si vuole – includo il processo di formazione dei suoi
attori, un processo in atto nell'autodeterminazione di darle
vita e di viverla, buona parte dell'argomentazione svanisce
e, alla luce del sole, ne rimane soltanto il presupposto manicheo.
La terza obiezione – rivolta ad una cerchia forse più
ristretta di interlocutori – concerne quanto si contrappone
in positivo contro il negativo di cui ci si lamenta. Per farla
breve prendo il caso di Flaubert e ci aggiungo anche quello
di Jünger. Flaubert – torniamo nel clima del detestato
suffragio universale – contrappone a ciò che lo
opprime la “autorità del nome”, il “diritto
divino” e la “supremazia dello spirito”. Solo
storia alla mano – senza ancora badare al senso delle
sue parole –, sarebbe il caso di appellarsi ad un Dio
che ce ne scampi e liberi. Nessuno può ignorare quanto
arbitrio – quanto sangue – sia alla base di qualsiasi
processo storico che ha condotto un “nome” –
sia di re che di suoi manutengoli – ad acquisire una “autorità”.
Come nessuno può ignorare il male inferto da qualcuno
– arrogatosi il ruolo di interprete, spesso unico legittimato,
mediatore autorizzato – a molti altri nel nome di un “diritto
divino” che, per quanto la si rigiri, rimane l'invenzione
di qualcuno tradotta in rituali di finzione per complici e succubi.
Che, infine, per invocare una “supremazia dello spirito”
sia prima necessario dicotomizzare l'essere umano in due parti
– assegnando valore positivo all'una e valore negativo
all'altra – è talmente evidente che non mi sembra
il caso di infierire. Voglio semplicemente dire: ammesso e non
concesso che i tratti costitutivi del suffragio universale facciano
schifo, i tratti costitutivi di quanto gli si oppone fanno più
schifo ancora. Ci volevo aggiungere anche Jünger quando
dice che “solo il poeta, il letterato, in una parola,
il ribelle possono superare l'invisibile 'muro del tempo' e
penetrare in quella 'dimensione altra', dove riposano le forze
primordiali”. Mi chiedo come possano essergli perdonate
le sue metafore e se questo straparlare possa significare qualcosa
d'altro – di più, di meno – di una retorica
che si è rivelata così funzionale all'idea élitaria
del fascismo.
5. Un altro tratto caratteristico
di questo pensiero antimoderno è di ordine storico e,
generalmente, può essere riassunto nella condanna dell'Illuminismo.
In virtù di questo clima di pensiero avremmo cominciato
a dubitare della provvidenza, la nostra felicità avrebbe
continuato a essere differita e, per di più, sotto forma
di etica del lavoro, differita sarebbe stata anche la fruizione
dei suoi benefici, ci sarebbero toccate tutte le nefaste conseguenze
dell'accumulazione capitalistica e infine – come ci avrebbe
insegnato De Sade – avremmo dovuto fare i conti con la
“catastrofica espressione del desiderio”. Avremmo
scoperto a nostre spese che la “tirannia della ragione”
– come diceva Georg Forster – è “la
più inflessibile di tutte”. Nemmeno tanto sotto
sotto, allora, viene sostenuta quella tesi del reazionario Augustin
Cochin secondo la quale le rivoluzioni in un modo o nell'altro
sono colpa degli intellettuali. Anche Sorel ce l'ha su con l'illuminismo
– e con gli intellettuali. L'impresa di Diderot e soci
gli sembra “da boudoir o da salotto” – tanto
è vero, nota, che, pur con tutta la luce che pretendeva
di emanare, non fa affatto sparire l'occultismo che, anzi, ringalluzzisce
come non mai; tanto è vero che la sua scienza non avrebbe
affatto eliminato quelle “illusioni parafisiche”
che altro non sono che le deleterie “costruzioni immaginarie
che noi facciamo della natura quando abbandoniamo il terreno
scientifico”. Da questo punto di vista, Sorel non ha tutti
i torti. Le sue argomentazioni sono ineccepibili, anche se la
sua analisi è lacunosa laddove non vede come il primo
fenomeno – il dilagare dell'occultismo e delle culture
esoteriche in genere – sia diretta conseguenza del secondo
– conti non fatti sino in fondo con la filosofia e, dunque,
sua sopravvivenza malefica nelle radici del pensiero scientifico.
6. Tra gli insoddisfatti della
modernità indagati da Bigalli c'è anche Johann
Gottfried Herder che vari decenni prima di Marx si scaglia contro
il sistema commerciale: “l'antico nome di pastore dei
popoli”, dice, “si è mutato in quello di
monopolista” e teme il momento in cui “il turbine
si scinderà in mille venti di tempesta”, allorquando,
in cerca di un'improbabile salvezza, ci si dovrà rivolgere
al “gran dio Mammone, di cui tutti siamo servi ormai”.
Questo per dire che il nemico della modernità –
nemico della democrazia – non è che straveda per
il modello capitalistico, ma – a differenza di Marx che
lo elegge a causa prima di tutti i nostri guai – gli contrappone
soltanto metafore consolatorie come quella dell'“antico
nome di pastore dei popoli” che in nessun modo può
garantire di essere meno monopolizzante di ciò che gli
è succeduto.
7. Un'altra caratteristica che
segna in modo imbarazzante queste lamentele è costituita
dall'ingenuità dell'apparato critico con cui si guarda
alla filosofia in genere e alla teoria della conoscenza in particolare.
Se per Nietzsche la filosofia “deve divenire mitologica”
– come se non lo fosse già abbastanza –,
per Julius Evola – anche per Julius Evola, verrebbe da
dire, visto che con ciò si aggiunge ad una compagnia
già numerosa – la filosofia soffrirebbe di un errore
commesso. Tuttavia, questo “errore” è davvero
poca cosa se fosse costituito dal fatto che “a partire
da Kant” si suppone che le “forme fondamentali dell'esperienza
umana siano state sempre le stesse, e propriamente quelle familiari
all'uomo ultimo”. Non si accorge che questa tesi è
ridicolmente riduttiva rispetto perfino al mito della caverna
di Platone e a tutta la filosofia scettica che l'ha seguito
– e che, presumibilmente, neppure colpisce il minimo bersaglio
che si propone di colpire. Così come Guénon ontologizza
la “qualità” e la “quantità”,
Evola ontologizza l'“ordine” (o l'“Ordine”
con la maiuscola, nel suo caso), accreditando strumenti di “conoscenza”
superiore come la “percezione psichica” di cose
e luoghi da affiancare alla più modesta “percezione
fisica” – facoltà di lusso per iniziati e
facoltà banali per popolo ignorante, un'altra “illusione
parafisica” nel catalogo di Sorel, metafora pestifera,
per me, nella misura in cui prelude alla costituzione di una
nuova aristocrazia di percettori.
8. Infine, mi soffermo brevemente
su un'ultima caratteristica – non proprio comune a tutti,
ma abbastanza frequente. Mi riferisco alla loro autodichiarata
“rivoluzionarietà”. Reificano la metafora
astronomica – quella del “giro completo” –
e cavalcano una rivoluzione cui assegnano il significato di
“ritorno allo stato di cose originario”. Non si
accorgono di compiere un errore analogo a quello dell'idea di
“progresso“ nel pensiero marxiano e marxista: dotano
l'evoluzione di senso e scopo. Ma non si preoccupano della mancanza
di un qualsiasi criterio in virtù del quale riconoscere
questa “originarietà” eventualmente ri-raggiunta,
che, pertanto – con le “forze primordiali”
di Jünger e, già che ci siamo non facciamoci mancar
nulla, con il “terzo occhio” di Helena Petrovna
Blavatsky – si rivela un ingrediente indispensabile di
uno dei minestroni più indigesti della storia delle idee
umane.
9. Il libro di Bigalli inaugura
una collana intitolata all'“Archeometro”, uno strumento
medievale studiato da Guénon e da Saint-Yves d'Alveydre
“che serve a misurare il legame che ogni cosa mantiene
con il principio”. Già l'ontologizzazione del “principio”,
la misteriosità della natura del “legame”
e la pretesa di “misurarlo” mi basterebbero, ma
il fatto che sia “formato da una serie di cerchi concentrici,
ognuno dei quali contiene il simbolo di un certo piano della
realtà o una categoria di cose, tra cui i segni planetari
e le lettere degli alfabeti, ma anche lo zodiaco e gli elementi
chimici”, mi convincerebbe dell'urgente necessità
di prendere appuntamento con l'apposita istituzione comunale
per gli sgomberi e lasciarlo sul ciglio della strada alle sei
di mattina. Tuttavia, non è con lo strumento che ho a
che fare. Queste spiegazioni che lo riguardano sono contenute
in un corposo saggio di Andrea Scarabelli che viene premesso
al libro – come un incipit di qualcosa che si estenderà
ben oltre il libro medesimo. Fra il tanto d'altro, ivi si può
leggere che “una critica al presente” – alla
modernità – “può essere integrale”
solo ad una condizione: che questa critica sia “sviluppata
in senso metafisico”, perché “è solo
dal ricorso a questa dimensione che si può pensare di
ricostruire una epoca nuova”. Qui io ritengo che Scarabelli
abbia torto e vorrei convincerlo a guardare le cose in modo
diverso. Gli chiedo – e mi chiedo – se di epoche
solidamente costruite sulle metafisiche non ce ne siano mai
state e se sì se siano state fonte di felicità
(per le moltitudini, non solo per i pochi al potere). Gli chiedo
– e mi chiedo – se, ed eventualmente quando, ci
sarebbe toccata quella che per lui è una iattura e che
per me sarebbe un'immensa fortuna di esserci liberati dalla
metafisica. Non verrò mica a scoprire oggi – dopo
tanta vita allora spesa invano – che i neo positivisti
e magari già quelli non neo l'hanno avuto vinta? Dicendolo
in quello che per me resta un malo modo – un po' troppo
vago – anch'io potrei avere parecchi motivi per dolermi
del mondo attuale – e, infatti, me ne dolgo spesso: lo
dico, lo scrivo, a volte mi ci strazio –, ma mai lo farei
in nome e per conto di un pensiero metafisico qualsiasi cosa
possa ciò voler dire. Non voglio ipostatizzare alcunché,
preferisco considerare ogni mia percezione, categorizzazione
e semantizzazione come risultato di operazioni innanzitutto
mie e, poi, constatare in che misura queste siano condivise
con altri. Nel caso m'imbattessi in differenze sono disposto
a negoziare, a scavare nei criteri miei e altrui, a confrontarli,
a stimarne insieme l'efficacia. L'accettazione di un principio
“dato” – di ordine metafisico, suppongo –
so che danneggerebbe la mia relazione con gli altri.
10. In Trockij e le orchidee
selvatiche, il filosofo statunitense Richard Rorty dice
che “non c'è nessun terreno comune e neutro su
cui” lui e un “filosofo nazista” possano porsi
“per discutere” le loro “differenze”.
Tanto per cambiare, non sono d'accordo con lui. Lasciamo perdere
quella “neutralità” richiesta al “terreno
comune” – non so cosa sia, non so cosa possa intendere,
non voglio nemmeno perderci tempo dietro. Guardiamo al resto.
Rorty si sbaglia perché un “terreno comune”
è costituito dalle operazioni mentali designate dalle
parole che usiamo. È grazie a queste operazioni che possiamo
tradurre da una lingua all'altra e, in definitiva, comunicare
anche tra parlanti la medesima lingua. Si aprirà una
negoziazione sui significati delle parole che usiamo? Si tratterà
di un negoziato lungo, faticoso, irto di difficoltà?
Certo. E senza aver innanzitutto prodotto l'uno all'altro un
modello dell'operare mentale, presumibilmente, non si potrà
neppure cominciare. Ma chi ha mai detto che si sarebbe trattato
di un compito facile? Qui, sostengo che il compito è
possibile e che, tragedia della storia umana innanzi ai nostri
occhi, è doveroso provarci. Sono d'accordo, allora, con
Bigalli sulla necessità di pescare anche nella pattumiera
della storia delle idee e riflettere sopra quel che vi troviamo
– può essere molto istruttivo. Ma a patto che la
riflessione non sia monca, a responsabilità limitata.
A patto che delle categorie rinvenute si faccia analisi e che
non ci si trinceri dietro un insussistente camice professionale
che, magari con la scusante di designare una specializzazione
– una nuova forma retorica per la presunta “neutralità”
–, si consegni un semilavorato buono per tutti gli usi.
Felice Accame
In “A“
363 (giugno 2011) Felice Accame si era occupato di un altro
libro dello stesso Davide Bigalli: Il ritorno del re.
Nota
Molte delle citazioni utilizzate in questo saggio sono tratte
dal libro di Bigalli di cui si discute. Molte altre sono tratte
da Il pensiero politico occidentale di Giorgio Galli
(Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2010).
Per Sorel, poi, cfr. P. Accame, Georges Sorel. Le mutazioni
del sindacalismo rivoluzionario (Prospettiva editrice, Civitavecchia
2009).
Il numero del “Corriere della Sera” citato è
quello del 17 marzo 1993, mentre quello del “Sole 24 Ore”
è quello del 21 marzo dello stesso anno.
Per il tanto che qui, per forza di cose, tralascio di dire,
cfr. F. Accame, La funzione ideologica delle teorie della
conoscenza (Spirali, Milano 2002). Ivi, anche per le mie
obiezioni a Rorty.
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