attenzione sociale
a cura di Felice Accame
La febbre
e la radio
1. Da bambino – credo di
non essere stato il solo – ho vissuto i brevi periodi
delle malattie di stagione come tante circostanze premiali.
Al di là del primo approccio con il morbo – sempre
un po' misteriosamente orribile, con quei suoi rumori molesti
un po' dentro e un po' fuori di me, incubi di cui ancor oggi
ho un vago e timoroso ricordo –, i giorni che ne seguivano
scorrevano in modi amorevoli: il leggero pranzo sul vassoio,
a letto, il pigiama fresco e il letto rifatto, la stanza areata
mentre andavo in bagno, la costante attenzione della manna,
la visita di un papà meno severo al ritorno dal lavoro,
il piccolo dono quotidiano di un giornalino. “Forza John”,
“Capitan Miki” e “Il grande Blek” –
fumetti a strisce orizzontali di cui conservo ancora qualche
esemplare – e il volumetto più corposo di “Topolino”.
Li attendevo con il ritorno della mamma dalla spesa, me li facevo
durare, li leggevo e li rileggevo, ci almanaccavo sopra con
la disinvoltura di chi, beato, non sentiva ancora la necessità
di storie coerenti, di psicologia dei personaggi, di sociologia
dei loro contesti, di semiologia dei loro linguaggi. Quando
arrivò la televisione in casa, poi, ricordo come la più
desiderabile l'influenza di aprile. Era il mese dell'annuale
Fiera Campionaria e, “per la sola zona di Milano”
– come veniva scritto sullo schermo – alle dieci
e mezza del mattino, ogni giorno, la Rai trasmetteva un film.
La mia cultura del bianco e nero è cominciata così.
Ma ciò implicava anche un cambiamento: ben schiacciato
sotto due coperte – con la minaccia di una ricaduta nel
caso mi fossi scoperto – dovevo venir piazzato in tinello
e, in quel passaggio, con la sensazione pacifica che le cose
si stavano mettendo al meglio, in un certo senso mi riappropriavo
della casa.
2. Nota Walter Benjamin
che, allorché – da bambino – “aveva
la febbre” – era ed è, in definitiva, tuttora
questa l'unica categoria che, fino ad una certa età che
per qualcuno può durare una vita intera, ci veniva insegnata
per raccontarci quel che ci stava accadendo – “non
vi era cura e amore che riuscisse a collegare completamente
la camera dove si trovava il mio letto alla vita della nostra
casa”
Lo capisco. Credo di capirlo, credo di capirne le ragioni. Il
malato, in un modo o nell'altro, usufruisce – a volte
sarebbe meglio dire che “subisce” – una certa
separazione dal proprio ambiente di sano. Da un lato, mutano
quei parametri che potremmo riassumere in una sorta di propriocettività
domestica, dall'altro si è, per l'appunto, fatti oggetto
di diverse attenzioni – che, in certi casi, possono giungere
fino alla vera e propria esclusione dalla dinamica familiare.
3. L'annotazione di Benjamin
la ricavo da una pregevole raccolta di scritti, Figure dell'infanzia
(Raffaello Cortina editore, Milano 2012), curatissima da Francesco
Cappa e da Martino Negri – ove, fra il tanto di prezioso,
vi si ritrova anche l'incantevole brano dedicato a La febbre.
Si tratta di un libro composito ma rispettoso dell'intento dell'autore
di allestire un “promemoria” – come spiegano
Cappa e Negri – “di un contatto con il sapere e
con la saggezza dell'infanzia”, un contatto che “toglie
ogni aura nostalgica al discorso dell'infanzia” divenendo
“il miglior antidoto” contro le pretese della pedagogia.
Già, perché se c'è una scienza triste –
Benjamin lo sa bene – è la pedagogia, l'edulcorata
investitura con cui si vorrebbe trasformare l'autorità
in un dettato scientifico. È questa stessa pedagogia
(“folle”, dice), poi, che porta a “scervellarsi
pedantescamente per realizzare prodotti – siano essi immagini,
giocattoli o libri – adatti ai bambini”: “totalmente
infatuati per la psicologia”, i pedagoghi “non si
accorgono che il mondo è pieno di cose che sono oggetto
di interesse e di cimento per i bambini” e che, dunque,
lo aggiungo io, della loro scienza non ci sarebbe affatto bisogno,
almeno fino a quando non si sia sottratta al condizionamento
della filosofia.
Nel saggio dedicato ad Una pedagogia comunista, Benjamin
ha mire apparentemente più modeste, ma non per ciò
più facili da soddisfare. Chiarisce bene quale pedagogia
potrebbe essere salvata – quella che si affranchi dalla
società borghese e dai suoi presupposti, quella che non
si allinei, anch'essa, ai tanti (istituzione scolastica, apparati
militari, Chiesa, associazionismo giovanile, etc.) “strumenti
per l'istruzione antiproletaria dei proletari”.
4. Una volta detto che in questo
libro ci si può trovare profonde osservazioni relative
alle filastrocche, ai libri per bambini ed alle loro illustrazioni,
al leggere in genere e agli abbecedari e alle decalcomanie in
particolare, ai giocattoli antichi ed al collezionismo, non
mi rimane che esplicitare un secondo motivo per il quale non
ho potuto fare a meno di constatare una sorta di affinità
affettuosa con il suo autore. Oltre al ricordo analogo di bambino
occasionalmente malato, scopro, infatti, che tante di queste
cose Benjamin le ha dette per radio e, avendo con l'amico Carlo
Oliva dette anche noi le nostre cose per radio – per ben
27 anni di un'esperienza che ha segnato due vite – e ciò
– come non bastasse il suo tragico e ineluttabile epilogo
– non ha fatto che rendermelo più caro.
Felice Accame
Walter
Benjamin è
nato a Berlino nel 1892 ed è morto a Portbou
nel 1940.
Era andato a vivere a Parigi, dove si è fatto
sorprendere dall'invasione tedesca.
Ebreo, intellettuale comunista, ha provato a scappare
verso l'America, ma è arrivato soltanto fino
in Catalogna. Prima di essere arrestato dalla polizia
franchista e consegnato ai nazisti, si è ucciso.
Fra le tante sue opere, la più nota, scritta
nel 1936, è L'opera d'arte nell'epoca della
sua riproducibilità tecnica. |
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