à nous la liberté
Festeggiamenti
per il ritorno di chi non è mai partito
a cura di Felice Accame
1.
Forse distratto, non mi ero accorto che se n'era andata –
metaforicamente o no “in viaggio d'affari”, o per
uno sfizio turistico, o per un tentativo di fuga –, ma,
com'è e come non è, ora è di nuovo qui.
E un comitato di accoglienza – costituito da Akel Bilgrami,
Michele Di Francesco, Umberto Eco, Diego Marconi, Hilary Putnam,
Massimo Recalcati, Carol Rovane e John R. Searle, capitanati
da Mario De Caro e Maurizio Ferraris (i curatori) – è
pronto ad ossequiarla con un corale Bentornata realtà
(Einaudi, Torino 2012).
2.
Prima di spiattellarci la sua soluzione, Umberto Eco si copre
le spalle. Dice di saper qualcosa del “vetero-realismo”
e, contando sulla complicità di un lettore che gli attribuisca
maliziosa arguzia, fa notare che, in quanto teoria, accomuna
Tommaso d'Aquino e Lenin. Qui, essendo giunto a conclusioni
perfettamente analoghe analizzando il dibattito fra Lenin e
Bogdanov (ne La funzione ideologica delle teorie della conoscenza,
Spirali, Milano 2002) non posso che concordare con lui. Concordo
anche sul modo di riassumerlo, questo “vetero-realismo”:
è la tesi che sostiene che “il mondo sta fuori
di noi indipendentemente dalla conoscenza che ne possiamo avere”
e che “noi possiamo conoscerlo (questo mondo) quale è
come se la nostra mente fosse uno specchio”, ovvero “per
adequatio rei et intellectus”. Concordo con lui anche
sulla constatazione che, “in opposizione al vetero-realismo
abbiamo poi visto una serie di posizioni per cui la conoscenza
non funziona più a specchio bensì per collaborazione
tra soggetto conoscente e spunto di conoscenza con varie accentuazioni
del ruolo dell'uno o dell'altro polo di questa dialettica”.
Mi sembra che, grossomodo – trascurando il pensiero di
qualche outsider, ovviamente –, questa storia può
anche essere raccontata così. Capisco anche il suo imbarazzo
allorché Eco deve registrare successive (o contemporanee,
vorrei aggiungere) “forme di realismo temperato, dall'olismo
al realismo interno” o altre variazioni sul tema che gli
fan dire pensoso com'egli non veda “come possa articolarsi
un cosiddetto nuovo realismo, che non rischi di rappresentare
un ritorno al vetero”. Il fatto che Eco parli di “rischio”
credo si possa legittimamente interpretare come un'ammissione
di un difetto intrinseco del realismo (vetero e veterissimo,
magari andando anche fino a Platone e ad Aristotele), così
ovvio e risaputo da non dover neppure esser spiegato o rispiegato.
Anche in ragione di ciò, d'altronde, è lui stesso
a proporcene una forma monda. Evidentemente, al realismo ci
tiene; presumibilmente, la mancata adesione al realismo comporta
stigmi sociostorici che nessuno – e neppur lui –
si vuole addossare; certamente, anche se “negativo”
– Eco lo chiama così il suo, “realismo negativo”
– un realismo può dunque rimanere tale.
Questo realismo negativo lo riassume nella formula: “ogni
ipotesi interpretativa è sempre rivedibile (…),
ma, se non si può mai dire definitivamente se una interpretazione
sia giusta, si può sempre dire quando è sbagliata”.
Ci sarebbe “uno zoccolo duro dell'essere” (il cui
resto, dico io, allora dev'essere molle), “tale che alcune
cose che diciamo su di esso e per esso non possano e non debbano
essere prese per buone”. Un esempio? Pronto: “poniamo
che su quel muro sia dipinto uno splendido trompe l'oeil che
rappresenta una porta aperta. Posso interpretarlo come trompe
l'oeil che intende ingannarmi come porta vera (e aperta), come
rappresentazione con finalità estetiche di una porta
aperta, come simbolo di ogni Varco a un Altrove, e così
via, forse all'infinito”. (Mi si passi un commento: se
la mettiamo sui simboli, l'enfasi dell'infinito è giustificata:
come dargli torto in assenza di un criterio che determini legittimità
o illegittimità del simbolo?). “Ma”, eccoci
al punto, “se l'interpreto come vera porta aperta e cerco
di attraversarla, batto il naso contro il muro” e, pertanto,
“il mio naso ferito mi dice che il fatto che cercavo di
interpretare si è ribellato alla mia interpretazione”.
Così si arriverebbe (sempre con qualcosa di rotto, dico
io, se non è il naso è qualcos'altro) alla consapevolezza
che “ci sono delle cose che non si possono dire”
– e, soprattutto, fare (le aggiunte son sempre mie). Noi
interpretiamo ma ci sono dei momenti in cui “il mondo
ci dice NO” e questo No “è la cosa più
vicina che si possa trovare (…) alla idea di Dio o di
legge” – “un Dio che si presenta (se e quando
si presenta) come pura negatività, puro limite, pura
interdizione”. Le leggi che noi elaboriamo costituirebbero
una “risposta a questa scoperta di limiti” anche
se – ovviamente, ça va sans dire – “cosa
siano questi limiti non sappiamo dire con certezza”. Allorché,
infine, Eco si chiede se “questa idea minimale di realismo”
sia “sufficiente”, afferma che “non ci garantisce
che noi possiamo domani possedere la verità” –
la metafora dello “zoccolo duro” non “può
fare pensare che esista un nocciolo definitivo che un giorno
o l'altro la scienza o la filosofia metteranno a nudo”
–, “ma ci incoraggia a cercare ciò che in
qualche modo sta davanti a noi”.
Ai collezionisti di aneddoti della storia della filosofia non
sarà sfuggita l'entità del progresso compiuto
da Eco: al sasso calciato da Samuel Johnson per convincere il
riluttante Berkeley della solidità del reale ha sostituito
il trompe l'oeil – dal piede siamo passati al naso: le
dimostrazioni filosofiche fondamentali sono comunque materia
di pronto soccorso – e dalla proposizione numero 7 del
Tractatus di Wittgenstein – “su ciò
di cui non si può parlare bisogna tacere” –
si è passati alla constatazione che “ci sono cose
che non si possono dire” – da un divieto all'altro:
l'odore di sagrestia permane. Mi soffermerei volentieri su certe
metafore non consapevolizzate di Eco – come quella del
“possedere” (“conoscere”) la “verità”
– ma (presunti) altri (presunti) realismi urgono.
3.
È da un bel po' che i filosofi (ne cito uno, esemplare,
George Edward Moore) hanno inventato conto terzi una filosofia
– diciamo meglio, una teoria della conoscenza –
che conviene loro. L'hanno chiamata “realismo del senso
comune” e, visto e considerato che nessuno può
protestare – è “comune”, quindi è
“di tutti”, quindi è “di nessuno”
–, gli han fatto dire questo e quello. Quando è
toccato a Mario De Caro, gli è stato fatto dire che sono
“reali le entità postulate dalle nostre pratiche
ordinarie” e che “la percezione ci mette in contatto
con il mondo esterno così come esso è veramente,
indipendentemente dal fatto che noi lo percepiamo” –
con le dovute eccezioni, però, perché anche il
“realista del senso comune” sa che potrebbe anche
esser vittima di “illusioni ottiche” o di “situazioni
in cui le condizioni percettive non sono ottimali”.
Occhio e croce, allora, visto che del tutto scemi non lo sono,
a costoro vien fatto assumere l'aspetto dei “compagni
che sbagliano” e, infatti, poi, De Caro non esita a denunciarne
la strana tendenza – strana lo dico io – “ad
assumere un atteggiamento antirealistico nei riguardi della
scienza o, più precisamente, nei riguardi delle entità
non osservabili contemplate dalle teorie scientifiche (come
gli elettroni, le radiazioni o i buchi neri)” –
tutte teorie che (e qui De Caro diventa caritatevole) risulterebbero
“empiricamente adeguate” (fra virgolette), “ma
non vere”. Su questa figura un po' equivoca di fiducioso
io non metterei la mano sul fuoco, ma non posso nemmeno escluderla
del tutto dal novero dell'umano. Mi sembrerebbe tuttavia piuttosto
paradossale che, dovendo aggiungere quotidianamente qualcosa
al suo elenco di “cose sicure” – del tipo
dei tavoli e delle melanzane ma anche delle onde elettromagnetiche
– non abbia perlomeno riflettuto sul fatto che il suo
uso del verbo “esistere” va esteso di continuo e
mai può limitarsi ad un catalogo permanente. Ma andiamo
avanti.
Avanti, dove, per l'appunto, c'è posto per il “realismo
scientifico”. Il quale, “in nome della realtà
dell'ontologia scientifica”, “tende a negare che
gli oggetti ordinari siano veramente come appaiono al senso
comune” e, laddove il “tende” diventerebbe
una palla al piede – ovvero “nelle sue espressioni
più risolute” –, “destituisce (…)
di fondamento l'atteggiamento realistico del senso comune, in
base all'idea che le uniche entità che esistono sono
quelle contemplate dalla scienza, e forse dalla sola fisica”
(idea per un concorso: il milione del signor Bonaventura per
chi spiega meglio quel “forse”) – perché,
come dice Wilfrid Sellars, “la scienza è la misura
di tutte le cose, di quelle che sono, in quanto sono, e di quelle
che non sono, in quanto non sono”, senza perder tempo,
aggiungo io, a cercar di capire cosa si intenda con quel “sono”.
Il realismo scientifico, allora, “riconosce come reali
le entità contemplate dalle teorie scientifiche”
(il perché del cambio di verbo – da “postulare”
a “contemplare” – credo debba ratificare il
passaggio del testimone dal buzzurro all'intellettuale). Che
qui si stia parlando di un pensiero più qualificato è
evidente, ma, a scanso di diatribe di bottega, De Caro deve
poi precisare come stanno le cose in fatto di gerarchie. Lo
fa ricorrendo a Huw Price, secondo il quale “la filosofia
non è un'impresa diversa dalla scienza e” (si noti:
non “ma”, “e”) “quando gli interessi
delle due discipline coincidono, la filosofia deve sottomettersi
alla scienza” – come se si trattasse dell'accesso
a microscopi migliori –, perché, come dice Bernard
Williams, “l'obiettivo della scienza è di rappresentare
la realtà come essa è ‘indipendentemente
dalla nostra esperienza', di attingere cioè a una ‘concezione
assoluta del mondo', su cui tutti dovremmo convergere perché
la possibilità di una convergenza ‘su come le cose
sono (indipendentemente da noi)' è offerta dalla scienza,
e solo dalla scienza”. Se non ci si lascia intimidire
dall'apoditticità e dall'autoritarismo delle espressioni
– se ci si ricorda che, ahinoi, di “convergenze”
ne abbiamo avute parecchie, fin troppe, anche in nome di altri
“saperi” che alla scienza erano del tutto estranei
-, a questo punto, si può anche stillare una lacrima
per la povera filosofia, che, raminga e senza colpa (“non
è un'impresa diversa dalla scienza”), sarebbe stata
sfiduciata nel meraviglioso compito di “rappresentare
la realtà come essa è” e, presumibilmente,
destinata a quei servizi sociali dove, alla meno peggio, ci
si deve accontentare di “rappresentare la realtà”
come essa “non è”.
4.
Che la formulazione convincente di una teoria realista non sia
una cosa semplice è testimoniato dalle avventure di Hilary
Putnam. È “almeno a partire dal 1957” che
cerca la “miglior formulazione el realismo filosofico”
(perché “filosofico”? Mah: divide et impera)
ed ha dovuto cambiare bandiera più volte: dal “realismo
scientifico piuttosto minimale” (già il nome sembra
dirne tutta la fragilità) è passato al “realismo
metafisico”, da questo al “realismo interno”
– “una posizione vagamente kantiana, secondo cui
la verità coincide con la conoscibilità in ‘condizioni
epistemiche ideali'” – e dal “realismo interno”
al “realismo del senso comune” – che sosterrebbe
che “ciò che esiste è indipendente dalla
sua conoscibilità” e che “ci possono essere
molte descrizioni corrette della realtà” –
un realismo che, allora, non rivestirebbe più il ruolo
del parente povero come nel pensiero di De Caro.
A parere di Putnam, “noi siamo effettivamente in contatto
con le proprietà degli oggetti” – e qui spara
ad altezza d'uomo –, ma – e qui abbassa subito la
mira – “queste proprietà sono in parte antropocentriche”.
Il che è come dire della stessa cosa, prima, che è
sua e, subito dopo, che è anche mia. Ciò che segue
è sempre a cresta abbassata: “sostenere che la
scienza ci dà una descrizione corretta della realtà
non significa sostenere che questa descrizione sia interamente
corretta” e, pertanto, al “sano realista”
toccherà “fare uso della nozione di ‘verità
approssimativa'”. D'altronde, da uno che in The Faces
of Realism aveva scritto che “la nostra
condizione storica è quella di dover fare della filosofia
senza ‘fondamenti'” non ci si può aspettare
granché di diverso. I conti, almeno quelli nelle proprie
tasche, in un modo o nell'altro devono tornare (magari invidiando
quei presunti loro che, beati, potevano e dovevano
fare filosofia con i fondamenti).
Ciò nonostante, continua a volersi dichiarare realista.
Lo fa per difesa, dice – “contro l'idea, particolarmente
diffusa nei circoli post-modernisti (ma non soltanto lì!),
che la scienza altro non sia che un sistema di utili convenzioni”.
Non ho sufficiente dimestichezza con la buona società
per sapere dove si annidino i circoli post-modernisti e quegli
altri luoghi di deboscia che meritano un punto esclamativo di
riprovazione, ma posso prendere in seria considerazione l'argomento
escogitato da Putnam per confutarne le pretese. Lui lo presenta
come una novità tutta farina del suo sacco, ma a me ricorda
piuttosto da vicino l'argomento di Eugen P. Wigner che, nel
1960, pubblicò un saggio da un eloquente titolo: L'irragionevole
efficacia della matematica nelle scienze naturali. Ma, a
prescindere da ciò, l'argomento è il seguente:
“se le entità teoriche postulate dalle nostre migliori
teorie scientifiche non esistessero”, “come potremmo
spiegare il fatto che esse funzionano così bene, che
le loro spiegazioni e le loro previsioni sono così efficaci”?
Il “realismo scientifico” – quello già
un po' menomato e, comunque, a seconda delle circostanze sostituibile
con il “realismo del senso comune” – “è
la sola filosofia della scienza che non considera i successi
ottenuti in ambito scientifico come un miracolo”.
5.
Ce ne sarebbe già a sufficienza per arguire che questo
comitato di accoglienza sia in imbarazzo. John R. Searle, per
esempio, sente l'esigenza di supportare il suo vacillante realismo
con la stampella del “naturalistico” e così,
per lui, “una concezione naturalistica del realismo sarà
(in futuro, sottolineo io) in grado di offrirci una descrizione
soddisfacente di quegli aspetti enigmatici della realtà
che i filosofi del passato tendevano a concepire non in armonia
con il naturalismo” (e qui si riferisce alle due “zone
d'ombra” da cui dovremmo uscire: da una parte “Dio,
Anima e Immortalità” e dall'altra la “Scienza”
con la esse maiuscola, che, in questa sua versione, è
chiamata a rappresentare “riduzionismo” e “materialismo”
– una scienza che, per Putnam (o, al meno, per quello
di The Faces of Realism che è del 1987), sarebbe
“bravissima a distruggere le risposte metafisiche, ma
(…) incapace di fornire dei sostituti”, che “si
porta via i fondamenti senza rimpiazzarli”.
Nel presentare i termini del suo “realismo minimale”,
invece, Diego Marconi riesce a dare un'idea ancora più
efficace dell'unitarietà del filosofare alla faccia delle
rigide divisioni che, per qualcuno – non dico per tutti
– hanno rappresentato la storia della filosofia. Cita
un'argomentazione di Michael Devitt: se la “Verità
realista” viene definita dalle “asserzioni della
fisica” che “sono vere o false in virtù (I)
della loro struttura oggettiva, (II) delle relazioni referenziali
oggettive tra le loro parti e la realtà, e (III) della
natura oggettiva di tale realtà”, e se il realismo
“richiede l'esistenza oggettiva indipendente degli enti
fisici di senso comune”, “la Verità realista
riguarda le asserzioni della fisica e non richiede nulla di
simile: non dice nulla sulla natura della realtà che
rende quelle asserzioni vere o false, salvo che tale natura
è oggettiva” e, allora, “un idealista che
creda nell'esistenza oggettiva di un dominio puramente mentale
di dati di senso potrebbe sottoscrivere la Verità realista”.
Con il che – ammettendo e non concedendo affatto che sia
chiaro cosa s'intenda con “natura oggettiva”, che
questa possa essere presupposta anzi che dimostrata e che un
“dominio mentale di dati di senso” non costituisca
un ossimoro – son tutti soddisfatti ma nessuno rimborsato
per quanto investito nella propria fede.
Il clima, insomma, è questo. Scusandomene, trascuro gli
altri membri del comitato per non farla troppo (inutilmente)
lunga.
6.
Che il realista – di qualunque confessione esso sia –
non sia soddisfatto di sé è palese e comprensibilissimo.
le sue certezze sono piene di se e di ma (verità sì
ma approssimata sempre e comunque, in qualche “ambito”
le tesi opposte sembrano rispettabilissime, le illusioni ottiche
sono un caso a parte, l'ubriachezza pure, e via distinguendo);
non a caso i realisti sono tanti – milioni di milioni
come le stelle di Neuroni – fino al punto che qualcuno
– tipo Eco (ma ho il sospetto che il rilievo pertenga
anche a parecchi altri membri del comitato) – è
realista soltanto di nome – perché ciò,
come certi biglietti da visita di un tempo, gli può consentire
di appartenere alla società migliore; la storia della
copia interna uguale alla copia esterna non ha mai convinto
neppure Platone, figuriamoci chi lo ha seguito; alle spalle
si ritrovano chi li ha preceduti nella medesima convinzione
e ciascuno di costoro poteva vantare un catalogo di cose sicure
– di realtà a prova di bomba – diverso da
quelli di chi l'aveva preceduto e da quelli di chi l'avrebbe
seguito; l'unica soddisfazione sembrerebbe quella di aver vinto
la concorrenza della scienza ma (per usare una metafora di Michele
di Francesco) è una “vittoria di Pirro” perché
in alternativa non rimangono che magia e religione.
Raramente si può assistere ad una difesa così
cautelosa e timebonda di un'opinione filosofica. Non ci vuole
Lacan, dunque, per capire che il realista soffra.
Tuttavia, ai suoi argomenti forti o, comunque, presentati come
tali – quelli per i quali val la pena di rimanere realista
nonostante tutto – una risposta vada data. Chi si vuole
liberare della filosofia – per quanto sia consapevole
dello stato di maggioranza dei realisti nell'agone filosofico,
per quanto possa sottovalutare tesi presuntamente contrapposte
come quelle idealiste e quelle scetticheggianti – sarà
bene che cominci da lì.
Accreditandoli, pertanto, di rappresentare se non al meglio
almeno decentemente la consistenza del realismo positivo o negativo
che sia, analizzerò pertanto due esempi di argomentazione.
Il primo è quello di Eco, l'esempio del trompe l'oeil
– che vale, come dicevo, il sasso di Samuel Johnson.
Il secondo esempio è quello di Putnam: mettiamo pure
che la tesi realista non stia in piedi, come si spiega che le
cose funzionano? Come spieghiamo che i risultati della scienza
si ripetono con regolarità e consentono predizioni? Vogliamo
parlare di un “miracolo”? Un miracolo che avviene
tutti i giorni mille volte al giorno?
Via uno. Le quattro-infinite interpretazioni del trompe l'oeil
(inganno, porta aperta, porta aperta artistica, simbolo di Varco
sono da Eco stesso definite “interpretazioni” e,
allora, come tali, dipendono da un interprete – sono il
risultato di un suo operare che a me piace tripartire in percezione,
categorizzazione e (eventualmente) semantizzazione. Nulla di
tutto ciò, dunque, ha a che fare con quel “mondo”
che “sta fuori di noi indipendentemente dalla conoscenza
che ne possiamo avere” – e qui Eco sarebbe d'accordo,
ma non avrebbe ancora alcun motivo per dichiararsi “realista
negativo”. La spinta decisiva gli arriva dalla necessità
del pronto soccorso: non si accontenta di interpretarla come
porta aperta e prova ad attraversarla e, a questo punto, sbatte
il naso. Innegabilmente, l'interpretazione era sbagliata, ma
– altrettanto innegabilmente – un resoconto della
vicenda è tutta roba sua – risultato di percezione,
categorizzazione e (eventualmente) semantizzazione (che in questo
caso sarebbe presumibilmente orientata verso l'imprecazione
o la bestemmia), come il dolore al naso. Anche in questo caso,
comunque, tutto ciò che Eco può dirci non è
indipendente dalla “conoscenza” che ne ha potuto
avere e, conseguentemente, non si capisce più come la
tesi sostenga il realismo. Alla stessa stregua del calcio al
sasso da parte di Johnson il quale potrà esperire e eventualmente
raccontare il risultato del proprio operare e non certo quello
di ciò che ha categorizzato come “sasso”.
Qualcuno, a questo punto, potrebbe ribattermi: d'accordo, ma
il muro trompe l'oeil c'è, come il sasso. Ma non
si capirebbe il perché di uno sconto ad una parola in
particolare: forse che il “c'è” – come
tutte le altre coniugazioni del verbo “essere” e
del verbo “esistere” – non è il risultato
di un percepire, di un categorizzare e di un semantizzare? Forse
che il “c'è” è una parola in-analizzabile
in virtù di qualche privilegio che mi sfugge? Una volta
rifiutata la concessione di uno statuto speciale alla parola
– a questa come a qualsiasi altra –, credo si possa
concordare con Ceccato relativamente al suo significato: di
base, la famiglia dell'“essere-esistere” designa
l'aver staccato qualcosa da sé e l'avergli conferito
una sua autonomia – il resto va classificato come quelle
che Vaccarino chiamerebbe “sfumature semantiche”
o come relazioni logico-consecutive (successive, dunque, alle
operazioni costitutive). Storia umana alla mano – non
solo quella che presuntuosamente viene preservata come “storia
della scienza” – è facile rendersi conto
che questo statuto di esistenza non può essere confuso
con un “dato di fatto”, perché il catalogo
delle cose che “ci sono” oggi è diverso da
quello di ieri, come il catalogo di tutti coloro che ci hanno
preceduto – e, se ci informassimo delle negoziazioni tra
fisici, sapremmo anche che su qualcosa – come un quark
– si discute per mesi prima di dire se “c'è”
o “non c'è”. Il negativo di Eco vale dunque
fin che vale – del consecutivo non c'è certezza,
amava dire Ceccato facendo il verso a Lorenzo il Magnifico.
Io – e credo anche Eco –, per esempio, sono stato
educato a considerare l'acqua un liquido – e come tale
le ho sempre attribuito determinate caratteristiche –
ma, sia io che Eco, da qualche anno – almeno dal 2007,
dagli esperimenti condotti da Elmar Fuchs e da Emilio Del Giudice
– siamo stati costretti a modificare l'elenco di queste
caratteristiche immettendone altre a certe condizioni –
per esempio che il “legame idrogeno” scoperto a
suo tempo da Linus Pauling può essere sfruttato per ottenere
organizzazioni di domini di coerenza fra molecole d'acqua, tali
per cui è possibile formare un ponticello d'acqua che
passa da un bicchiere all'altro senza che ne cada una goccia.
Con il che abbiamo anche impostato le basi per tranquillizzare
Putnam – che stia tranquillo, di miracolo non si tratta.
Via due.
Punto primo. Putnam per primo contraddice gli impegni semantici
relativi alla parola “miracolo”. È lui che
parla di verità approssimative ed è sempre lui
che non riesce ad affidarsi del tutto alla scienza. Evidentemente,
allora, le cose “funzionano”, ma – a suo avviso
–, entro certi limiti. Non ci vuole il Kuhn di turno che
ce lo mostri nella solita “storia della scienza”.
Il miracolo di Putnam, pertanto, è un miracolo che nessun
Dio che esiga rispetto mai compirebbe.
Punto secondo. Molto “funziona” perché non
può fare altrimenti – come la matematica, come
i sistemi assiomatici: per quel che ci mettiamo dentro, tanto
ricaviamo o tanto possiamo ricavare (perché, a volte,
ci si mette un po' ad arrivarci).
Punto terzo. Va da sé – darwinianamente –
che si cerchino regolarità, si categorizzi qualcosa come
ripetibile, lo si selezioni e lo sistematizzi tentando di dominare
quel che categorizziamo come fenomeni. A volte va bene (se la
và la g'ha i gamb), a volte va male. A volte ci se la
fa andar bene (fin che la và la g'ha i gamb). Le relazioni
consecutive che poniamo hanno da essere reciprocamente coerenti
e ogni nuova può costituire un problema – a volte
(e facciamo pure l'esempio classico della “rivoluzione
copernicana”), può costringere a rivederne parecchie
di quelle già poste.
Punto quarto. Noi svolgiamo un'attività “costitutiva”.
Con Ceccato sono d'accordo nel chiamarla così per via
del “co-” enclitico. Con lui, potrei anche dirmi
d'accordo sul fatto che, una volta costituito qualcosa, il resto
è “storia sua”. Potrei anche presumere che
questa storia sua avesse uno svolgimento prima che io costituisca
e che avrà ulteriore svolgimento dal momento in cui io
non costituirò più (il limite, la morte, di cui
ci parla Umberto Eco), ma mi autocontraddirei se di ciò
volessi asserire alcunché.
7.
Sembra La visita della vecchia signora di Durrenmatt
– sulle prime gran festeggiamenti, ma poi si vive il dramma
delle contraddizioni. Sarà bentornata, questa realtà,
ma com'è ridotta – o, meglio, com'è ridotto
quel comitato che, per ovvii motivi di ordine sociale, si è
caricato dell'onere di riceverla (magari, dandosi di gomito
l'un l'altro: e chi ci crede?).
Laddove Mario De Caro e Maurizio Ferraris si danno da fare per
dimostrare la necessità della loro impresa cominciano
con il chiedersi cosa ci sia di “nuovo” in questo
“nuovo realismo”, rispondendosi che, di certo, di
nuovo non c'è la realtà che “fortunatamente”(?)
“è sempre vecchia”, ma, piuttosto, ci sarebbe
“la piena consapevolezza di venire dopo una lunga stagione
di antirealismo”. Questo “antirealismo”, però,
non sarebbe da considerarsi più un nemico, perché
sarebbe invece un bene “conservarne le istanze emancipative
evitandone gli effetti indesiderati” (come i nasi rotti,
immagino) e perché, come abbiamo già potuto constatare,
in qualche “ambito” le sue tesi “funzionano”.
Questo “nuovo realismo” piuttosto compromesso, allora,
direbbe anzitutto “ciò che non siamo, ciò
che non vogliamo” e, così, sinceramente, sembrerebbe
ancora più menomato di quel che ci è apparsi fino
ad ora. Evidentemente, la questione per loro è di poco
peso. Quel che preme loro è salvare la disciplina e i
posti (parlo dei posti di lavoro regolarmente remunerati) che
ne conseguono. “Ontologicamente e metodologicamente”,
affermano, “la filosofia è disciplina dotata di
autonomia costitutiva”, il suo compito futuro sarà
quello di “armonizzare” realismo del senso comune
e realismo scientifico (quello “negativo” di Eco,
a quanto pare, può esser lasciato perdere) e perpetuare
la propria esistenza come pratica sociale valorizzata. Per loro
è anche “facile predire che verrà il giorno
in cui l'antirealismo tornerà al centro del campo filosofico”
(una metafora calcistica ci mancava) e, a sua volta, sarà
“nuovo”; “non sarà lo stesso antirealismo
contro cui si è battuto il nuovo realismo”, ma,
“sperabilmente”, sarà “migliore”
a sempiterna dimostrazione che “il progresso in filosofia
non solo è possibile, ma inevitabile, e frutto di un
lavoro collettivo”. Così – e solo così
–, in questo faticoso ma solidaristico occultamento del
girare a vuoto, possono anche crogiolarsi in quella certezza
di Etienne Gilson (citato da un compiaciuto Putnam) che “la
filosofia seppellisce sempre i suoi becchini”.
Felice Accame
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