dibattito violenza
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Critica della ragion violenta
di Francesca Palazzi Arduini
Ma è proprio vero che “se la giustizia è
borghese, la violenza è proletaria”?
Riflettendo sulle recenti conquiste (e sconfitte) dei movimenti,
la proposta di un'etica popolare non-violenta.
A volte
la gente protesta / e scende per strada a cantare
/ è come vedere una festa / il popolo intero
che va / la rabbia non ha alternativa / laddove l'amore
non c'è / ma attenti che la rotativa / si porta
la rabbia con sé.
Chico Buarque
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Le recenti vittorie dei movimenti
autorganizzati, il referendum sull'acqua pubblica, la tenuta
del movimento No-Tav, le manifestazioni operaie in tante città,
la protesta animalista contro Green Hill; di contro, la disfatta
della manifestazione del 15 ottobre a Roma, i referendum traditi,
i postumi della reazione fascista alla contestazione del G8
di Genova: tutto ciò impone una riflessione drastica
sulla violenza e sul suo uso da parte dei movimenti.
Abbiamo di fronte le prove che i piccoli cambiamenti portati
da tutte le persone di buona volontà per le lotte di
classe, i diritti umani, la giustizia sociale, l'ecologia, l'animalismo,
non sono sufficienti a fermare i grandi disastri progressivi
di un sistema politico ed economico che muove masse così
grandi da risultare uno schiacciasassi. Mentre i movimenti a
base assembleare, come il recente 'Occupy', promuovono su larga
scala le regole libertarie del consenso e dell'ascolto, mentre
il web dà ancora prova di poter essere un contenitore
di azioni informative autogestite e liberate dal profitto...
il “sistema” si mangia quattro dei tre passi avanti
che ogni giorno, faticosamente, facciamo.
Gli spazi sociali liberi diminuiscono, mentre il controllo sociale
aumenta in maniera vertiginosa e le persone sono indirizzate
verso il godimento passivo di spazi e modalità di espressione
artificiali, privi di contenuti pensati originali. L'imitazionismo
è ai più alti livelli, così la tecnica
pubblicitaria e mercantile nelle relazioni umane, nella politica,
nell'arte. L'individuo è un vuoto aperto.
È vero che i sistemi statali di reazione violenta alle
proteste e la schedatura totale sono sempre più organizzati
a livello globale, ma la paranoia ci spinge a vedere questo
sistema molto più organizzato di quello che è,
sino a diventare complottisti: è un segnale del nostro
sentirci deboli di fronte a sistemi politici, finanziari, commerciali,
che fanno danni su grande scala e che invece di incepparsi si
rigenerano a nostre spese.
Al di là della riduzione dell'incidenza della protesta
al solo livello culturale, al restringimento delle capacità
e possibilità di intervento sulle grandi scelte economiche
e sociali più urgenti da fare, il grave problema, non
solo italiano, è l'incapacità di saper dire “no”
all'uso della violenza nell'azione politica, alla devastazione
nostra (per l'acquisizione dei modi militari della violenza)
e altrui; violenza con la quale c'è chi crede di poter
sopperire alla nostra “non-potenza” e di poter avere
una moneta di scambio mediatica, non avendo null'altro.
Non si sa distinguere tra forza e violenza e non è raro
assistere all'omertà e al silenzio acritico quando si
tratta di esprimere un'opinione sulla frequente presenza alle
manifestazioni di gruppi organizzati per azioni di guerriglia
e teppismo, la cui attività politica produce eventi funzionali
solo alla comunicazione mediatica che denigra i movimenti popolari
tramite i mass media più forti, che restano sempre e
comunque quelli televisivi.
Le azioni di distruzione sono il compito auto-assegnatosi da
chi vuole “interpretare” la rabbia popolare. Le
battaglie in realtà, se sono vive e vengono vinte, lo
sono con i mezzi pazientemente e faticosamente adoperati del
confronto politico, delle azioni legali, della resistenza pacifica,
del boicottaggio popolare pacifico nelle città, nei quartieri,
nei tribunali, nei luoghi di lavoro, con una forza quindi che
potremmo definire civile, e non nelle strade o nelle piazze
trasformate in campi di battaglia.
Genova è stata un laboratorio in questo senso: un movimento
trasversale, capace di riunire le differenze e di far sentire
la propria presenza organizzandosi e scambiando, nel tempo,
contatti ed esperienze, è stato fatto macello della reazione
fascista con l'alibi della reazione alla violenza. Lo stop dato
alla protesta popolare è stato chiaro, tant'è
vero che ancora se ne pagano i costi sociali. Solo la voce femminista
si è levata a contestare la scelta organizzativa di giungere
a patti con l'ala dei ‘Black block' e con l'intenzione,
tutta maschile, di puntare alla conquista territoriale della
“Zona rossa”.
Ciò non significa che sia giusto censurare la propria
radicalità, e omogeneizzare, come alcuni vorrebbero,
anche la protesta. Anzi, il pensiero libertario dovrebbe essere
presente nei contesti di lotta per impedire la trasformazione
dei movimenti in pedine della “forma partito”, che
trasforma le idee in macchine per promuovere nuovi burocrati
e nuovi portavoce di mestiere, i quali finiscono per parlare
sempre per se stessi.
La non-violenza
può essere azione diretta
In definitiva, il vecchio slogan “Se la giustizia è
borghese, la violenza è proletaria” può
considerarsi un sostegno retorico all'incapacità di cambiare.
La violenza del sistema, della polizia, dell'esattore, del giornalista,
andrebbe affrontata tamponando con la forza della massa autocosciente.
Per questo occorre trovare rimedio alla schizofrenia di movimenti,
divisi tra espressioni di protesta “giocose”, allegre
e satiriche, e i metodi teppistici o di guerriglia col mito
della “avanguardia”, divisione che è risaltata
in tutta la sua tragicità ed inefficacia il 15 ottobre
a Roma.
Per fare questo con efficacia occorre rinunciare alla rabbia
incontrollata e alla violenza come strumento politico ma non
solo, occorre promuovere nuovi sistemi di lotta non-violenta
e portare in evidenza nel pensiero politico la non-violenza
e il non-leaderismo, la capacità di decidere tramite
le assemblee e il sistema della delega solo temporanea. Se le
cose vanno altrimenti il segnale è che l'affermazione
“siamo il 99%” è vera solo in termini economici.
Lavorare sulla nostra rabbia è possibile: possiamo provare
nella quotidianità la nostra forza numerica sull'avversario,
scriveva Aldo Capitini, “La non violenza non può
accettare la realtà come si realizza ora, attraverso
potenza e violenza e distruzione dei singoli, e perciò
non è per la conservazione, ma per la trasformazione;
ed è attivissima, interviene in mille modi, facendo come
le bestie piccole che si moltiplicano in tanti e tanti figli”.
⨠Possiamo mettere in pratica azioni di disobbedienza minime
e diffuse, come quelle dei Disobbedienti di Desobeir.net,
o col metodo della presenza delle Donne in nero, così
come possiamo impegnarci nella organizzazione di vasti movimenti
di disobbedienza civile nei posti di lavoro, nelle città,
ad esempio con l'attività sindacale, ma anche con l'autorganizzazione
civile in gruppi di “transizione”, che ricreano
un tessuto sociale attivo in quartieri e paesi, coi piccoli
spazi libertari e anarchici di auto-aiuto, o partecipando alle
reti, cercando modi per sfuggire alla morsa fiscale e penale
che è stata stretta attorno ai movimenti di autoriduzione
di tasse e gabelle ingiuste, come di recente ha fatto la rete
No-inc contro la tariffa Enel.
Ma possiamo fare anche azione diretta non violenta. In questo
momento uno dei sistemi di chi domina per sfuggire alle contestazioni
è quello di rendersi anonimi e/o riunirsi in posti blindati
e irraggiungibili. Possiamo lavorare per raggiungere nella quotidianità
queste persone-simbolo rendendo evidente la nostra protesta
con metodi non-violenti, manifestare e praticare la disobbedienza
civile e il boicottaggio in tutte le necessarie sedi periferiche
delle istituzioni di potere che dobbiamo contestare. Questo
tipo di pratica ha già dato ottimi risultati nelle battaglie
politiche locali, quando di fronte a scelte ingiuste l'amministratore
crede di potersi trincerare nell'anonimato e nella sua agenda
di impegni ma viene comunque raggiunto, con sit-in e contestazioni,
nei luoghi ove vive e lavora.
La non-violenza è soprattutto un valore, un valore che
richiama all'importanza dell'individualità e “indistruttibilità”,
come scrive Capitini, della persona umana. Dobbiamo ricordare
che chi contestiamo è in realtà solo un temporaneo
sfruttatore e portavoce di forze che ci sono estranee ma non
aliene, che sono il risultato della storia della nostra in-civiltà.
Che sia un politico colluso, un burocrate portavoce di gruppi
finanziari, uno sfruttatore o un fascista. Non siamo lì
per sfogare la rabbia su lui o lei in quanto persona-bersaglio,
ma per ottenere giustizia, contestare un metodo o una scelta,
e soprattutto togliergli potere, autorità e credibilità.
Per far questo occorre che chi contesta possieda autorevolezza,
sappia opporsi fermamente, senza indulgere nelle cadute di tono
che caratterizzano la violenza, con la riduzione della persona,
degli oggetti e dei luoghi a bersaglio, la trasformazione della
parola a slogan, la mutazione della dignità in anonimato.
Dobbiamo anche ricordare che se è una trappola l'invito
al dialogo e alla “trattativa” sui nostri sacrosanti
diritti - e così non ci recheremo a discutere con un
cattolico integralista il nostro diritto di donne ad autodeterminare
il nostro corpo, e non sdoganeremo un'iniziativa fascista accettando
l'invito a dissertare sulle nostre politiche - ancora più
trappola è cadere nella convinzione che sia giusto negare
il diritto alla parola, perché è tramite la parola,
oltre che tramite l'esempio e il contatto, che le persone si
esprimono e imparano a uscire dal pregiudizio, e tramite la
propaganda che invece vengono asservite.
Per
resistere “un minuto in più”
“Anarchia vuol dire non-violenza”, scriveva Errico
Malatesta. Proprio la responsabilità di rifondare una
civiltà nuova deve darci l'imperativo morale di non assecondare
alcun leaderismo e gesto violento e di ricercare forme nuove
per affrontare chi domina su terreni e con modalità che
non gli consentano di neutralizzarci.
Nella società vi saranno, per dirla come Capitini “...
due gruppi di persone: quelle che useranno eventualmente la
violenza, e quelle che non la useranno, ma esplicheranno un'intensa
attività”. Questa “intensa attività”
è propria da sempre delle persone che sostengono i movimenti
di ri-voluzione sociale. Per queste persone e in questi movimenti
è fondamentale il riconoscimento della persona, non come
“numero” o “militante”, ma come individuo.
Ed è fondamentale che gli individui sappiano riconoscere
e muovere le dinamiche dei gruppi, per mantenerli liberi da
manipolazioni. Bookchin già ricordava l'importanza di
queste dinamiche in L'ecologia della libertà.
In questo momento politico, prossimo a tragici mutamenti globali,
è fondamentale ribadire e rinnovare questo valore, opposto
alla proposizione della violenza come strumento di lotta.
La struttura sociale ci toglie tempo ma chi ci governa non ha
calcolato quanto tempo abbiamo di nuovo, a causa della crisi,
per tornare ad essere presenza viva nel tessuto sociale della
protesta, nelle città e nei territori in genere: sit-in,
boicottaggi, scioperi, serrate, marce, sottrarsi, rifiutare,
propagandare, discutere, denunciare, disobbedire, contestare
i mass media, portare il discorso sulla rappresentanza e sul
voto ad una attenzione più marcata e dirompente nella
politica locale e nazionale.
Ricordando che la parola “rivoluzione” significa
cambiamento di prospettiva e di orizzonti, se ora ha qualche
possibilità d'applicazione concreta, richiede l'abbandono
dei pesi morti ideologici e la dedizione a pochi chiari concetti
e a un obiettivo: vincere ogni giusta vertenza con il peso di
una massa dotata di ragione non violenta, che “resista
un minuto in più del padrone”.
L'azione non violenta è quindi una scelta strategica
di base, che sottende anche un patrimonio culturale tutto da
costruire rispetto all'organizzazione. Fatti come la morte di
Mariarca Terracciano, o la caduta di Luca Abbà, possono
sottolineare che senza una rete forte a sostegno delle proteste,
ed anche un comune sentire culturale, la buona volontà
individuale può purtroppo diventare martirio.
Dobbiamo dar forza alle lotte, quindi, cercando un equilibrio
che eviti l'esasperazione ma ne tragga il coraggio a buon fine.
Se le cose vanno altrimenti significa che il veleno digitale
dell'immobilità che genera rabbia e le tossine dell'emulazione
del potere ci hanno reso incapaci. Ma con le parole di Capitini
“non violenza è apertura”, manteniamo la
speranza che una maggiore fiducia e intensità etica nelle
lotte possa aprire al cambiamento.
Francesca Palazzi Arduini
Tre letture
che consiglio
Aldo Capitini,
Religione aperta (Editori Laterza, Bari, 2011)
Murray
Bookchin, L'ecologia della libertà.
Emergenza e dissoluzione della gerarchia (Eleuthera,
Milano, 2010, pagg. 558)
Manifeste
des Desobeissant, http://www.desobeir.net.
F.P.A.
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