storia
Se avé passè Crispi, a passarem ench qvesta
di Massimo Ortalli
“Se abbiamo passato Crispi, passeremo anche questa”
suonava un antico detto romagnolo.
Andiamo a vedere che cosa ci stesse dietro a quel riferimento a Crispi.
Nella lunga storia della conflittualità
fra anarchici e potere, le forme di controllo esercitate dagli
organi dello Stato per sorvegliare, reprimere o depotenziare
la proposta e l'azione degli anarchici si sono di volta in volta
adeguate, con lucida intelligenza, alla varietà delle
situazioni e allo spirito dei tempi. Oggi la mano ferma dello
Stato è sempre pesante, ma non si può ignorare
che il guanto nel quale si infila è di materia ben più
sofisticata di quanto non fosse quello che si abbatteva su anarchici,
sovversivi e oppositori in epoche più lontane. Risultati
e obiettivi sono speculari, ma l'invasività dell'azione
repressiva, fatte le note e drammatiche eccezioni, si nasconde
dietro le apparenze della democrazia formale, della garanzia
dei diritti, del rispetto delle regole: il recupero del dissenso
sarà tanto più efficace quanto più “indolore”
sia lo strumento utilizzato. A scanso di equivoci, comunque,
occorre precisare che il carattere “indolore” della
reazione è sempre proporzionato alla forza dell'attacco
portato allo Stato, e non c'è bisogno di dire che, quando
occorre, la mano del potere non è certo meno dolorosa
oggi di quanto non lo sia stata in altri periodi storici.
Un livello di repressione dilettantesco. Poi però...
Per comprendere meglio la mutevole varietà degli strumenti
di repressione e controllo messi in atto dallo Stato, è
particolarmente significativo lo sguardo su uno dei periodi
storici durante i quali più attenta e vigile è
stata l'attenzione dello Stato sul movimento anarchico. Parliamo
dell'ultimo decennio dell'800, il cosiddetto decennio crispino,
detto anche, da altra prospettiva, il decennio degli attentati
anarchici.
Negli anni precedenti, dalla nascita dell' Internazionale fino
a tutti gli anni Ottanta dell'Ottocento, la mano della giustizia
nei confronti del movimento anarchico e dei suoi affiliati si
era mossa con strumenti non ancora sufficientemente idonei alla
bisogna, anche perché la comprensione dell'urgenza della
questione sociale non era adeguata alla realtà che si
stava affermando; e il rifiuto di ammettere che interi settori
della società potessero porre in discussione l'ordine
costituito, per abbatterlo o riformarlo, rendeva meno efficaci
le misure repressive messe a contrasto. L'esito dei primi famosi
processi agli internazionalisti, nella contraddittorietà
dei risultati e nell'incertezza che animava le istituzioni giudicanti
stanno lì a dimostrarlo. Se nel processo contro gli internazionalisti
imolesi e romagnoli che nel 1874, guidati da Bakunin e Costa,
tentarono l'assalto alla città di Bologna, si arrivò
a sentenze di assoluzione in primo grado, grazie alle decisioni
della giuria popolare in Corte d'Assise, ancora più clamoroso
fu l'esito del processo alla Banda del Matese, che vide assolti,
sempre per decisione della giuria popolare, tutti gli imputati:
nonostante questi avessero battuto in armi la campagna, ucciso
un carabiniere in un conflitto a fuoco, distrutto archivi comunali
e resi inutilizzabili i contatori dei mulini. Fatti che avrebbero
reso plausibili ulteriori anni di galera in aggiunta alla lunga
carcerazione preventiva.
Indubbiamente il problema di controllare e neutralizzare l'attività
degli Internazionalisti si pose fin dal nascere della Prima
Internazionale. E infatti lo strumento dell'ammonizione, una
misura amministrativa aleatoria e discrezionale che permetteva
ogni sorta di arbitrio all'autorità di pubblica sicurezza,
era largamente e generosamente utilizzato, limitando pesantemente
tanto l'agibilità politica quanto la vita quotidiana
dei sovversivi. Sganciata da effettive motivazioni, applicata
in base alla sola “colpa” di affiliazione all'Internazionale,
infatti, tale misura sottoponeva l'ammonito al controllo delle
autorità limitandone la libertà personale, tanto
nei movimenti quanto nell'espressione del pensiero. La censura
si abbatteva regolarmente sugli organi di stampa, le riunioni
pubbliche erano sottoposte all'improvviso e immotivato scioglimento
a seconda delle ubbie del questurino di turno, e il carcere
si riempiva spesso e volentieri di sovversivi che avevano distribuito
un volantino, affisso un manifesto, esposto una bandiera nella
ricorrenza della Comune, intonato un canto, o “ruggito”,
nel calore dell'osteria, un vigoroso e colorito “accidente”
all'indirizzo del prete, del monarca o del presidente del consiglio.
Per non parlare del domicilio coatto, strumento barbaro e inumano,
che colpiva con cieca efficacia quanti il tribunale non poteva
destinare al carcere. Ma, nonostante la durezza e la gratuità
di queste disposizioni, si era ancora, se così si può
dire, a un livello di repressione poco più che dilettantesco,
improvvisato e spesso irrazionale, privo di quella necessaria
coerenza operativa – riscontrabile anche nelle differenze
di interpretazione fra le varie procure – che sarebbe
stata richiesta dall'attacco alle istituzioni di un movimento
anarchico sempre più organizzato.
Associazione di malfattori
Se la destra liberale si era mostrata piuttosto inadeguata
nella comprensione del problema, anche perché, dopotutto,
continuava a considerare gli Internazionalisti non sempre malfattori
comuni ma anche militanti politici e sociali, solo con il governo
della Sinistra storica si assisterà alla graduale involuzione
repressiva che troverà il suo apice nel periodo crispino.
Già il 18 febbraio 1880, infatti, l'alta corte, non ritenendo
credibile che un'associazione internazionalista composta da
cinque o più persone, tanto più appartenenti alle
“ultime classi sociali”, potesse riunirsi per puri
scopi “speculativi”, stabilì che tali incontri
dovessero configurarsi come una vera e propria associazione
fra malfattori. Questa era la nuova arma giuridica attesa; anche
in questo caso, infatti, si poteva essere condannati in assenza
di reato, essendo sufficiente la prova che cinque o più
persone si erano date convegno, magari, in osteria, e avevano
espresso opinioni sovversive nei confronti dell'autorità
costituita. Inizialmente poteva capitare che qualche giudice
onesto non desse corso alla denuncia e mandasse prosciolti i
denunciati, ma via via che l'anarchismo si diffondeva nel tessuto
sociale, le condanne si facevano sempre più frequenti,
per diventare poi la prassi nel “decennio degli attentati”.
Era infatti impensabile, per gli uomini della Sinistra storica,
da Nicòtera a Crispi, da Depretis a Zanardelli a Cairoli,
ex garibaldini ed ex rivoluzionari che tanto si erano impegnati
per la costruzione della Nazione, che si potesse essere contro
la Nazione stessa e contro lo Stato. Ecco, dunque, affermarsi
il concetto secondo il quale l'anarchismo era un delitto in
quanto tale, indipendentemente dagli eventuali reati commessi;
e l'imparzialità del Diritto, se mai era esistita, doveva
essere piegata alla ragion di Stato. L'obiettivo, il fine ultimo,
era togliere ogni valenza sociale alla propaganda anarchica
privandola dei suoi postulati sociali, per assimilarla al puro
e semplice delitto; e non, come in passato, al delitto politico
ma, più volgarmente, al delitto comune. A dar manforte
alla repressione della giustizia, ecco intervenire la scienza,
che trovò nel positivismo lombrosiano e nell'antropologia
criminale un nuovo strumento di criminalizzazione e delegittimazione.
Tanto più credibile quanto più apparentemente
progressista. L'ipotesi scientifica, infatti, si abbinava “felicemente”
a quella sociologica che interpretava la teoria anarchica come
materia delinquenziale e vedeva nei suoi militanti le tabe della
degenerazione fisica e morale: i sempre più frequenti
internamenti in manicomio di sovversivi e “diversi”
non furono che un'ipotesi di “lavoro” che avrebbe
trovato la sua tragica realizzazione negli anni cupi del terrore
stalinista.
Contro il “delitto” anarchico e contro
la lotta di classe
Per amministrare la giustizia nei casi di insorgenza sociale
e per controllare più efficacemente il dissenso, il potere
ha sempre avuto a disposizione tre strumenti, la cui sinergia
si è rivelata fondamentale in determinate occasioni:
le norme amministrative vere e proprie (quali lo scioglimento
di gruppi o associazioni sovversive, il deferimento dei membri
ad organi speciali, le misure preventive come il domicilio coatto,
ecc.), gli strumenti giudiziari straordinari (ovvero le leggi
speciali elaborate eccezionalmente in situazioni di particolare
gravità), infine gli strumenti giudiziari ordinari, quelli
che dovrebbero dare le maggiori garanzie ai fini della repressione,
in quanto capaci di offrire uno spettro più ampio di
reati da colpire.
Come si è visto a proposito dei primi processi all'Internazionale,
il terzo strumento, quello ordinario, si prestava a interpretazioni
discrezionali, per cui, in un “ammirevole” sforzo
di razionalizzazione, la sinistra storica nel 1890 diede corpo
a un nuovo Codice di diritto penale, il codice Zanardelli, apparentemente
più liberale dei codici preunitari e di quello del 1859,
ma nei fatti molto più sofisticato (e anche malleabile)
nell'organizzare il controllo sociale. Tanto più in quanto
era accompagnato da disposizioni di pubblica sicurezza che colpivano
la libertà di riunione (con l'obbligo del preavviso di
24 ore all'autorità) e la semplice espressione di pensiero,
e conservava, al tempo stesso, disposizioni particolarmente
severe quali il domicilio coatto e l'istituto dell'ammonizione.
Puntualmente mirati furono alcuni degli articoli destinati a
colpire sia i singoli individui (come l'art. 246 che sanciva
il reato di “istigazione a delinquere” e il 247
che prevedeva i reati di apologia, eccitamento alla disobbedienza,
eccitamento all'odio fra le classi sociali), sia gli associati,
con il famoso art. 248 che introduceva il reato di associazione
per delinquere in quanto tale (quando cinque o più persone
si associano per commettere delitti…) e il 251, che puniva
la creazione di una associazione diretta a compiere i reati
previsti dall'art. 247.
Inizialmente, comunque, l'interpretazione giuridica fu particolarmente
controversa (soprattutto in riferimento all'art. 248), a seconda
di come e a chi si dovesse applicare, ma dopo un breve periodo
di “rodaggio”, la si intese in senso sempre più
restrittivo tanto che, negli ultimi anni del secolo, arrivò
a colpire anche le associazioni socialiste legalitarie. A dimostrazione
che l'intento non era di frenare solo il “delitto”
anarchico ma anche la diffusione della lotta di classe e l'organizzazione
delle masse proletarie. Famose, al proposito, restarono le arringhe,
poi raccolte in opuscolo, di Pietro Gori, chiamato a più
riprese nei tribunali d'Italia a difendere gli anarchici dall'articolo
248.
Lo stato d'assedio, per due volte
Ma l'inasprimento della legislazione non si rivelò
sufficiente a imbrigliare le lotte popolari, e infatti il 1894
vide una intensa conflittualità sociale, culminata nel
movimento dei Fasci siciliani e nei moti della Lunigiana. Causati
dall'inasprimento delle già misere condizioni di vita
dei ceti popolari, e dalla diffusa insofferenza nei confronti
della repressione “preventiva”, tali momenti insurrezionali
misero talmente paura nelle classi dirigenti, culturalmente
impreparate ad affrontare la nuova situazione, da spingere il
governo Crispi a promulgare per ben due volte lo stato d'assedio,
affidando i pieni poteri ai comandi militari, quasi si trattasse
di combattere contro un esercito invasore. In base a “quella
legge che è la necessità e la salute della patria”
vennero soppresse le libertà civili e affidati pieni
poteri al generale Morra di Lavriano in Sicilia e al generale
Huesch in Lunigiana: la repressione fu spietata, con centinaia
di morti e migliaia di anni di carcere, spesso comminati senza
prove e con totale discrezionalità da parte dei tribunali
militari. Esemplarmente indicativa la sentenza contro l'avv.
Luigi Molinari, il propagandista anarchico che più tardi
avrebbe fondato l'Università Popolare, condannato a 24
anni per aver tenuto una conferenza nel carrarese prima dello
scoppio dei moti, durante i quali era già rientrato da
tempo nella natia Mantova. Tale abnorme retroattività
nelle imputazioni viene “giustificata” dalla Cassazione
perché “sarebbe ingiusto sottrarre costoro alle
conseguenze della disposizione rigorosa dello stato d'assedio
di cui furono causa, e sottoporvi invece soltanto coloro che
agiscono di poi trascinati da essi. Ciò sarebbe un colpire
la mano che eseguisce e non la mente, non la volontà
iniziale che la dirige”.
Le cannonate di Bava Beccaris, poi Gaetano Bresci
Ma poiché, a fronte dell'insorgenza sempre più
pressante della questione sociale, non sembrarono sufficienti
né la legislazione ordinaria né gli stati d'assedio,
il governo Crispi inasprì la stretta repressiva promulgando
tre nuove leggi speciali (le ricordiamo le leggi speciali dei
nostri anni Settanta?). Chiamate col nome del loro ideatore,
ma note anche, per suggerimento dello stesso Crispi, come leggi
“antianarchiche”, le tre leggi eccezionali disciplinavano
il possesso di materiali esplodenti, inasprivano le pene per
i reati a mezzo stampa e l'apologia di terrorismo, vietavamo
riunioni e associazioni aventi a oggetto il sovvertimento dell'ordinamento
sociale, prevedendo il domicilio coatto per gli accusati. In
pratica, gli articoli del codice Zanardelli venivano utilizzati
in maniera estensiva, in modo che potessero “essere adoperati
come armi insidiose a colpire nella stampa e nella parola la
libertà di pensiero e la libertà di associazione”.
Veniva ulteriormente inasprito il reato di “associazione
di malfattori” (ora era sufficiente essere solo in due
e non più in cinque per essere “associati”)
e gli anarchici in quanto tali venivano sottoposti con estrema
leggerezza a provvedimenti restrittivi quale il carcere o il
domicilio coatto. Come prevedibile, le isole si riempirono di
coatti (non mancavano, comunque, i socialisti e qualche repubblicano)
e per alcuni anni in Italia non poté uscire un solo foglio
anarchico. E chi conosce la costanza con la quale gli anarchici
di tutte le tendenze pubblicano i loro giornali, potrà
capire l'eccezionalità di una simile contingenza. Del
resto la azzardata e fallimentare politica colonialista dell'Italia
non intendeva subire la ficcante critica antimilitarista e internazionalista
del movimento anarchico e, al tempo stesso, l'enormità
delle folli spese militari sostenute per le conquiste africane
e il clamore degli scandali finanziari, su tutti quello della
Banca Romana, non potevano permettere che il malcontento popolare
si trasformasse in organizzazione sociale.
I fatti di Milano nel 1898, l'ennesimo stato d'assedio e le
cannonate del generale Bava Beccaris contro il popolo milanese,
le centinaia di morti e il consueto accanimento giudiziario
saranno il suggello di un'epoca nella quale il potere statale
ed economico si sono accaniti con deliberata ferocia contro
gli avversari. Ci avrebbe pensato Gaetano Bresci, il 29 luglio
del 1900, nel parco reale di Monza, a pareggiare il conto. E
dopo, fra i detti popolari, entrava a buon diritto anche quello
citato all'inizio, che ancora non molti anni orsono faceva parte
della saggezza popolare dei vecchi imolesi.
Massimo Ortalli
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