ricordando Victor
Serge
Memoria di mondi perduti
di Claudio Albertani
Victor Serge, il vagabondo geniale, il rivoluzionario fuori-riga,
lo scrittore russo di lingua francese nato in Belgio, riposa
nel cimitero spagnolo di Città del Messico. La sua
eredità spirituale s'innalza oltre le nubi che oscurano
il nostro tempo.
In ricordo
di Vladimir Kibalchich (1920-2005),
meglio conosciuto come Vlady,
che dipinse le ossessioni di suo
padre, Victor Kibalchich (1890-1947),
meglio conosciuto come Victor Serge.
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A oltre sessant'anni dalla
prima edizione pubblicata a Parigi nel 1951, le Memorie di
un rivoluzionario hanno superato la prova del tempo. Ecco
un testo indispensabile per capire la tragedia delle rivoluzioni
sconfitte che è, al tempo stesso, un classico della letteratura
e una commovente testimonianza umana. Fin dalle prime pagine,
quando emerge quel “mondo senza evasione possibile, dove
l'unico rimedio era lottare per un'evasione impossibile”,
le tappe del dramma si succedono in un ordine implacabile. Il
finale era implicito nel principio? Serge crede di no e non
accetta il ruolo di vittima: “Una necessità che
assomiglia alla complicità, – annota, – lega
frequentemente la vittima al torturatore, il martire al carnefice”.
Come Nietzsche, sua passione di gioventù, e come Benjamin,
che conobbe di sfuggita, l'Autore esprime la necessità
di tornare al passato per raccoglierne l'eredità e le
speranze perdute. La parola “destino”, da lui spesso
usata, non implica la fatalità, né esclude la
volontà. Quando parla di “noi”, non annulla
l'individuo, ma si riferisce a un “io” molteplice
e collettivo che riassume le passioni e le speranze della sua
generazione, oltre ogni espressione di parte. Il risultato è
una scrittura polifonica, volta a riscattare la “memoria
di mondi perduti”, come recitava il titolo originale pensato
da Serge, troppo modesto per arrogarsi l'attributo di “rivoluzionario”.
Alla fine, il libro fu pubblicato postumo con il titolo scelto
da suo figlio Vlady, autore del magnifico quadro che figura
in copertina dell'edizione curata dal mio vecchio amico Roberto
Massari.
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Nascita
del vulcano Paricutin. Con il pittore Dr. Atl ed una sconosciuta |
Le radici libertarie
Scrittore francese di sangue e spirito russo, romanziere,
poeta, storico, giornalista e traduttore, Victor-Napoleon Lvovich
Kibalchich – alias Victor Serge, Le Rétif,
Le Masque, Ralph, R. Albert, Victor Stern, Victor Klein,
Alexis Berlowsky, Sergo, Siegfried, Gottlieb, V. Poderewski
e qualche altro pseudonimo – nacque in esilio a Bruxelles,
il 31 dicembre 1890, e morì, sempre in esilio, a Città
del Messico, il 17 novembre 1947. Visse il mondo ipocrita della
Belle Époque, l'esaltazione comunista degli anni Venti
e l'incubo totalitario della “mezzanotte del secolo”.
Passò per le correnti più importanti del movimento
operaio: il socialismo riformista, il comunismo anarchico, l'individualismo,
l'anarcosindacalismo, il bolscevismo e il trotzkismo, senza
mai abbandonare una spiccata sensibilità libertaria.
Trascorse una decina d'anni di prigionia in diversi Paesi, partecipò
a tre rivoluzioni – la spagnola (1917), la russa (1919-20)
e la tedesca (1923) – e fu attivo anche in Belgio, Francia,
Austria e Messico. Sopravvisse al GULag e alla barbarie nazista,
e fu tra i primi a qualificare l'URSS come un regime totalitario.
Autore di culto, sebbene quasi sconosciuto al grande pubblico,
non sviluppò un sistema dottrinale né lasciò
una scuola di pensiero. Non fu neppure un intellettuale nel
senso tradizionale; in ogni tappa critica, cercò di dare
alle esigenze dello spirito uno sbocco nell'azione. La sua attualità
risiede nella riflessione traboccante, letteraria e poetica
ancor più che teorica, sulla tragedia di una rivoluzione
che divora se stessa. Nelle centinaia di pagine che dedicò
a questo tema, mantenne la freddezza dell'analista distaccato
conservando, allo stesso tempo, la passione militante e la certezza
di un avvenire migliore.
È impossibile avvicinarsi all'opera di Victor Serge senza
evocare le sue vicende umane. Nato nel seno di una famiglia
poverissima, cominciò a guadagnarsi la vita a quindici
anni. Fu, in ordine successivo, apprendista fotografo, fattorino,
gasista, disegnatore tecnico, tipografo, traduttore, giornalista
e correttore di bozze. Un lontano parente, il chimico Nicolai
Kibalchich, era stato l'esperto in esplosivi della Narodnaia
Volia (Volontà del Popolo), la famosa organizzazione
rivoluzionaria erede del populismo, che vedeva nella comune
rurale russa (il mir) la possibilità di costruire
un socialismo contadino. casa Kibalchich, la poesia sostituiva
la preghiera e si narravano storie di attentati, processi e
fughe dalla Siberia, in un'atmosfera analoga ai romanzi di Dostoevskij,
Chernichevsky e Turgenev. Nei tanti alloggi di fortuna dove
visse la famiglia, poteva mancare il pane, ma vi era sempre
un samovar fumante, libri in varie lingue e foto di vittime
della repressione. La famiglia sopravviveva a stento: Raoul-Albert,
il fratellino minore, morì di fame e, anni dopo, la madre
Vera finì stroncata dalla tubercolosi, la malattia dei
poveri.
Da quei genitori atipici che lo colmarono d'affetto, senza mandarlo
a scuola, Victor ereditò il raro dono della coscienza
sociale, un'insaziabile curiosità intellettuale e una
grande indipendenza di spirito. Il padre Leonid, che si rifaceva
all'evoluzionismo di Herbert Spencer, trasmise al figlio la
cultura scientifica e materialista del suo tempo, mentre Vera,
donna di grande sensibilità e raffinatezza, lo iniziò
alla poesia e alla letteratura universale. A ciò bisogna
aggiungere un sapere fatto di biblioteche popolari, circoli
di studio, pubblicazioni sindacali, feuilleton, opere
di divulgazione scientifica e tutto l'arsenale della cultura
popolare dell'epoca.
Le prime esperienze militanti, descritte all'inizio delle Memorie,
sono legate all'amicizia con alcuni giovani proletari con i
quali aderì al Partito Operaio Belga (POB), entrando
però ben presto in conflitto con gli interessi meschini
che vi regnavano. La lettura di Ai giovani di Kropotkin
li spinse a cercare contatti con il movimento anarchico e in
particolare con lacolonia libertaria L'Expérience,
a Stockel, nei pressi di Bruxelles. È in questo ambiente
che Victor maturò quella sensibilità libertaria
che lo avrebbe accompagnato per il resto dei suoi giorni. L'anarchismo
lo conquistò perché, a differenza del socialismo,
esigeva l'accordo tra gli atti e le parole.
Parigi lo attraeva. Non la Parigi degli intellettuali e del
glamour, ma la Parigi della Comune, la capitale delle rivoluzioni
europee. Vi arrivò non ancora ventenne, trovando impiego
come disegnatore industriale e si unì a Rirette Maitrejean,
giovane collaboratrice de L'anarchie (con la “a”
minuscola), giornale che proclamava un individualismo radicale,
nemico non solo del vecchio militantismo sacrificale, ma anche
del nascente sindacalismo rivoluzionario. Victor pubblicava
articoli incendiari con lo pseudonimo di Le Rétif
(il refrattario) affermando che per fare la rivoluzione
non è sufficiente essere sfruttati, bisogna rifiutare
coscientemente la servitù volontaria.
Nel frattempo, alcuni suoi amici avevano deciso di passare all'azione.
Le Rétif difendeva la legittimità della
rivolta, ma si opponeva alla violenza cieca e risentita. L'arrivo
a Parigi del meccanico lionese Jules Bonnot segnò l'inizio
di una stagione di follia eroica. Il dramma ebbe inizio il 21
dicembre 1911 con la rapina alla Société Générale
e terminò qualche mese dopo con la morte in combattimento
di Bonnot e di alcuni suoi sodali, la ghigliottina per altri,
la condanna ai lavori forzati per altri ancora... Victor fu
arrestato il 31 gennaio 1912 con l'accusa iniziale di ricettazione
d'armi. Al processo, cercarono di presentarlo come il “cervello”
della banda. Era una falsità e la manovra fallì;
nondimeno fu condannato a cinque anni di prigione che avrebbe
scontato fino all'ultimo giorno. La sua colpa? Non volersi trasformare
in delatore.
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Disegno
di Vlady, Ciudad Trujillo, 1941 |
Un
bolscevico tutto particolare
Alla scarcerazione, il 31 gennaio 1917, Le Rétif
venne espulso dalla Francia rifugiandosi a Barcellona, dove
lavorò come tipografo. Si separò da Rirette e
si avvicinò alla Confederación Nacional del Trabajo
(CNT), di tendenza anarcosindacalista, partecipando fra l'altro
all'organizzazione della fallita insurrezione di luglio. Incominciò
a usare un nuovo pseudonimo, Victor Serge, e pubblicò
sul giornale anarchico Tierra y Libertad una serie di
articoli, dove cominciava a prendere le distanze da Nietzsche
e, implicitamente, dall'individualismo. La rivoluzione russa
lo chiamava. Rientrato clandestinamente in Francia, fu di nuovo
arrestato e internato per diciotto mesi nel campo di concentramento
di Précigné, dove creò un gruppo bolscevizzante.
Nel gennaio 1919 fu scambiato, insieme ad altri reclusi, con
alcuni ufficiali francesi fatti prigionieri in URSS. Sulla nave
conobbe la sua futura compagna, Liuba Russakova, anche lei in
viaggio per la “terra promessa”.
A Pietrogrado, capitale della fame, del freddo e della resistenza,
fu ricevuto da Zinov'ev e incontrò Maksim Gor'kij,
il quale gli disse che i bolscevichi erano ubriachi di potere:
“il commissario del partito è allo stesso tempo
il poliziotto, il censore e il vescovo”. ne rimase scioccato,
però decise di gettarsi egualmente nella mischia. Benché
continuasse a considerarsi anarchico, aderì al Partito
bolscevico, partecipò alla fondazione dell'Internazionale
Comunista e ne organizzò il primo servizio stampa. È
vero che commise molti errori: approvava la dittatura sul
attuata dai bolscevichi e accusava gli anarchici russi di
essersi fatti travolgere dagli avvenimenti; non rinnegava però,
né mai rinnegò, il suo passato; pensava che la
rivoluzione russa avesse cambiato i termini di paragone tra
“autoritari” e “libertari” e che, di
fronte alla crisi del movimento libertario organizzato, i bolscevichi
fossero diventati i veri interpreti della volontà rivoluzionaria
delle masse. Oggi sappiamo che si sbagliava; allora fu un abbaglio
di molti rivoluzionari, anche anarchici. Allo scoppio della
rivolta di Kronstadt (1921), “con molte esitazioni e un'angoscia
inesprimibile”, decise di allinearsi con il partito, cosa
che, non senza ragione, il movimento anarchico non avrebbe mai
cessato di rimproverargli.
Comunque sia, la sua adesione non fu mai incondizionata e non
durò molto tempo. Le Memorie mostrano un Serge
perfettamente consapevole dei germi autoritari che il regime
sovietico incubava, ma convinto della possibilità di
riformarlo. Viveva il sentimento di un doppio dovere: da un
lato, lottare contro i nemici esterni della rivoluzione, le
potenze occidentali e i generali bianchi, e dall'altro, battersi
contro quelli interni, la burocrazia e il pensiero unico. Alla
fine, scelse di partire con moglie e figlio per la Germania
con l'incarico di giornalista e agente dell'Internazionale,
pensando che l'unica possibilità di salvare la rivoluzione
russa fosse affrettare quella europea.
Dopo la sanguinosa sconfitta del Partito comunista tedesco (1923),
fuggì a Vienna, dove intraprese lo studio del marxismo,
che in realtà non conosceva, e della psicoanalisi, senza
tralasciare il lavoro clandestino. Nella vecchia capitale dell'Impero
austro-ungarico collaborò, tra gli altri, con Gramsci
e con Lukács. Di quest'ultimo, elogia le conoscenze enciclopediche,
definendo però totalitaria la sua interpretazione del
marxismo.
Nel frattempo, Stalin era diventato il numero uno del Cremlino
e al bolscevismo di Lenin che, almeno in teoria, ammetteva il
dissenso, faceva seguito un regime poliziesco basato sul terrore,
l'intrigo e la menzogna. Serge aveva la vocazione del dissidente,
però non volle rompere radicalmente con il bolscevismo.
Quando, nel 1925, rientrò in URSS chiese a Trotsky se
l'opposizione fosse disposta a distruggere l'apparato burocratico,
in caso di vittoria. “Neanche per sogno, – rispose
il fondatore dell'Armata Rossa. – L'apparato bisogna conquistarlo
e servirsene!”
Si unì, cionondimeno, all'Opposizione di Sinistra (il
termine “trotzkismo” è un'invenzione di Stalin),
ancora una volta perché convinto della necessità
di dare battaglia dall'interno. Collaborò con la commissione
affari esteri, nella quale lavorava anche Andreu Nin, e diffuse
le tesi trotzkiste sulla stampa francese. Partecipò,
il 7 novembre 1927, all'ultima manifestazione pubblica dell'Opposizione
e, il 16, ai funerali del dirigente bolscevico Adolphe Ioffe,
suicidatosi in segno di protesta contro l'esclusione di Trotzky
dal partito.
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Disegno
di Vlady, Victor a Orenburg, 1934 |
Cronista
del disastro sovietico
Il destino di Serge era ormai segnato. Costantemente sorvegliato
dalla polizia segreta, il nostro ridusse al minimo l'attività
politica. Viveva di traduzioni malpagate, cercando di proteggere
il figlio e la moglie che, a poco a poco, stava perdendo la
ragione. Un giorno, mentre si riprendeva da una grave malattia,
ebbe una visione. A un tratto, le sue attività precedenti
gli parvero futili e sentì l'urgenza di scrivere romanzi,
non tanto per parlare di sé, quanto per dar voce agli
uomini straordinari che aveva conosciuto. “Concepisco
la letteratura come un mezzo di espressione e di comunione tra
gli esseri umani: un mezzo particolarmente potente agli occhi
di coloro i quali vogliono trasformare la società. Dire
ciò che si è, ciò che si vuole, ciò
che si vive, ciò per cui si soffre e si lotta, ciò
che si conquista. Bisogna dunque far parte di chi lotta, soffre,
cade, conquista”. Altrove aggiunge: “è importante
lasciare una testimonianza su questi tempi; il testimone passa,
però può succedere che la testimonianza rimanga”.
Conobbe allora una doppia risurrezione: fisica e spirituale.
Tutto lo spingeva alla letteratura: la formazione familiare,
l'enorme talento, una vita romanzesca. Il momento non poteva
essere peggiore: i grandi scrittori tacevano, si toglievano
la vita (Esenin, Majakovskij) o erano imprigionati. Serge sapeva
che in URSS non gli avrebbero pubblicato neppure una riga, ma
poteva scrivere in francese e mandare i suoi scritti agli amici
di Parigi che avrebbero trovato la maniera di diffonderli.
La sua produzione fu prodigiosa. L'originalità di questa
narrativa consisteva nel rompere i parametri dell'autobiografia
tradizionale, centrata sull'epopea dell'individuo, raccontando
l'io collettivo che emerge dalle tormente rivoluzionarie, senza
temere di esibirne le contraddizioni: “Ricordare, fissare,
comprendere, interpretare, ricreare la vita. Non possediamo
che una vita, ma questa contiene molti destini possibili. Non
è unica nel senso che si confonde con innumerevoli radici,
affinità e contaminazioni (la maggior parte delle quali
non si possono esprimere razionalmente) con altri uomini, la
terra, gli esseri, il Tutto. Scrivere diventa allora la ricerca
di una polipersonalità, una maniera di vivere molti destini,
di penetrare l'altro, di comunicare con lui”.
L'idea di “polipersonalità” è la chiave
di volta dell'opera che presentiamo. Un'opera – bisogna
ripeterlo – non autobiografica, bensì testimoniale.
Serge parla come partecipante di eventi storici e non come narratore
introspettivo. Di fatto, raramente allude a se stesso. È
vero che il suo spirito libertario entra sovente in contraddizione
con la fedeltà al bolscevismo. Jean-Luc Sahagian, un
autore di simpatie anarchiche, ha pubblicato un libro tacciandolo
di doppiezza, L'homme double. L'accusa è profondamente
ingiusta, perché Serge pagò pesantemente le proprie
scelte.
Trasformate in letteratura, le innegabili contraddizioni politiche
dell'Autore ci fanno capire come un sincero rivoluzionario possa
trasformarsi in un crudele assassino, come, per esempio, l'agente
della Ceka descritto ne La città conquistata.
Inoltre, diversamente da altri scrittori, non sono occultate,
ma bensì trasformate nell'asse portante di una letteratura
in cui i personaggi non riflettono preoccupazioni ideologiche
e neppure certezze politiche, ma le passioni, i dubbi, gli slanci
e gli sconforti di esseri umani trovatisi ad agire in una situazione
che, a poco a poco, sfugge loro di mano.
Serge riesce a mettere in scena la tragedia rivoluzionaria in
tutta la sua potenza, ma anche nella sua crudezza e senza camuffamenti.
E tuttavia non è un autore disincantato. È quindi
distante da un Koestler e un Malraux, prossimo piuttosto a un
Orwell e a un Silone. È un autore cólto e allo
stesso tempo accessibile. Nelle sue pagine, oltre all'influenza
dei grandi romanzieri russi, di Dostoevskij in primo luogo,
di Vallès, il cantore della Comune, si percepiscono gli
echi di Joyce, Dos Passos e Proust, come anche della “letteratura
proletaria”, la corrente lanciata negli anni Venti da
Henry Poulaille.
Frattanto, la situazione in URSS precipitava. L'8 marzo 1933,
Victor Serge fu nuovamente arrestato e, dopo tre mesi alla Lubjanka,
deportato a Orenburg, una città prossima agli Urali,
antisala politico-geografica del GULag. Accompagnato dal figlio
Vlady e da Liuba (la quale presto tornerà a Leningrado
per dare alla luce la seconda figlia, Jeannine, che adesso vive
a Città del Messico), egli si unì a una confraternita
di proscritti, tra i quali vigevano rapporti di solidarietà
e comunione spirituale. Nell'ambito dell'arcipelago totalitario,
Orenburg era un'isola tranquilla: condizioni di precarietà
e penuria (Vlady si ammalò di scorbuto), ma poche persecuzioni.
Nel 1935, Serge ricevette la visita di Francesco Ghezzi, che
percorse duemila chilometri per informarlo sul Congresso
degli scrittori in difesa della cultura parigino. In quella
sede, con grande scandalo della delegazione sovietica, alcuni
valorosi, tra cui Gaetano Salvemini, sollevarono la questione
della sua libertà.
Grazie anche all'interessamento del più noto “compagno
di strada” dello stalinismo, lo scrittore Romain Rolland,
i Kibalchich poterono lasciare l'Unione Sovietica. Nel loro
lungo viaggio, a Mosca, incrociarono Ghezzi, ancora libero,
benché per poco. Infine, il 17 aprile 1936, dopo aver
attraversato la Polonia e la Germania nazista, arrivarono a
Bruxelles, accolti da Lazarevitch, anch'egli scampato alle prigioni
sovietiche.
Victor riuscì, con molta difficoltà, ad aprirsi
uno spazio su La Wallonie, un quotidiano socialista di
Liegi, sul quale, tra il giugno 1936 e il maggio 1940, pubblicò
oltre 200 articoli, scrivendo di URSS, Spagna, antisemitismo,
Germania, Austria, solidarietà internazionale, arte,
e tanti altri argomenti che dimostrano la vastità dei
suoi interessi. Riallacciò i rapporti epistolari con
Trotsky, allora esiliato in Norvegia; tuttavia, per quanto gli
serbasse profondi sentimenti di ammirazione e affetto, era lontanissimo
dal suo dogmatismo. Inevitabile, la rottura si produsse in occasione
del dibattito sul massacro di Kronstadt, che il nostro autore
definiva un tragico errore e che il fondatore dell'Armata Rossa
rivendicava senza esitazioni.
Il 18 luglio 1936 scoppiò la rivoluzione spagnola, presto
seguita dal primo processo di Mosca che terminò con l'esecuzione
dei “sedici”, tra i quali Zinov'ev e Kamenev. In
dicembre, Serge divenne corrispondente dell'organo del POUM,
La Batalla, denunciando dalle sue colonne il pericolo
mortale rappresentato dall'intervento sovietico in Spagna. Apertamente
boicottato dalla stampa comunista, messo al bando da quella
trotskista, considerato con sospetto da quella anarchica, si
trovava adesso più solo che mai.
Non smise di lottare. Collaborò intensamente con il Comité
pour l'Enquête sur le procès de Moscou
clandestinamente a Parigi e, per via epistolare, con la Dewey
si riuniva in Messico per difendere Trotsky dall'accusa, tanto
infamante quanto assurda, di essere un agente del nazismo. ò,
in meno di un anno, 16 fusillés à Moscou, De
Lenine à Stalinee Destin d'une révolution.
Il primo è un esame dettagliato dei documenti ufficiali
del processo, che ne smonta il meccanismo. Il secondo presenta
uno schizzo storico dei vent'anni trascorsi dall'Ottobre rosso
chiarendo che, delle conquiste rivoluzionarie, non rimaneva
ormai più nulla. Il terzo è uno studio della vita
sociale, economica e culturale sovietica, e una delle prime
descrizioni dell'universo concentrazionario.
Le condizioni materiali continuavano a essere difficili. Le
traduzioni e il giornalismo erano remunerati male e la situazione
legale precaria. Privati della cittadinanza sovietica, i Kibalchich
erano andati a ingrossare le file dei paria che vagavano per
il mondo in cerca di un visto. Nell'aprile 1937 ottennero finalmente
il permesso di risiedere in Francia, però nel frattempo
la situazione psichica di Liuba si era aggravata. Ormai distrutta,
la donna passava da una crisi all'altra e fu ricoverata in una
clinica, dove sarebbe sopravvissuta fino al 1983, senza riemergere
dagli abissi della follia. Ricordiamo il tragico destino della
famiglia Russakov: la moglie di Alexandre, Olga, e due figli,
Joseph ed Esther, scomparsi nel GULag, mentre altri due, Anita
e Paul-Marcel, vi trascorsero una ventina d'anni.
A Parigi, Serge si trovava esposto agli intrighi della GPU sfiorando
la morte in molte occasioni. Nonostante gli affanni e le incombenze
familiari, riuscì a portare avanti il suo ciclo romanzesco
pubblicando S'il est minuit dans le siècle, appassionato
omaggio ai deportati di Orenburg che sarebbero tutti scomparsi
nel GULag, nonché una biografia di Stalin dove descriveva
lo smisurato potere del dittatore sovietico. Nel 1938 pubblicò
una raccolta di poesie.
Ritornò alla riflessione sulle sue radici anarchiche.
In “Méditation sur l'anarchie”, intraprese
una commovente ricostruzione delle vicende legate alla “banda
Bonnot” (poi ripresa nelle Memorie), mentre in
“La pensée anarchiste” tracciò uno
schizzo storico del pensiero libertario. È vero che non
risparmiava le critiche – “gli scritti anarchici
procurano una singolare impressione di intelligenza ingenua,
energia morale, fede e, diciamolo pure, accecamento” –,
però difendeva la forza etica dell'anarchismo ammettendo
implicitamente i propri errori del passato, col definire Machno
“una delle figure più notevoli della rivoluzione
russa”.
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Victor,
Liuba, Vlady, 1927 |
L'ultimo
rifugio di un rivoluzionario
Il 15 giugno 1940, Parigi sprofondava nell'inferno dell'occupazione
nazista. Serge riparò a Marsiglia, dove ritrovò
Volin, André Breton, Benjamin Péret, Wilfredo
Lam, Jean Malaquais, Remedios Varo e tanti altri che fuggivano
dalla “peste bruna”. Quindici mesi dopo, al termine
di un viaggio tormentato da Casablanca, attraverso la Martinica,
Santo Domingo, Cuba e lo Yucatán, giunse a Città
del Messico, accompagnato dall'inseparabile Vlady. Ormai grigio
di capelli e un po' appesantito, dimostrava allora qualcosa
di più dei suoi 51 anni. Una forza tranquilla, una grande
integrità e una certa stanchezza emanavano dal profondo
dei suoi occhi color ambra. L'apparente opulenza, i locali notturni
e le luci sfavillanti sconcertavano chi arrivava da un'Europa
di guerra e carestia. Serge, però, capì rapidamente
che il Messico era “un Paese a due piani, senza classe
media: sopra la società del dollaro, sotto la miseria
dell'indio”.
Le Memorie finiscono qui, ma la storia prosegue. In Messico,
Victor Serge visse gli anni più produttivi della sua
vita. In primo luogo, portò a termine le Memorie,
incominciate in Francia e, come si è detto, pubblicate
postume da Vlady. Inoltre portò a termine tre romanzi:
L'affaire Toulaév, scritto “sulle strade
del mondo”, dove narra gli intrighi dei processi di Mosca
e della guerra di Spagna; Les Derniers temps, sulla débâcle
della Francia nel 1940 e Les années sans perdon,
ambientato a Parigi e in Messico, dove, secondo la definizione
di Vlady, l'etica si trasforma in estetica.
L'anno scorso, ad Amecameca, alle pendici del vulcano Popocatepetl,
ho trovato parecchi manoscritti inediti nell'archivio dell'archeologa
Laurette Séjourné, pseudonimo dell'italiana Laura
Valentini, la sua ultima compagna deceduta molto anziana nel
2003. Tra questi materiali spicca un voluminoso diario, che
si può considerare la continuazione delle Memorie
e che sta per essere pubblicato dalla casa editrice Agone di
Marsiglia, con il titolo di Carnets riprendendo quello
di un'edizione anteriore, incompleta.
Questo diario e la corrispondenza (oltre novecento lettere)
mostrano che in Messico Serge moltiplicò straordinariamente
i suoi già vasti interessi intellettuali. Insieme ad
altri esiliati antitotalitari dètte vita al gruppo Socialismo
y Libertad che pubblicava una rivista di notevole qualità
anche se sconosciuta, Mundo. Mantenne contatti intensi
con i personaggi più disparati: il poeta Octavio Paz,
lo scrittore Gustav Regler, il filosofo Emmanuel Mounier, la
socialista Angelica Balabanoff, lo psicoanalista Bruno Bettelheim,
il marxista Paul Mattick, l'anarchico Agustin Souchy, l'ex ministro
di Difesa della Repubblica Spagnola, Indalecio Prieto, la libertaria
Mollie Steimer... Ho trovato anche una lettera a Rirette Maitrejean,
l'amore di gioventù.
Leggeva di tutto. Si interessò di arte (molte le annotazioni
su Diego Rivera e i surrealisti), filosofia (importanti gli
appunti su Adorno, allora in gran parte sconosciuto), letteratura,
cinema e storia delle religioni. Scrisse decine di articoli
sull'Unione Sovietica e sulla guerra. Pubblicò Hitler
contra Stalin, un libro sull'invasione nazista dell'URSS
che esiste solo in spagnolo, e ne scrisse due rimasti inediti,
uno sul militarismo giapponese e l'altro sulle civiltà
indigene mesoamericane.
Le cronache dei suoi viaggi in Messico (Oaxaca, Michoacán,
Cuernavaca, Acapulco) trasmettono le impressioni di un consumato
antropologo, senza perdere la freschezza del bravo giornalista
e la profondità dell'analista politico. Grazie all'amicizia
con Fritz Fraenckel, uno psichiatra tedesco, organizzatore in
Spagna del servizio sanitario delle Brigate Internazionali poi
passato all'opposizione, riprese lo studio della psicologia,
ancora una volta con l'idea di spiegare e spiegarsi il fallimento
della rivoluzione.
La fine giunse inaspettata. Morì su un taxi, da solo,
dopo un appuntamento mancato con Vlady al quale voleva far leggere
il suo ultimo poema, Mani. Ecco la testimonianza di Julián
Gorkin: “Lo trovammo a mezzanotte passata, steso in una
stanza spoglia dalle pareti grigie. Aveva le scarpe bucate con
la suola completamente logora e la camicia da operaio. Un nastro
di tela gli chiudeva la bocca, quella bocca che nessun tiranno
era riuscito a far tacere. Sembrava un vagabondo raccolto per
pietà. E non era forse stato l'eterno vagabondo della
vita e di un ideale? Il suo volto esprimeva un'amara ironia,
un sentimento di protesta, l'ultima protesta di Victor Serge,
l'uomo che per tutta la vita aveva protestato contro le ingiustizie
umane”.
Attacco cardiaco, dice il certificato medico. Avvelenamento?
Probabilmente no, visto che soffriva di cuore; però Vlady
rimase tutta la vita con il dubbio: per eliminare gli oppositori,
la GPU usava infatti potenti veleni che non lasciano tracce.
Victor Serge, il vagabondo geniale, lo scrittore russo di lingua
francese nato in Belgio, riposa nel cimitero spagnolo di Città
del Messico. La sua eredità spirituale s'innalza oltre
le nubi che oscurano il nostro tempo.
Claudio Albertani |