Sudafrica
Il massacro di Marikana
di Antonio Senta
Migliaia di minatori scioperano contro
una multinazionale del platino, scatenando la durissima repressione
della polizia e dando il via a una serie di agitazioni.
È il 16 agosto 2012 quando,
nei pressi della miniera di platino di Marikana, circa cento
chilometri a nord ovest di Johannesburg, la polizia apre il
fuoco freddando trentaquattro lavoratori in sciopero e ferendone
altri ottanta. La notizia “buca” i dormienti media
italiani, resiste per qualche giorno e poi scompare, sommersa
dalla mole di informazioni, gran parte delle quali inutili,
con cui siamo quotidianamente bombardati. Ma cosa è successo
davvero? Questo i nostri media mainstream non l'hanno
proprio detto. Anche quelli sudafricani sono stati menzogneri,
cercando di far passare la notizia secondo cui la strage sarebbe
stata causata da un conflitto tra sindacati e che la polizia
avrebbe agito per autodifesa a fronte di un attacco armato da
parte dei minatori.
La verità è tutt'altra e ci è giunta nei
giorni successivi solo grazie alla controinformazione di lavoratori
e attivisti sudafricani. Circa tremila addetti ai pozzi (rock
drill operators), in buona parte immigrati da altre zone
dell'Africa, entrano in sciopero il 10 agosto, supportati dalla
Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu), un
sindacato autonomo nato una decina di anni fa in opposizione
alle politiche accomodanti della National Union of Mineworkers
(Num) affiliato al Congress of South African Trade Unions (Cosatu)
sindacato amico dell'African Natonal Congress, partito che fu
di Mandela e che è al potere dal 1994. I lavoratori chiedono
aumenti salariali da quattromila rand mensili (quattrocento
euro) a dodicimila e incontrano il netto rifiuto dei padroni
della miniera, ma anche del Num, che si mette da subito a organizzare
i crumiri.
La miniera, che impiega ventottomila persone, è di proprietà
della multinazionale Lonmin, terzo produttore mondiale di platino.
A Marikana viene estratto il dodici per cento della produzione
mondiale di platino di cui il Sudafrica è primo produttore
al mondo e di cui possiede l'ottanta per cento delle riserve
mondiali. Il platino, così come altri minerali più
o meno preziosi che il Sudafrica possiede in quantità,
è richiestissimo in particolare dall'India, dal Brasile
e dalla Cina, paese che attua una politica imperialista nei
confronti di tutto il continente africano.
I minatori ufficialmente non sono dipendenti della Lonmin ma
di società in subappalto: sono quindi precari, lavoratori
a contratto, assunti ora da un padrone ora da un altro secondo
quella ben nota logica delle “scatole cinesi” che
è, evidentemente, cifra della globalizzazione, usata
tanto nel sud del mondo quanto nel “ricco” nord.
Non hanno pressoché nessun diritto di sciopero e infatti
la loro astensione dal lavoro viene dichiarata subito illegale
dalla Lonmin: il loro è, per forza di cose, uno sciopero
selvaggio.
La maggior parte dei lavoratori di Marikana dorme in baracche
nei pressi delle miniere, in un contesto sociale di estremo
degrado. Le donne vivono sulla loro pelle tale situazione e
subiscono violenze “inimmaginabili”, secondo quanto
riportano le compagne sudafricane del New Women's Movement,
mentre frequenti sono le malattie dei bambini, costretti a condizioni
di estrema indigenza.
Lo sciopero
continua
Dopo sei giorni di sciopero cinquecento poliziotti, tra i
quali i corpi speciali dell'antisommossa muniti di fucili d'assalto,
con cavalli, blindati ed elicotteri irrompono su una collina
nei pressi della miniera dove sono assembrati i minatori in
sciopero. L'ordine del governo è preciso. I poliziotti
circondano l'area con del filo spinato, attaccano con idranti
e lacrimogeni dai blindati e dagli elicotteri, lasciando solo
un varco da cui gli scioperanti provano a fuggire. Non appena
ciò avviene, aprono il fuoco. Cadono in trentaquattro,
tutti colpiti alle spalle o schiacciati dai mezzi della polizia
mentre cercano di fuggire, come risulterà da alcune ricerche
indipendenti svolte sul luogo del massacro. Questi morti si
sommano ad altre dieci vittime: sei lavoratori e quattro guardie
giurate erano state uccise nei mesi precedenti, conseguenza
di un'agitazione sociale diffusa e di un'opera di repressione
che si è intensificata nell'ultimo anno, a Marikana così
come nelle altre miniere di platino del paese. Duecentossessanta
minatori sono arrestati e portati in tutta fretta in tribunale
dove vengono condannati per porto abusivo di armi (bastoni e
machete).
Nonostante tutto questo, dopo la strage lo sciopero continua
coinvolgendo non solo i rock drill operators, ma anche
i due terzi dei ventottomila lavoratori dell'impianto che fanno
proprie le istanze degli addetti ai pozzi. La multinazionale
dapprima minaccia di licenziare chi non si presenti in miniera,
ma poi - di fronte alla massiccia astensione al lavoro - rinuncia
al proposito. Non solo: tra la fine di agosto e l'inizio di
settembre migliaia di minatori di altri impianti del paese,
sia di platino (Royal Bafokeng Platinum e Anglo American Platinum,
il più grande produttore mondiale) che di oro (KDC Gold
Mine, Gold One's Modder East) scendono in sciopero in solidarietà
alle vittime, esigendo anch'essi sostanziosi aumenti salariali.
In diverse parti del paese ci sono mobilitazioni e cortei, nonostante
il lavoro di camuffamento della verità svolto da televisioni
e giornali. Proprio in seguito a questa diffusa agitazione buona
parte dei duecentosettanta minatori arrestati viene scarcerata.
A metà settembre, dopo sei settimane di sciopero, il
valore delle azioni della Lonmin è sceso ormai del venti
per cento e la produzione è calata di settantacinque
milioni di dollari, mentre il prezzo del platino è salito
dai millequattrocento dollari all'oncia del 16 agosto ai milleseicentocinquanta
dollari all'oncia di un mese più tardi. Solo a questo
punto la proprietà cede e decide di aumentare il salario
dei rock drill operators del ventidue per cento portandolo
a undicimila rand e degli altri lavoratori dell'undici per cento.
Questa decisione viene seguita da altri impianti e trova il
favore dei minatori, che tornano al lavoro. Nello stesso giorno
dell'accordo il Cosatu annuncia di volere dare il via a una
triplice campagna per limitare per legge l'utilizzo dei crumiri,
per riformare i corpi di polizia utilizzati nei conflitti sociali
e per mettere in pratica una “carta dei minatori”,
su cui basare una lotta per il miglioramento complessivo delle
condizioni di lavoro dei cinquecentomila uomini impiegati nel
settore. Dichiarazioni opportunistiche, certo, ma che mostrano
bene come il governo e i maggiori sindacati abbiano bisogno
di recuperare una situazione che rischia di sfuggire loro di
mano.
Tra
passato e presente
Il massacro di Marikana è un fatto inedito per il Sudafrica
del dopo 1994 e ricorda le stragi dell'apartheid. Nelle
loro e-mail diversi compagni hanno ricordato cosa accadde nella
township di Sharpeville nel 1960, quando la polizia aprì
il fuoco su una folla di manifestanti che protestava contro
la politica segregazionista lasciando sul selciato sessantanove
persone, o a Soweto nel 1976, quando la rivolta giovanile contro
l'imposizione dell'uso dell'afrikaans nelle scuole fu
repressa con centinaia di morti (il numero esatto delle vittime
è tutt'ora sconosciuto).
Eppure a nessun sudafricano cosciente sfugge il fatto che a
ordinare il massacro di Marikana sono stati alcuni dei protagonisti
della lotta all'apartheid. Certo si sapeva che dalla
liberazione di Mandela a oggi il Sudafrica ha vissuto vent'anni
di egemonia neoliberista che ha ampliato la forbice tra i pochi
ricchi e la gran massa di poveri e poverissimi. Si sapeva che
la giustizia sociale, propagandata dal governo, era solo retorica.
Eppure per molti sudafricani neri non deve essere facile accettare
che i responsabili del massacro di Marikana sono gli stessi
che partecipavano agli scontri di Soweto una trentina di anni
fa.
Fatto sta che i partiti politici e i sindacati (Anc e Cosatu
in testa) che hanno guidato la lotta di liberazione sono da
tempo passati dall'altra parte della barricata. La realtà
è che il 1994 ha restituito sì i formali diritti
civili alla popolazione nera, ma ha anche dato nuova linfa alla
discriminazione sociale. Una ristretta élite di
neri è stata cooptata attraverso le politiche di Black
power empowerment (Bpe) a spese della grande maggioranza
che popola le township. Tutti gli indicatori (occupazione,
accesso a servizi di base quali l'acqua, l'elettricità,
la casa, i trasporti) testimoniano che negli ultimi venti anni
la qualità della vita dei sudafricani poveri è
peggiorata enormemente.
Con il massacro di Marikana dell'agosto 2012 la favola della
nazione arcobaleno si è definitivamente infranta. La
continuità con il regime dell'apartheid emerge
chiaramente dai protagonisti di questa drammatica vicenda, protagonisti
che sono sempre gli stessi: multinazionali straniere, governi
amici dei padroni occidentali, una polizia feroce, i giacimenti
di metalli preziosi e la loro centralità nel mercato
mondiale. Non a caso la Lonmin, che oggi ha sede legale a Londra,
è l'erede diretta della London Rhodesian Mining Company,
nata negli anni Sessanta in Sudafrica per volere di una delle
icone dell'apartheid, Tiny Rowland.
La lotta oggi è quindi ancora più impegnativa
di quella che ha messo fine all'apartheid. Per portarla
avanti è necessario rafforzare reti di solidarietà
tra quei lavoratori che, a ogni latitudine del globo, intendono
resistere all'attività predatoria e devastatrice del
capitalismo. Farlo implica non cedere alla demagogia della politica
ufficiale e dare voce all'autonomia e alla dignità di
chi lavora. Farlo significa innanzitutto svelare le menzogne
dell'informazione ufficiale e provare a ristabilire la verità.
Antonio Senta |