La svastica
allo stadio 2
Ernest Erbstein, l'uomo che fece grande il Torino
di Giovanni A. Cerutti
Molti ricordano il Grande Torino; pochi la storia del suo allenatore Ernest Erbstein, ebreo ungherese, morto anche lui nel famoso incidente aereo di Superga. Calcio e politica si intrecciano nell'odissea sua e della sua famiglia attraverso l'Europa.
|
“Ernest” Erbstein (Nagyvárad,13 maggio 1898 - Superga,4 maggio 1949) |
Bacigalupo; Ballarin, Maroso;
Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto, Mazzola,
Ossola. Chi non ha sentito almeno una volta nella vita scandire
la formazione della formidabile squadra che aveva fatto sognare
l'Italia che provava a lasciarsi alle spalle i disastri della
guerra e del ventennio fascista? O narrare le gesta leggendarie
di capitan Mazzola, quando rimboccandosi le maniche dava il
via al “quarto d'ora granata”, che segnava la fine
di ogni velleità di vittoria per qualsiasi avversario?
E chi non conosce la vicenda della tragedia del 4 maggio 1949,
quando l'aereo che riportava a casa la squadra granata da Lisbona
si schiantò sul terrapieno della collina di Superga che
sovrasta la città di Torino? Ma è ben difficile
che abbiate sentito raccontare la storia dell'uomo che quella
squadra guidò, dopo averla costruita pezzo per pezzo.
E, soprattutto, che sappiate quanto quella storia si intrecciò
con la pagina più buia del Novecento europeo.
Ernest Erbstein era nato il 13 maggio 1898 a Nagyvárad,
una cittadina dell'impero austroungarico che allora contava
circa cinquantamila abitanti, e che oggi, con il nome di Oradea,
fa parte della Romania, cui fu assegnata dal trattato di Trianon
al termine della Prima guerra mondiale.
Quando Ernest aveva due anni, la sua famiglia si trasferì
a Budapest, dove completò gli studi diplomandosi al Magyar
Testnevelesi Foiskö, l'Accademia ungherese di educazione
del corpo.
Nel 1915, all'età di diciassette anni, iniziò
la carriera di calciatore nel B.A.K Budapest, dove restò
fino al 1924. Per mantenersi, aveva parallelamente iniziato
l'attività di agente di borsa. Nel 1924 trovò
un ingaggio in Italia, nell'Olympia Fiume, che militava in Seconda
divisione - equivalente grosso modo all'attuale Prima divisione
della Legapro - e l'anno successivo passò al Vicenza,
sempre nella stessa categoria. Quello stesso anno si era sposato
con Jolanda Hunterer e nel 1926, a Budapest, nacque la loro
prima figlia, Susanna. Nonostante la buona stagione al Vicenza,
dove disputò ventotto partite realizzando due gol, la
carriera professionistica stentava a decollare, tanto più
che la Carta di Viareggio - come viene comunemente chiamato
il documento con il quale, nel 1926, la Federazione Italiana
Gioco Calcio dettò le linee attorno a cui vennero ristrutturati
i campionati - aveva, tra le altre disposizioni, vietato l'ingaggio
di calciatori stranieri a partire dal 1928 - dopo due anni di
regime transitorio in cui sarebbe stato possibile tesserare
due calciatori stranieri, ma farne giocare uno per volta - in
ossequio alla politica nazionalista del regime fascista, che
aveva appena consolidato il suo potere con le leggi fascistissime
del 1925-1926. Il danno per le società fu enorme, considerando
che nei campionati italiani militavano più di ottanta
calciatori di nazionalità straniera, soprattutto austriaci
e ungheresi. Fu allora che improvvisamente alla maggior parte
dei campioni argentini e uruguagi - per usare la lezione di
Brera - furono avventurosamente scovati nonni, o almeno bisnonni,
italiani, dando il via a tortuose pratiche di naturalizzazione
che portarono molti di loro a giocare addirittura in Nazionale.
Il principio dello ius soli era al di là da venire;
non restava, dunque, che darsi da fare sulle linee di successione
del sangue. Erbstein fu così costretto a cercarsi un
ingaggio negli Stati Uniti, nei Brooklyn Wanderers di proprietà
di Nathan Agar, che all'inizio del secolo era stato tra i fondatori
della United States Football Association. Dopo poco più
di un anno, però, rientrò in Italia e pensò
di combinare la sua passione per il calcio con i suoi studi,
intraprendendo la carriera di allenatore.
Il calcio
diventa un business
L'aspetto principale della Carta di Viareggio era stato quello
di introdurre ufficialmente il professionismo, regolamentando
una situazione che si era creata di fatto e che, nel vuoto normativo,
aveva sollevato più di una polemica. La crescente popolarità
del calcio ne stava facendo un centro di interessi economici.
Le squadre delle grandi città strappavano i campioni
alle squadre di provincia offrendo soldi alle società
e stipendi ai calciatori, trasformando definitivamente un hobby
in una professione ben remunerata - anche se i campioni di allora
impallidirebbero di fronte agli stipendi che percepiscono oggi
mediocri brocchetti che passano il tempo tra la panchina e la
tribuna - e mettendo fine alla stagione romantica della squadra
di calcio espressione della gioventù cittadina, con relativa
identificazione. Da allora diventò anche molto difficile,
per quelle squadre che sarebbero ben presto state definite “provinciali”,
vincere il campionato. Paradigmatico in questo senso il caso
di Virginio Rosetta, il terzino vercellese che a diciotto anni
trascinò la Pro Vercelli vincitrice dei campionati 1920-21
e 1921-22, che nel 1923 passò alla Juventus di Edoardo
Agnelli, per l'allora astronomica cifra di cinquantamila lire
e, soprattutto, per il congruo stipendio che gli permetteva
di non lavorare, mentre pare che alla Pro non esistessero neppure
i premi partita, visto che ciò che contava era l'orgoglio
di difendere i colori della squadra della propria città.
Furono gli ultimi due scudetti di un club che ne vanta sette
nel suo palmarès e che era riuscita, unica squadra
dell'epoca, a non perdere contro il Liverpool nel corso della
tournée italiana dei maestri inglesi. Era chiaro che
gli investimenti massicci dei proprietari delle squadre - in
larga parte industriali spinti dai gerarchi cittadini ad acquisire
le società calcistiche per sfruttare la popolarità
del calcio in termini di consenso al regime e, nel contempo,
per costruire le proprie carriere personali - richiedessero
di essere tutelati affidandole ad allenatori competenti e preparati.
Anzi, anche se gli stipendi degli allenatori erano di molto
inferiori a quelli dei grandi campioni, persino le squadre dilettantistiche
iniziarono a investire i pochi soldi che avevano nell'ingaggio
di allenatori che conoscessero decentemente i rudimenti del
gioco.
La carriera di allenatore di Erbstein iniziò nella stagione
1928-29 nel Bari, che allora militava nella Divisione nazionale.
Fu quello l'ultimo campionato della massima serie disputato
con questa formula, prima dell'introduzione del girone unico.
Quell'anno il Bari si piazzò tredicesimo nel girone A.
La stagione successiva Erbstein si trasferì a Nocera,
dove guidò la squadra locale a ottenere il quinto posto
nel girone finale meridionale del campionato di Prima divisione
- terzo livello del campionato di calcio dopo la riforma. Un
risultato così entusiasmante che, nel dopoguerra, la
città campana intitolò a Erbstein il viale attiguo
allo stadio.
Nella stagione 1930-31 passò al Cagliari, che militava
nello stesso campionato, ottenendo la promozione dopo aver vinto
sia il girone F che il successivo girone finale del sud. La
stagione seguente arrivò il tredicesimo posto nel campionato
di serie B. Intanto, nel 1931, a Budapest, dove era rimasta
la famiglia, era nata Martha, la seconda figlia.
La fama di Erbstein cominciò a crescere, tanto che nella
stagione 1932-33 venne richiamato a Bari, ma questa volta in
serie A, a sostituire Árpád Weisz, ritornato all'Inter.
La stagione, però, cominciò male e dopo sette
giornate Erbstein venne esonerato; il Bari retrocedette comunque,
avendo ottenuto il diciassettesimo posto in classifica. Così,
l'anno successivo, Erbstein tornò ad allenare in Prima
divisione alla Lucchese, dove restò cinque anni affermandosi
definitivamente come uno dei più capaci tecnici del calcio
italiano. La Lucchese ottenne subito la promozione in serie
B, vincendo sia il girone F che il girone finale C, in cui vinse
tutte le partite. Dopo un settimo posto nel girone A nella stagione
1934-35, la stagione successiva Erbstein portò la Lucchese
in serie A per la prima volta nella storia della squadra, vincendo
davanti al Novara, anch'esso promosso, il primo campionato di
serie B a girone unico. L'esordio nella massima divisione si
concluse con uno strabiliante settimo posto, a pari merito con
l'Ambrosiana, mentre il Novara retrocesse subito, nell'anno
del secondo scudetto del Bologna di Weisz. La stagione seguente
Erbstein ebbe problemi di salute, tanto che alla diciottesima
giornata venne affiancato da Umberto Calligaris, il terzino
della Juventus dei cinque scudetti e della Nazionale. La Lucchese
concluse la stagione al quattordicesimo posto, l'ultimo utile
per la salvezza.
Ma ormai Erbstein era universalmente riconosciuto come uno dei
tecnici più preparati del campionato italiano e ricevette
dal presidente Cuniberti l'offerta di trasferirsi al Torino.
Dopo i secondi posti ottenuti nel 1907 e nel 1915, la squadra
granata era emersa tra le protagoniste del calcio nazionale
soltanto alla fine degli anni venti, quando era arrivato alla
presidenza il conte Marone Cinzano, vincendo due scudetti consecutivi
nelle stagioni 1926-27 e 1927-28 - anche se il primo venne revocato
per una faccenda di corruzione mai veramente chiarita, che coinvolse
il terzino della Juventus e della Nazionale Allemandi - e perdendo
soltanto la finale della Divisione nazionale contro il Bologna
la stagione successiva, grazie soprattutto al formidabile centravanti
argentino - ma con nonni italiani... - Julio Libonatti e alle
mezzeali Adolfo Baloncieri e Gino Rossetti. Dopo qualche anno
di flessione era tornata a occupare le prime posizioni della
classifica alla metà degli anni trenta, ottenendo due
terzi posti nel 1935-36 e nel 1936-37. Per Erbstein si trattava,
dunque, di un'occasione decisamente interessante per dare una
svolta alla sua carriera, tuttavia esitò non poco ad
accettare. A Lucca aveva trasferito definitivamente la sua famiglia,
che si era ambientata molto bene, e le sue figlie avevano cominciato
a frequentare la scuola, stringendo le prime amicizie. Ma l'entità
della proposta economica di Cuniberti fu tale che Erbstein decise
di firmare il contratto con la società granata.
Bruno
Neri, mediano e partigiano
Erbstein si era portato dalla Lucchese il neocampione del
mondo Aldo Olivieri, che aveva sostituito tra i pali della Nazionale
Giampiero Combi, e aveva fatto debuttare la mezzala dei Balon
Boys - come si chiamava allora la squadra cadetta del Torino
- Raf Vallone. Aveva anche ritrovato il mediano Bruno Neri,
tre presenze in Nazionale, che era passato dalla Lucchese al
Torino l'anno prima. Nel 1931, quando militava nella Fiorentina,
nel corso dell'inaugurazione dello stadio di Firenze - oggi
intitolato ad Artemio Franchi - al “martire fascista”
Giovanni Berta, Neri rifiutò, unico calciatore in campo,
di fare il saluto romano. Vicino al gruppo popolare di Giovanni
Gronchi, dopo l'armistizio Neri interruppe la carriera - dal
1941 era diventato allenatore alla guida del Faenza - per unirsi
alle prime bande partigiane, fino a diventare vicecomandante
del Battaglione Ravenna. Il 10 luglio del 1944 venne ucciso
all'Eremo di Gamogna, sull'Appenino tosco-romagnolo, durante
uno scontro a fuoco con reparti tedeschi.
L'inizio di campionato fu spumeggiante. Dopo aver battuto 5
a 1 la Lucchese a Torino, alla quarta giornata il Torino di
Erbstein batté a Bologna la squadra di Weisz per 3 a
0, portandosi in testa alla classifica a pari punti con il sorprendente
Liguria. Un pareggio in casa con la Lazio e una brutta sconfitta
contro la Roma fermarono momentaneamente la corsa dei granata.
Ma all'undicesima giornata, sconfiggendo in casa i campioni
d'Italia dell'Ambrosiana per due a uno, il Torino tornò
in testa alla classifica. È il 18 dicembre del 1938.
La sera stessa Erbstein venne convocato in questura. È
un cittadino straniero e dal suo nome si evince chiaramente
la sua origine ebraica. Poco importa che non pratichi da tempo
nessuna religione, pur avendo un profondo rispetto per la dimensione
religiosa. E le sue figlie, pur essendo state battezzate, non
potranno più frequentare la scuola. In forza delle disposizioni
delle leggi razziali, come abbiamo visto (“A” 374),
deve lasciare l'Italia e, di conseguenza, la panchina del Torino.
Due mesi dopo Weisz, un altro allenatore è costretto
ad abbandonare il campionato. Come nel caso di Weisz, nessuna
reazione. L'allenatore rivelazione alla guida della capolista
e il maestro vincitore di tre scudetti spariscono senza che
nessuno senta la necessità di prendere pubblicamente
la parola. Nessuna protesta, nessun rilievo, nessuna osservazione.
Solo in un articolo di commento al campionato di qualche settimana
dopo, Vittorio Pozzo, il commissario tecnico della Nazionale
che seguiva le partite del Torino per il quotidiano torinese
“La Stampa”, osservò che la squadra granata
avrebbe dovuto lavorare ancora molto per tornare al gioco brillante
che le aveva dato Erbstein. Certo, nessun riferimento al motivo
che l'ha costretto a lasciare la guida della squadra, ma se
non altro il nome di Erbstein viene evocato. Più dell'antisemitismo,
che pure dimostrò di avere radici nella società
italiana, fa riflettere oggi l'indifferenza con cui la maggior
parte degli italiani assistette all'applicazione delle leggi
razziali. Il regime dittatoriale non spiega tutto: emerge una
desuetudine alla dimensione pubblica della vita associata da
cui, forse, non ci siamo del tutto affrancati neppure oggi.
Non si tratta solo di aver ignorato il destino degli altri,
in questo caso chi viene definito ebreo, si tratta dell'assenza
della consapevolezza della ferita che l'esclusione immotivata
stava infliggendo all'idea stessa di convivenza umana. Vale
la pena notare che il campionato 1938-39 si concluderà
con la vittoria del Bologna con quarantadue punti e il secondo
posto del Torino con trentotto punti. Di Weisz, come abbiamo
visto, e di Erbstein, come vedremo, nessuno si ricordava già
più.
Al Torino, però, cercarono, per quanto possibile, di
restare al fianco di Erbstein e di aiutarlo a trovarsi una sistemazione.
Tra i dirigenti della squadra granata, fu soprattutto Ferruccio
Novo a comprendere il valore di Erbstein. I due strinsero un
intenso rapporto di collaborazione, che si rafforzò dopo
che Novo assunse la presidenza del Torino al termine del campionato
1938-39, e che sarà la base sulla quale verrà
costruito lo squadrone che dominerà il calcio italiano
nell'immediato dopoguerra.
Fermati
alla frontiera
Quando Erbstein capì che non c'era alcuna possibilità
di sfuggire alle disposizioni previste dalle leggi razziali,
prese contatti con un suo vecchio amico, Ferenc Molnar, che
già quindici anni prima gli aveva procurato l'ingaggio
all'Olympia Fiume, che si trovava a Rotterdam, dove allenava
il Feyenoord. Molnar era ben conosciuto nell'ambiente, avendo
militato a lungo nel campionato italiano sia come calciatore
che come allenatore. Con l'aiuto di Molnar, Erbstein riuscì
ad accordarsi con la squadra olandese, proponendo al Torino
di ingaggiare al suo posto il collega che gli aveva ceduto il
posto. Il Torino accettò, soprattutto per permettergli
di trovare una sistemazione.
Molnar venne presentato alla squadra il 4 febbraio del 1939;
Erbstein, invece, non arrivò mai a Rotterdam. Partito
in treno con la famiglia da Torino, venne fermato in territorio
tedesco alla frontiera tra la Germania e l'Olanda, probabilmente
a Kleve, dalle autorità naziste. Era in possesso di un
visto rilasciato dal consolato olandese e aveva con sé
il contratto firmato con il Feyenoord, ma non ci fu nulla da
fare. Intervenne il console ungherese in Germania; furono presi
contatti con il consolato olandese di Torino, che inviò
un nuovo visto, ma alla famiglia Erbstein non fu permesso di
entrare in Olanda. Il soggiorno in Germania si protrasse, così,
per alcune settimane, ma per l'ebreo Erbstein nessun albergo
aveva una stanza. Non riuscì nemmeno ad affittare una
casa e dovette cercare una famiglia ebrea disposta a ospitarlo.
Del resto nella Germania del 1939 non era difficile capire dove
abitavano le famiglie ebree: bastava cercare le stelle gialle
sulle porte.
Alla fine Erbstein dovette rinunciare al Feyenoord. L'unica
possibilità che gli rimaneva era di tornare a Budapest,
dove aveva ancora i genitori e gli zii, ma dove avrebbe dovuto
inventarsi un lavoro e fronteggiare l'inasprimento del tradizionale
antisemitismo che aveva caratterizzato il regime di Horty, che
la contrastata alleanza con la Germania nazista stava scatenando.
Il problema del lavoro fu risolto grazie all'aiuto del Torino.
Novo gli procurò la rappresentanza di alcune ditte tessili
del biellese, attività che gli permise, tra l'altro,
di recarsi in Italia più di una volta, verosimilmente
fino all'armistizio dell'8 settembre 1943, sottoponendosi a
incredibili rischi nell'attraversare l'Europa occupata dall'esercito
tedesco. Erbstein divenne il consigliere principale di Novo,
che stava costruendo quello che sarebbe presto diventato il
Grande Torino. Dopo il secondo posto nel campionato 1941-42
dietro alla Roma, il primo scudetto arrivò nel campionato
1942-43, l'ultimo disputato prima della sospensione bellica,
dopo che Erbstein aveva consigliato a Novo l'acquisto delle
mezzeali del Venezia Ezio Loik e Valentino Mazzola e del mediano
della Triestina Giuseppe Grezar.
Quanto all'antisemitismo, il clima stava diventando così
pesante che Erbstein pensò prudentemente di cambiare
il suo cognome in Egri, un nome molto diffuso in Ungheria e
che non tradiva le sue origini ebraiche. Da qui la confusione
che qualche volta si crea sul nome di Erbstein. Ma l'accorgimento
servì a poco quando l'Ungheria venne invasa dalle truppe
tedesche il 18 marzo del 1944.
|
Erbstein
(il primo a destra) e il Grande Torino nel 1949 |
Il
regime di Horty e leggi razziali
Gli ebrei ungheresi avevano ottenuto la parità civile
e politica fin dal 1867, con la nascita della monarchia austro-ungarica,
e la parità religiosa nel 1895. Tuttavia, dopo la disgregazione
dell'Impero al termine della Prima guerra mondiale, la questione
ebraica divenne uno degli argomenti centrali del dibattito pubblico
del nuovo stato e forti correnti antisemite si affermarono all'interno
della società ungherese. L'omogeneità etnica che
si era determinata all'interno dei nuovi confini rendeva inutile
la ricerca dell'alleanza del gruppo ebraico, che invece era
risultata strategica nel mantenere la rilevanza dell'elemento
ungherese nel mosaico multinazionale dell'Impero. Anzi, dopo
il fallimento della rivoluzione democratica del 1918, interrotta
dalla dittatura comunista di Bela Kun, e la successiva nomina
dell'ammiraglio Horty a reggente dell'Assemblea nazionale dopo
il suo ingresso a Budapest alla testa dell'“esercito nazionale”,
l'ideologia cristiano-nazionale del nuovo regime - che rimase
uno stato parlamentare, anche se non certo liberale, in cui
il partito unico di governo era diviso al suo interno tra un'ala
ultraconservatrice e un'ala propriamente fascista, che non fu
mai maggioritaria - aveva tra i suoi fondamenti un naturale
antisemitismo. Tanto che nel 1920 l'Ungheria fu il primo paese
europeo nel corso del Novecento a introdurre una legge antiebraica,
detta del “numerus clausus”, che limitava l'accesso
degli studenti di origine ebraica agli istituti di istruzione
superiore.
Dopo l'avvento al potere di Hitler in Germania nel 1933, l'Ungheria
entrò nell'orbita di influenza tedesca, non tanto per
motivi di affinità ideologica, quanto per logiche di
politica estera. Punto centrale della politica del regime di
Horty, anzi si può dire motivo principale della sua esistenza,
era la revisione dei trattati di Trianon, per recuperare tutti
i territori all'interno dei quali vivevano gruppi di etnia ungherese,
o supposta tale. È un classico esempio del tarlo che
il principio di nazionalità di Wilson, così nobile
nelle intenzioni, inserì nella politica europea del primo
dopoguerra, rendendo ingovernabile l'area dei Balcani. E sulla
scena europea il regime di Hitler si presentò come la
giovane potenza decisa a mettere in discussione l'ingiusto dominio
delle nazioni decadenti sancito a Versailles e a Trianon da
trattati di pace illegittimi. L'alleanza con la Germania venne
formalizzata dall'adesione dell'Ungheria al patto anti-comintern
il 13 gennaio 1939 e al patto dell'asse il 20 novembre 1940.
Ma già prima di allora l'Ungheria aveva beneficiato di
ampliamenti territoriali dopo tutte le prove di forza che avevano
caratterizzato la politica estera del regime hitleriano sul
finire degli anni trenta, a cominciare dal patto di Monaco.
Il 27 giugno del 1941, l'Ungheria affiancò le potenze
dell'asse, dichiarando guerra all'Unione Sovietica. Ma l'andamento
del conflitto bellico indusse Horty a prendere contatti con
l'Inghilterra nel settembre del 1943 per trattare un armistizio.
Di conseguenza, il 18 marzo 1944 Hitler invase l'Ungheria per
dettare a Horty, che restò formalmente al potere, le
linee di politica interna da seguire. Tra i primi provvedimenti
presi, la deportazione degli ebrei ungheresi. D'altra parte
le due leggi antiebraiche approvate dal parlamento ungherese
il 29 maggio 1938 e il 5 maggio 1939 avevano già introdotto
restrizioni sempre più soffocanti. Avevano anche aperto
una linea di conflitto all'interno delle comunità ebraiche.
Le due leggi, infatti, definivano l'appartenenza alla comunità
ebraica su base religiosa e non razziale, suggerendo, implicitamente,
che chi si fosse fatto battezzare non sarebbe incorso nelle
disposizioni introdotte. Paradossalmente, questa concezione
meno fanatica di quella nazista finiva per porre dilemmi in
cui scelte personali e lealtà collettive venivano sollecitate
oltre misura. Nel mese di luglio, però, indotto dalle
pressioni di Roosevelt, che minacciò di penalizzare duramente
l'Ungheria nel trattato di pace, e dal re della neutrale Svezia
Gustavo, Horty fermò le deportazioni dei cittadini ebrei,
procedendo nel contempo a un rimpasto di governo. E il 15 ottobre
1944 concluse un armistizio con l'Unione Sovietica. A quel punto,
Hitler procedette all'occupazione militare anche di Budapest,
arrestando Horty e affidando la gestione del governo al leader
delle Croci frecciate Ferenc Szálasi. Era la logica fine
di una politica velleitaria e presuntuosa, che pensava di utilizzare
il revanscismo nazista per i propri fini senza pagare dazio.
È anche la dimostrazione di quanto la cifra fondamentale
del Novecento sia stata la dismisura: nell'età dei totalitarismi
- L'ère des tyrannies di Élie Halévy
- non era possibile pensare di intraprendere una politica senza
arrivare alle conseguenze finali. La discriminazione portava
direttamente all'annientamento; pensare di evitare le deportazioni
dopo aver discriminato sulla base degli stessi argomenti si
era rivelata una tragica illusione. Se non altro oggi dovrebbe
esserci chiaro che certe chine non vanno mai, per nessuna ragione,
nemmeno imboccate.
Con l'invasione tedesca di Budapest, il precario equilibrio
che Erbstein era riuscito a mantenere per sé e per la
sua famiglia venne drammaticamente infranto. La decisione di
far battezzare le sue figlie in ossequio alla tradizione del
paese che lo ospitava le aveva poste al riparo dalla politica
antisemita del regime di Horty e anche lui era riuscito a barcamenarsi
tra le misure introdotte dalla legislazione antiebraica. Ma
con l'avvento al potere di Szálasi, che il regime di
Horty aveva imprigionato più di una volta, si scatenò
in Ungheria la caccia all'ebreo, con massacri e uccisioni indiscriminate,
che aprirono un conflitto nientemeno che con Himmler, che non
gradiva questi atti sconsiderati senza metodo e cercò
di riportare l'annientamento degli ebrei all'interno della ordinata
logica pianificata insieme a Eichmann. I sovietici erano ormai
alle porte, ma riusciranno a prendere il controllo di Budapest
soltanto l'11 febbraio 1945.
Fu Susanna
a intercettare la notizia...
Furono quattro mesi infernali. Dopo la prima invasione tedesca
nel marzo del 1944, Erbstein era stato internato in un campo
in territorio ungherese, i cui prigionieri erano utilizzati
per la costruzione di strade e ferrovie o per rimuovere macerie
e scavare fortificazioni. Sfuggì, così, alla prima
ondata di deportazioni, molto probabilmente perché venne
giudicato adatto a essere utilizzato per le esigenze belliche
del Reich. La figlia Susanna, diciottenne, riuscì invece,
grazie ai contatti che aveva mantenuto con gli ambienti cattolici,
a riparare in un pensionato per ragazze cattoliche di origine
ebraica, che il sacerdote padre Klinda era riuscito a organizzare
alla periferia di Budapest, ottenendo l'autorizzazione a produrre
divise per l'esercito ungherese e ponendolo, tramite l'intervento
del nunzio vaticano a Budapest monsignor Angelo Rotta, sotto
la protezione dello Stato Pontificio. Dopo poco tempo, Susanna
ottenne che fosse accolta nel pensionato anche la madre, per
svolgere le funzioni di cuoca, e con lei la sorella tredicenne.
Ma dopo l'invasione nazista di Budapest la situazione precipitò.
Una domenica di autunno, il pensionato di padre Klinda venne
assaltato da un reparto di Croci frecciate. Le ragazze furono
costrette a uscire dalla villa. Ma mentre stavano marciando,
la colonna fu intercettata da un reparto dell'esercito regolare
che intimò ai miliziani di liberare le ragazze, che furono
ricondotte al pensionato. Susanna e la madre decisero di fuggire
quella notte stessa, riuscendo a raggiungere Pest, dove abitava
la sorella di Jolanda, che riuscì a procurare alle tre
donne dei documenti falsi, da cui risultavano sfollate da una
città già occupata dalle truppe russe. Poterono,
così, essere registrate come regolari inquiline. Con
questi documenti, Susanna poté anche presentarsi a un
centro di addestramento di primo soccorso, ottenendo il brevetto
di crocerossina, in virtù del quale fu dotata di una
tessera che la autorizzava a circolare anche dopo il coprifuoco.
Anche Erbstein riuscì a fuggire dal campo di lavoro in
cui era internato e a raggiungere il resto della famiglia. Ma
per lui non fu più possibile ottenere documenti falsi
e dovette nascondersi nelle cantine dello stabile in cui abitava
la cognata. Il 20 dicembre cominciò l'assedio finale
di Budapest da parte delle forze alleate. Ma anche sotto i colpi
dell'artiglieria e dell'aviazione sovietica, le Croci frecciate
continuarono senza sosta la loro fanatica caccia agli ebrei.
Che arrivò fino alle cantine del palazzo dove si era
rifugiato Erbstein. Fu Susanna, mentre stava prestando le proprie
cure a un'inquilina del palazzo, a intercettare appena in tempo
la notizia e a decidere su due piedi di attraversare la città
per mettere il padre sotto la protezione di Raul Wallenberg,
un funzionario della legazione svedese, incaricato dal War Refugee
Board, fondato dal presidente Roosevelt, di impedire per quanto
possibile la deportazione degli ebrei ungheresi. Wallenberg
venne poi arrestato dai soldati sovietici il 16 gennaio 1945,
subito dopo l'ingresso a Budapest, e ancora oggi non si conosce
con esattezza la sua sorte. Indossata la divisa della Croce
Rossa e munita del suo lasciapassare, Susanna si caricò
sulle spalle il padre, che strascicava i piedi fingendosi ferito,
riuscendo a giungere a destinazione dopo alcune ore. Quindi
tornò a casa, dove il giorno dopo avvenne effettivamente
la perquisizione alla ricerca di ebrei nascosti. Ne vennero
trovati tre, due anziani coniugi e un uomo, che furono immediatamente
uccisi nel cortile.
Liberata Budapest, Erbstein poté lasciare lo stabile
posto sotto la protezione svedese dove era stato sistemato da
Wallenberg e tornare a casa, riunendo finalmente la sua famiglia.
Non appena fu terminata la guerra, si ristabilirono i contatti
con Ferruccio Novo, che gli propose subito di tornare a Torino
per riprendere la guida della squadra. Dopo due stagioni di
interruzione, il 14 ottobre 1945 sarebbe ripreso il campionato
di serie A, ripristinando l'antica formula della Divisione nazionale
- Campionato Alta Italia e Campionato misto Bassa Italia, più
un girone finale nazionale - in un paese ferito dalla guerra,
in cui era ancora molto difficile spostarsi. Il Torino si apprestava
a partecipare con lo scudetto sulla maglia, avendo vinto l'ultimo
campionato disputato nel 1942-43.
Quattro
campionati e molti record imbattuti
Cominciò così la straordinaria avventura del
Grande Torino. Le leggi razziali erano state abrogate sul territorio
italiano dal governo militare alleato il 12 luglio del 1943,
due giorni dopo lo sbarco in Sicilia. Il decreto diventò
una delle condizioni poste dall'armistizio e venne applicato
man mano che procedeva la liberazione delle provincie italiane.
Il primo documento del Regno d'Italia che recepisce la condizione
armistiziale è datato 12 settembre 1943. Così,
l'ebreo ungherese Erbstein può ristabilirsi in Italia;
anzi può tornare a essere semplicemente un cittadino
straniero che ha scelto di vivere e lavorare in Italia. Anche
se nessuno può restituirgli gli anni che ha perso. Come
sarebbe stata la sua carriera se non avesse dovuto abbandonare
l'Italia nel 1938? Erbstein prova a lasciarsi alle spalle il
passato, cominciando da subito a mettere mano alla squadra,
che acquistò il suo volto definitivo con l'arrivo di
Bacigalupo dal Savona, Ballarin dalla Triestina, Castigliano
dallo Spezia e con il rientro dal prestito all'Alessandria del
ventenne terzino Virgilio Maroso. Attorno alla straordinaria
classe di Valentino Mazzola, l'operaio dell'Alfa Romeo che aveva
scovato a Venezia, Erbstein sviluppò un'idea di calcio
che avrebbe trovato un erede soltanto trent'anni dopo nell'Ajax
di Johan Crujff. La sua versione del sistema WM era spiccatamente
offensiva, costruita su una avanzata preparazione fisica, che
prevedeva allenamenti differenziati per ogni ruolo e diete specifiche
per ogni giocatore, su un costante sviluppo del bagaglio tecnico,
che prevedeva raffinati esercizi con il pallone, e su un attento
studio dei movimenti in campo dei giocatori, che prevedeva almeno
un'ora alla settimana di lezione alla lavagna. Ma tutti quelli
che hanno visto giocare quel Torino concordano nel ritenere
che il suo vero punto di forza era l'affiatamento che legava
i giocatori, anche fuori dal campo di gioco, affiatamento che
nasceva intorno alle qualità umane di Erbstein. Tra i
suoi libri più cari c'era l'Homo ludens dello
storico olandese Johan Huizinga, pubblicato in lingua tedesca
ad Amsterdam nel 1939 e tradotto in italiano nel 1946 da Einaudi,
in cui l'autore dell'Autunno del Medioevo e della Crisi
della civiltà, analizza per la prima volta il gioco
come fenomeno culturale. Huizinga era stato poi arrestato nel
1942 dalla Gestapo dopo aver tenuto un discorso all'università
di Leiden - dove era titolare del corso di Storia generale -
in cui criticava pesantemente il regime di occupazione nazista
e recluso nel villaggio di De Steeg, vicino ad Arnhem, dove
morì il primo febbraio del 1945.
Nei quattro campionati che disputò, il Torino di Erbstein
stabilì ogni tipo di record, alcuni dei quali ancora
oggi imbattuti, diventando una delle squadre più famose
e più richieste d'Europa. Fino a quel 4 maggio 1949,
quando l'aereo che riportava a casa i granata da Lisbona - dove
avevano giocato per celebrare l'addio al calcio di Francisco
Ferreira, capitano del Benfica e grande amico di Mazzola - si
schiantò contro il terrapieno su cui sorge la basilica
di Superga. Ernest Erbstein era naturalmente tra i suoi ragazzi.
Avrebbe compiuto cinquantuno anni dieci giorni dopo.
Giovanni A. Cerutti
Per
saperne di più
Le vicende principali
della vita di Ernest Erbstein sono state raccontate da Leoncarlo
Settimelli in L'allenatore errante. Storia dell'uomo che
fece vincere cinque scudetti al Grande Torino, Zona, Civitella
in Val di Chiana 2006. La ricostruzione si basa fondamentalmente
sulla testimonianza della figlia di Erbstein, Susanna Egri.
Susanna Egri è stata ballerina classica e coreografa
di fama internazionale e ancora oggi dirige una rinomata scuola
di danza a Torino.
Le caratteristiche del regime di Horty sono state analizzate
da J. Erös nel volume Il fascismo in Europa, a cura
di S. J. Woolf, Laterza, Roma-Bari 1968.
La posizione degli ebrei ungheresi durante la seconda guerra
mondiale è riassunta nella voce Ungheria redatta
da Asher Cohen nel Dizionario dell'Olocausto, a cura
di Walter Laqueur, Einaudi, Torino 2004.
Per la storia della popolazione ebraica in Ungheria, il riferimento
è ai lavori di Claudia Kocsisné Farkas (Senza
leggi. La situazione degli ebrei in Ungheria 1922-1944,
2010).
Sul ruolo di Raul Wallenberg nel salvataggio degli ebrei ungheresi
e sulla sua misteriosa fine il riferimento è alla voce
redatta da Charles Fenyvesi nel Dizionario dell'Olocausto.
Le notizie sulle leggi razziali sono tratte da Michele Sarfatti,
Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi,
Einaudi, Torino 2002.
|