in direzione
ostinata e contraria 10
Dentro la lingua di un popolo
Interviste a Sandro Fresi e Paola Giua
di Renzo Sabatini
Per poter raccontare un popolo, un'identità, bisogna saper farne propria
la lingua, riuscendo a coglierne anche le sfumature.
Esattamente come ha fatto Fabrizio con la Sardegna.
A colloquio con due membri del gruppo musicale sardo Iskeliu.
Ho cercato Sandro Fresi
dopo averlo ascoltato nel filmato Faber di Giuffrida
e Bigoni. Una breve apparizione nella quale racconta, con una
certa ritrosia e quasi la paura di mettersi in mostra, della
sua ricerca musicale e dell'incontro con De André, con
il sottotitolo che lo presenta come: “Capostazione di
Tempio Pausania”, quasi fosse uno scherzo del regista.
Ma non era uno scherzo e allora ci si chiede come mai uno che
da trent'anni fa ricerche da etnomusicologo, suona strumenti
antichi come la ghironda, compone musiche e ha inciso vari cd,
il primo dei quali con la prefazione di Fabrizio De André,
di mestiere faccia il capostazione.
Non è stato facile trovare i dischi di Fresi: neanche
la presentazione di De André è servita a farli
arrivare sugli scaffali delle rivendite. È finita che
ho dovuto farlo cercare da un amico e che lui, gentilissimo,
i suoi dischi me li ha regalati.
Di quella musica mi sono subito innamorato. Sandro raccoglie
materiali, storie, poesie, musiche, strumenti. Gira per le campagne
della Gallura a parlare con i contadini per salvare un patrimonio
inestimabile di racconti e leggende. Sperimenta. Inventa nuovi
linguaggi musicali, per decodificare quegli antichi messaggi
e renderli accessibili ad orecchie e sensibilità moderne
e urbanizzate. Nella calma inquieta di una “stazione lambita
dal mare, al centro del Mediterraneo”, costruisce armonie
che uniscono il suono antico delle launeddas con quello “colto”
del violoncello, creando contaminazioni fresche e saporite,
musiche capaci di raggiungere il fondo dell'anima, emozionare,
portare in superficie sentimenti profondi, inquietudini. Capace
di commuovere. E di mestiere fa il capostazione, perché
quest'arte “povera” in Italia è negletta
e i discografici e le istituzioni si guardano bene dal promuovere
questa nostra ricchezza nazionale.
Eppure i cd di Sandro sono bellissimi e consiglio a tutti
di cercare di procurarseli, per provare l'emozione di conoscere
la Sardegna e il Mediterraneo attraverso le sue musiche. La
sua versione dell'Ave Maria della Buona Novella,
cantata in gallurese, algherese e logudorese, è emozionante.
Nel 2007, con il suo gruppo Iskeliu, Sandro Fresi è
venuto due volte in tournée in Australia, dove ha raccolto
quel successo di pubblico e quell'attenzione da parte dei media
che in Italia non trova. Così ho avuto il piacere di
avviare e consolidare un'amicizia profonda, perché è
uno di quei casi in cui fra l'artista e l'uomo non vi è
distanza.
Quando, per la trasmissione, ho deciso di affrontare i temi
cari a De André da Crêuza de mä in
poi, con l'uso degli idiomi locali e degli strumenti del Mediterraneo,
mi è sembrato normale parlarne con questo artista che
ha trascorso la vita in quell'angolo di Sardegna, a pochi chilometri
dallo stazzo dell'Agnata, dedicando tutti i suoi sforzi alla
stessa ricerca artistica. Attraverso Sandro e altri membri di
una non tanto sparuta pattuglia di resistenti della cultura
popolare ho capito che, in un certo senso, anche questi artisti
rientrano nel novero di quegli emarginati (ma anche di “anime
salve”) che furono tanto cari a De André.
Intervista a Sandro Fresi
Nel tuo caso le presentazioni sono un po' inutili perché
dopo la tournée del febbraio 2007 forse sei più
conosciuto in Australia che in Italia. Comunque, per gli ascoltatori
più distratti, vuoi ricordare al nostro pubblico i tuoi
vari impegni artistici?
La tournée in Australia per noi è stata un po'
una sorpresa, perché certamente ci aspettavamo il calore
del pubblico ma non una partecipazione così convinta
e numerosa nelle quattro capitali dove abbiamo tenuto concerti.
Siamo contentissimi e viviamo ancora di questo ricordo. Rientrati
nella nostra povera patria, come direbbe Battiato, non abbiamo
avuto alcun riscontro mediatico mentre la tournée è
stata così tanto evidenziata dai media nazionali australiani.
Umilmente siamo rientrati in Sardegna e abbiamo continuato il
nostro impegno qui, dando concerti anche all'interno dell'isola.
Il titolo del tuo primo disco ha dato il nome anche alla
tua band: Iskeliu. Quell'album è uscito con la prefazione
di Fabrizio De André e tu hai detto che il motivo per
cui hai chiesto proprio a lui la presentazione non aveva nulla
a che fare col fatto che abitava a pochi chilometri da casa
tua. Allora qual era questo motivo?
C'era, da parte di questa piccola etichetta, la necessità
di una presentazione di rilievo, dato che fino a quel momento
avevo realizzato solo collaborazioni con altri artisti. Io in
realtà ero molto titubante ma il fatto che abbia scelto
proprio De André non c'entra con il fatto che abitasse
vicino a Tempio Pausania ma è legato all'album Crêuza
de mä con cui, nei primi anni ottanta, con l'aiuto
importantissimo di Mauro Pagani, aveva utilizzato le sonorità
pan-mediterranee. Quell'album ha rappresentato una svolta perché
venivano utilizzate sonorità e strumenti popolari e di
tradizione. Lui è stato ed è rimasto l'unico grande
artista che si sia veramente interessato a questi suoni, che
sono quelli che utilizziamo anche noi.
Quello per gli idiomi locali e gli strumenti “etnici”
è un interesse che è sbocciato gradualmente in
De André, sembrerebbe in parallelo con una certa insofferenza
per le costrizioni dell'italiano. La prima traccia di questa
svolta è una canzone proprio in lingua gallurese, Zirichiltaggia,
pubblicata nel 1978 nell'album Rimini;
cui ha fatto seguito nel 1980 l'Ave Maria
sarda nell'album Indiano. Due gesti di
riguardo verso la terra adottiva o intrusioni inopportune?
Zirichiltaggia è molto simpatica, molto divertente
e gioiosa e per i gallurofoni e i sardi in genere è stata
un'autentica sorpresa, una piacevole rivelazione. A noi galluresi
è parso un gesto di riguardo verso la terra adottiva.
Fra l'altro dal punto di vista fonetico non la cantava neanche
male e quindi è una cosa che è risultata subito
molto partecipata, sentita e gradita in Gallura e in Sardegna.
L'Ave Maria sarda è molto antica e per la sua
versione De André si era ispirato a un'elaborazione di
Albino Puddu, un musicista e compositore del sud della Sardegna,
credo del Sulcis, che aveva fatto in realtà un album
con assonanze latinoamericane. De André ha rielaborato
il pezzo e questa sua versione, con un ingresso in tonalità
minore, è stata talmente apprezzata e gradita che oggi
è considerata alla pari della versione tradizionale che
si canta da secoli in Sardegna.
L'anima pan-mediterranea
Il disco Crêuza de mä
del 1984 è stata una sorpresa che però ha fatto
anche storcere il naso ai cultori di De André. Poi col
tempo questo album è diventato un classico. Ma perché
Crêuza de mä è importante?
Quali sono dal punto di vista della tua ricerca artistica i
punti di forza di questo lavoro?
Innanzitutto l'uso del genovese, anche se in una versione arcaica,
considerato una lingua, un idioma locale e non un dialetto.
De André non voleva più cantare in italiano o
comunque aveva espresso il desiderio di cantare nella sua lingua,
una lingua locale, minoritaria ma utilizzata come una sorta
di linguaggio universale, o lingua franca del Mediterraneo.
Poi, dal punto di vista musicale e strumentale, nel disco, nelle
sonorità che esprime, c'è tutto l'universo del
Mediterraneo e del vicino Oriente. È un disco che contiene
proprio l'anima pan-mediterranea, con tutti gli strumenti a
vento, a fiato, le percussioni, gli strumenti a pizzico utilizzati
in una vasta area. Un'operazione davvero splendida.
Molti sostengono che Crêuza de mä
ha rappresentato un punto di passaggio per la musica italiana.
Però non è che in Italia mancassero, prima di
De André, coloro che facevano ricerca nell'ambito della
musica popolare o sperimentazione con strumenti etnici. In che
modo Crêuza de mä rappresenta
un punto di passaggio?
Certamente già prima di Crêuza de mä
e anche nello stesso periodo c'era gente che si interessava
in maniera molto seria alle cosiddette musiche di confine e
ai suoni tradizionali. Però il fatto che sia stato uno
dei più grandi autori in lingua italiana, un grande poeta
e musicista a prendere in mano questa situazione, è stato
sicuramente determinante per il gradimento generale, quindi
per aprire un varco nel consenso verso questi suoni che, fino
a quel momento, erano ritenuti marginali, arcaici, direi quasi
di colore, nell'immaginario musicale italiano.
È vero che Crêuza de mä
ha anche spinto i giovani artisti ad interessarsi a questa musica,
a comporla, a cominciare a suonare certi strumenti?
Non ci sono dubbi. Come il suo modo di scrivere i testi ha influenzato
molti autori nella scrittura delle liriche, così anche
nel campo della musica etnica. Da allora in poi quel disco ha
rappresentato un punto di riferimento che ha influenzato un
certo modo di intendere la musica. È un album precursore
di quella che poi oggi viene definita la “World Music”
italiana.Ha indicato una direzione e ispirato molti musicisti.
All'inizio però il disco era stato un flop. Lo
stesso De André ammise che usare il genovese era stata
un po' una sfida anche nei confronti dei discografici. La genesi
del disco, raccontata dai suoi autori, parla di testi scritti
all'inizio in una sorta di arabo maccheronico, per poi finire
in questo genovese arcaico che De André aveva definito
“figlio dell'Islam”, ricco di fonemi arabi, in qualche
modo rappresentativo di tutto il bacino del Mediterraneo. Che
valore ha oggi questa posizione, vista la contrapposizione netta
che si cerca sempre di proporre fra Europa e Islam?
Gran bella domanda alla quale però è difficile
rispondere in maniera esaustiva e convincente, visto che non
sono un politologo! Però ti racconto un aneddoto che
può servire. Abbiamo fatto qualche tempo fa un progetto
di archeomusica, con i musicisti del mio gruppo Iskeliu1,
allargato anche a etruscologi e a specialisti in strumenti musicali
del vicino Oriente. Questo progetto è stato una specie
di viaggio a ritroso per la Sardegna, la Corsica per arrivare,
passando per la Tuscia e poi per le coste del Libano, fino a
Ebla, in Mesopotamia, dove pare sia nata la musica circa seimila
anni fa, passando per la Grecia, per l'epitaffio di Sicilo,
che è un epitaffio dove, per la prima volta, si rappresenta
la notazione musicale. Questo per dirti che, per chi presta
attenzione a questo genere di cose, la questione non si pone.
Questo antagonismo associato all'Islam è un problema
che noi che facciamo questo tipo di musica neanche prendiamo
in considerazione, perché la nostra musica passa dall'Islam.
Prendiamo ad esempio l'oud arabo, che è uno strumento
di ascendenza sumerica che si suonava già quasi seimila
anni fa: noi lo utilizziamo ancora oggi nei nostri arrangiamenti.
Da questo strumento poi sono derivati tutti i cistri e tutti
i liuti rinascimentali, ad esempio la cetera corsa e l'aud catalano
che oggi sono utilizzati comunemente nelle musiche del Mediterraneo
occidentale.
Restando ancora su Crêuza de mä,
De André disse che con questo lavoro voleva ricordare
le radici mediterranee della nostra cultura in un momento in
cui tutto era imitazione delle tradizioni anglosassoni e afrocubane.
“La musica popolare era relegata in soffitta fra le ragnatele”,
disse De André, “e io ho cercato di dare un calcio
alla porta sempre chiusa”. Pensi che davvero quella porta
fosse chiusa e che il Crêuza de mä
sia servito ad aprirla?
Per quanto riguarda le musiche del Mediterraneo, quelle popolari,
sicuramente sì, perché fino a quel momento quelle
musiche erano pressoché ignote al grande pubblico, che
semmai le associava a una visione folcloristica. In quel periodo
si viveva una sorta di revival e chi presentava i repertori
lo faceva in maniera filologica. Non c'era quasi mai un utilizzo
di tipo creativo di queste sonorità. Credo che da questo
punto di vista lui abbia veramente sfondato questa porta ed
aperto ad un pubblico molto più vasto, un pubblico nazionale
che ascoltava altre cose, portandolo ad apprezzare la bellezza
di queste sonorità.
Dopo Crêuza de mä ci sono
ancora due dischi importanti, purtroppo anche gli ultimi di
De André. Nelle Nuvole del 1990
torna in parte a esprimersi nelle lingue locali: genovese, gallurese
e napoletano. In Anime salve del 1996,
oltre al genovese ci sono incursioni anche in altre lingue,
il romanés e il portoghese. Ma soprattutto c'è
un ruolo sempre più importante degli strumenti etnici.
Come li valuti questi due lavori?
Credo che fosse ormai la direzione che aveva preso con Crêuza
de mä e verso cui andava. Anime salve è
un percorso spirituale nell'anima del mondo. Ci sono le influenze
del tropicalismo di Caetano Veloso, ma poi c'è il Mediterraneo,
con influenze anche di musica balcanica. Si sentono anche molto
le influenze di Pagani da un lato e di Fossati dall'altro e
direi che De André ha optato per una sorta di miscellanea
di queste posizioni, come se nel disco convivessero più
anime.
Lingue ai margini
In un'intervista rilasciata ad una rivista anarchica De
André chiarì che nel suo lavoro cercava di non
confondere musica etnica e musica folk perché: “La
musica folcloristica è quella che fa il popolo per far
divertire le classi sociali più elevate mentre la musica
etnica è quella che fa il popolo per se stesso”.
Tu cosa ne pensi?
È una bellissima considerazione! Che dire di fronte a
queste parole? Sono in ginocchio! Perché è la
pura verità. La classe dominante ha sempre guardato alla
musica folcloristica con benevola condiscendenza, con un occhio
quasi compassionevole verso questa musica “povera”,
fatta dal popolino. Tanto è vero che questa era la definizione
che si trovava fino a pochi anni fa nei dizionari alla voce
“musica folcloristica”: musica suonata dal popolino.
In questi lavori è centrale la riflessione sull'italiano
e sulle lingue cosiddette “minori”. Una riflessione
riassunta nella conclusione che, mentre la lingua nazionale
è imposta dall'alto, le lingue locali sono frutto della
tradizione, rappresentano il vero mezzo espressivo del popolo,
un mezzo attraverso cui l'italiano si rinnova. Mi pare che questa
riflessione si sposi con la tua ricerca artistica.
Sicuramente sì. L'italiano da solo non ce la farebbe
a sopravvivere e quindi deve continuamente attingere da questa
risorsa che sono le lingue e gli idiomi locali. È conclamato
nell'opera di De André come amasse queste lingue delle
minoranze, queste che lui definiva lingue tagliate, che sono
ai margini, magari utilizzate da poche migliaia di persone.
La mia ricerca artistica si rivolge a questo stesso mondo, che
è situato ai margini.
De André sosteneva che queste lingue si sposavano
bene con i suoi personaggi marginali, che in questo modo potevano
esprimersi in modo veramente popolare. Pensiamo alle prostitute
di Via del Campo, che ritroviamo nella
Duménega di Crêuza
de mä. Pasolini del resto diceva che il dialetto
è il popolo e il popolo è autenticità e
De André ne deduceva che allora il dialetto è
autenticità. Tu fai la stessa cosa, mi pare, facendo
cantare i tuoi personaggi in gallurese, corso, sardo e così
via.
Sì, nella mia ricerca musicale utilizzo lingue, dialetti,
codici, nella convinzione che siano il miglior veicolo per musiche
suonate con strumenti popolari. Mi suonerebbe strano l'utilizzo
dell'italiano in un contesto di musica di tradizione, ancorché
creativa. Il binomio diventa inscindibile quando si parla di
testualità e di musiche e strumenti che, accompagnando
la lirica, si rifanno alla tradizione popolare. Lo stesso vale
al contrario: la canzone cantata in sardo ma con riferimenti
a musiche d'oltreoceano risulta in tutta la sua pochezza, quanto
a originalità, quando poi uno va ad ascoltarla. Parlo
del sardo per fare riferimento alla mia isola, ma potrebbe essere
una canzone pop o etno beat cantata in una qualunque altra lingua
locale e sarebbe lo stesso. Una canzone così non ha dentro
una spinta.
Parlando di lingue minoritarie e di personaggi deandreiani,
parliamo di questa splendida versione dell'Ave Maria
tratta dalla Buona Novella, che hai inserito
in questo tuo bellissimo album che si chiama Zivula.
Qui hai utilizzato proprio lingue e strumenti cari a De André.
Parlaci di questo pezzo: perché l'hai fatto, perché
l'hai scelto, come l'hai costruito?
Dopo che Fabrizio è andato via ho sentito la necessità
di dedicargli un omaggio. Molti hanno avvertito questa necessità,
anche se alcuni lo hanno fatto con operazioni molto discutibili
e altri con operazioni degne di grande rilievo. Io, più
sommessamente, ho pensato di prendere un classico “minore”
della produzione di De André, un pezzo che passava quasi
inosservato nella Buona Novella, perché l'Ave
Maria è un brano che nell'album dura poco più
di un minuto e mezzo. Ho trovato le parole di una bellezza struggente,
per come viene descritta la figura di Maria, in una dimensione
molto umana. Ho preso in mano questa lirica con molta attenzione,
con molto timore di rovinarla, in qualche modo di profanarla
e ho lavorato sul testo assieme a degli specialisti di idiomi
locali sardi, in modo da affrontarlo in maniera molto filologica.
Ho scelto queste lingue minoritarie della Sardegna come omaggio
della mia terra a un grande che, come sua residenza per vivere
e comporre, aveva scelto questo lembo di Sardegna nel nord-est
della Gallura montana, lontano dai clamori delle coste, in un
piccolo paese di pietra e di granito. Così, per quanto
riguarda il linguaggio, con questi due studiosi, Carlo De Martis
per quanto riguarda l'algherese, il catalano antico di Alghero,
e Piero Canu per quanto riguarda il gallurese e il sardo logudorese,
si è lavorato per fare una traslazione del testo che
fosse la più fedele possibile all'originale. Anche per
la musica, l'arrangiamento, c'è stato un lavoro di scelta
meditato. Ho pensato di utilizzare un piccolo coro gregoriano,
un organo a canne, di quelli piccoli che si trovano ancora nelle
cappelle o nei piccoli santuari della Gallura e che sono andato
a registrare direttamente sul posto. Soprattutto ho deciso di
utilizzare le benas che sono strumenti a vento, più o
meno come le launeddas, anche se più piccole. Si tratta
di uno strumento primordiale della Sardegna che ha almeno tremila
anni di storia musicale e in questo caso si è trattato
di Benas costruite apposta per questo pezzo, in tonalità
minore. Questa è tutto sommato l'intelaiatura, la tessitura
quasi minimale del pezzo, un'intelaiatura che è stata
concepita per sottrazione rispetto all'arrangiamento originale,
che era molto corposo e pieno di archi. Questo è stato
un po' il ringraziamento a un maestro che aveva prestato attenzione
al mio lavoro. Ho cercato con molta umiltà di utilizzare
quelle lingue minoritarie e quegli strumenti che lui amava tanto.
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Lo stazzo, insediamento rurale caratteristico della
Gallura. Ora molti di essi sono abbandonati |
Una storia sarda
De André ha passato una parte importante della sua vita in Gallura,
lo ricordavi tu stesso poco fa, e non si è fatto scoraggiare nemmeno
dal rapimento. Tu, oltre alla tua versione dell'Ave Maria
di cui abbiamo appena parlato, lo ricordi ogni anno con un'iniziativa che si
chiama Coriandoli a Tempio. Di che si tratta?
Prima di parlare di Coriandoli a Tempio ho bisogno di parlarti del contesto
in cui questa mia iniziativa si inserisce. Perché Tempio non ha mai dimenticato
questo suo illustre concittadino e da quando lui se n'è andato è
stato tutto un fiorire di iniziative. Io sono stato subito chiamato per la direzione
artistica di una rassegna musicale, perché i ragazzi dei licei scientifico
e artistico-musicale organizzavano un'iniziativa in teatro con giovani voci
che interpretavano il repertorio di De André. Poi sono stato chiamato
dall'amministrazione comunale per la realizzazione di un festival deandreiano
che si tiene ogni anno nella prima settimana di agosto. Per me, che sono stato
beneficiato dalla prefazione di De André al mio primo disco, questo rappresenta
un appuntamento al quale non posso mancare. Io faccio la direzione artistica
del festival veramente con spirito di immensa gratitudine nei confronti di Fabrizio
De André e con spirito di servizio nei confronti della mia comunità.
È un festival molto sentito, anche perché non si tratta di un
omaggio filologico, e vengono spettatori da ogni parte della Sardegna. Ho cercato
di privilegiare la creatività degli arrangiamenti nella proposizione
dei repertori, ad esempio ho fatto partecipare artisti come Kewin Dempsey, un
cantautore londinese che canta alla sua maniera il repertorio genovese di De
André; il gruppo provenzale Corou de Berra, che utilizza i particolarissimi
cori polifonici delle Alpi del sud; fino ad arrivare all'energia elettrica prorompente
degli Yo Yo Mundi. In questa cornice si inserisce anche Coriandoli a Tempio,
che è una mia riduzione in forma di reading musicale del romanzo che
De André scrisse assieme ad Alessandro Gennari, Un destino ridicolo,
il cui primo capitolo si intitola appunto Coriandoli a Tempio. È
un libro di una bellezza straordinaria, affollato di personaggi tipici dell'universo
deandreiano: visionari, poveri, emarginati, pastori. Abbiamo scelto di rappresentarlo
perché è una storia sarda, che inizia e finisce in un martedì
grasso in cui a Tempio Pausania impazza il carnevale.
Hai citato la prefazione al tuo primo disco. Forse è giunto il
momento di raccontarlo questo tuo incontro con De André. Quando lui ha
ascoltato la cassetta con le tracce di Iskeliu poi ti ha telefonato per dirti
che avrebbe scritto la prefazione e tu sei andato a casa sua, all'Agnata, col
cuore in gola, a conoscerlo. Ti ricordi com'è andata?
In realtà non amo molto raccontare quell'episodio, perché non
vorrei dare l'impressione di menar vanto delle mie cose. Io sono profondamente
grato a Fabrizio De André che, quello che ha fatto, voglio sottolinearlo,
non l'ha fatto per amicizia. Perché lui era talmente rigoroso dal punto
di vista intellettuale, di un'onestà morale eccezionale, che non l'avrebbe
fatto solo per fare un favore a un amico, non l'avrebbe fatto se non ci avesse
creduto. Questo me lo ha confermato in seguito anche Dori Ghezzi. Comunque:
avevo fatto avere a De André il semplice riversaggio dallo studio di
registrazione di questo disco che non riuscivamo a pubblicare perché
nessuno se ne interessava. Anche se facevamo questa musica da anni nessuno voleva
lanciare il disco perché è una musica che non è di moda.
Ma io sono contento di fare musica che non è di moda e spero, con sommessa
vanità, che non essendo di moda possa rimanere e sopravvivere all'incalzare
delle mode. Quel giorno sono arrivato all'Agnata e Fabrizio mi aspettava sull'uscio
di casa, come facevano i contadini degli antichi stazzi galluresi. Appariva
sorridente, sereno. In casa c'erano degli amici e per me è stato molto
imbarazzante. Perché a questi amici lui ha detto: “Sapete, qui
mi arriva musica da tutta Italia. Io ascolto tutto. Però vi dico che
questo ragazzo fa una musica che mi ha davvero emozionato e non è una
cosa che capita spesso a un vecchio cantautore come me”. È stato
davvero affettuoso e io ancora adesso ogni volta che ne parlo mi emoziono. Mi
ha poi portato in un angolo per farmi leggere la prefazione che aveva preparato
e mi ha chiesto se l'avessi gradita, con quell'umiltà che hanno solo
i grandi. Io ero quasi con le lacrime agli occhi e lui mi ha ringraziato e abbracciato.
Ricordo sempre il suo sorriso sulla soglia di casa, mentre mi salutava. Dopo
l'ho sentito varie volte per telefono ma non è stato più possibile
incontrarci e quindi conservo per sempre il ricordo di quel sorriso.
Siamo un po' al sogno, all'utopia: se tu potessi incontrarlo di nuovo,
a distanza di qualche anno, lo inviteresti a fare un pezzo assieme al tuo gruppo?
O cosa gli proporresti?
Dalla pubblicazione di Iskeliu ritengo di aver fatto un grande salto in avanti.
Lui era molto convinto di quel mio lavoro, che in realtà avevo fatto
con l'ausilio dei campionatori. Io per una decina d'anni avevo campionato e
rielaborato sonorità della Sardegna e del Mediterraneo con queste macchine
digitali, perché mi consentivano di inserire più strumenti, in
mancanza di musicisti, che non avevo, perché all'epoca i musicisti in
genere non credevano in questo progetto. Dopo l'uscita del disco invece sono
riuscito a riunire un team di musicisti, ho abbandonato quasi del tutto i campionatori
e utilizzo strumenti acustici sia di tradizione colta, come il violoncello e
il sax, che popolare, come i liuti, l'oud, la fisarmonica, le launeddas e la
ghironda. Quindi oggi, se potessi ancora incontrare Fabrizio, mi piacerebbe
fargli ascoltare il risultato di questa crescita, lo stile e il gusto che cerco
di mettere nel mio lavoro e sono certo che, come allora, non mi negherebbe il
suo sostegno e il suo aiuto. Certo, il sogno sarebbe stato poter fare qualcosa
per lui, o insieme a lui, o avere una sua collaborazione. Ma questo ovviamente
è destinato a restare un sogno.
Con intenzione popolare
Il tuo straordinario campionario di strumenti abbiamo
avuto il piacere di averlo qui da noi, speriamo che anche in
Italia si riesca ad ascoltare sempre più spesso questa
tua musica così evocativa. I sardi comunque hanno trovato
molto spazio nel canzoniere di De André, accanto ad altri
popoli: indiani, palestinesi, rom. In particolare ha avuto questa
intuizione molto originale mettendo a confronto sardi e cheyenne.
Tu come vivi quel paragone, ti sembra calzante?
Il paragone mi sembrerebbe eccessivo se non fosse che in Sardegna
esistono in alcune zone sacche di evidente marginalità,
dove il disagio sociale è molto forte e dove gli “indigeni”
sono trattati in una certa maniera. Non è così
ovunque, ovviamente. Lui comunque è stato talmente grande
da aver perdonato persino chi gli ha fatto del male, intuendo
che l'essere ricacciati continuamente nella marginalità
produce questi fenomeni così negativi e pericolosi.
Abbiamo parlato del De André che ha affrontato
con passione la musica etnica, i dialetti, quelli che tu chiami
“gli strumenti e le lingue dei poveri”. Concludi
tu con una tua riflessione.
Questo è il mondo in cui mi riconosco, lavoro, studio,
opero. Cerco di conoscere ed ascoltare anche quello che fanno
gli altri, perché è giusto documentarsi. Questo
tipo di musica è fatta con moduli e strumenti di antica
provenienza. È fatta con strumenti popolari e soprattutto
con intenzione popolare, attingendo da testi di poeti e rimatori
che sono o furono pastori e contadini, ai quali prendiamo versi
che utilizziamo per musicare delle nostre idee. Tutto questo
materiale lo mettiamo assieme per fare musica in una forma che
è contemporanea, creativa, per fare in modo che anche
chi ci ascolta possa ritrovarcisi. È una musica che sta
iniziando e questo sembra un paradosso. Ed è una musica
reietta e quasi negletta. Questo è quello che ci lega
di più all'universo deandreiano: questo amore per le
musiche di confine, per le lingue minoritarie, per gli strumenti
poveri e per la gente povera che li utilizza.
Intervista a Paola Giua
Nel 2007 in tournée con Sandro Fresi venne in Australia
anche Paola Giua: splendida voce del gruppo, capace di trasmettere
emozioni fortissime, che raggiungono una vetta interpretativa
proprio nell'Ave Maria della Buona Novella cantata con amore
nelle lingue che compongono il mosaico sardo. Ma naturalmente
neanche Paola di mestiere fa la cantante.
Paola, oltre che cantante, è una ricercatrice del
linguaggio e la presidentessa dell'associazione culturale “Iskeliu”,
fondata con Sandro Fresi. Per questo ho voluto sentire anche
la sua testimonianza, che integra e completa quella di Sandro.
Quello che segue è un estratto dell'intervista che
mi ha gentilmente rilasciato.
Nel febbraio 2007 abbiamo potuto ascoltare la tua bellissima
voce come cantante del gruppo Iskeliu di Sandro Fresi, ma sappiamo
che il tuo interesse per le lingue minoritarie va ben oltre
i tuoi impegni artistici.
I miei studi sono stati tutti orientati alle lingue minoritarie
e alla sociolinguistica. Vivendo in una terra così ricca
di varietà linguistiche fin da piccola ho avuto una particolare
passione per questo aspetto e da sempre mi sono dedicata a scoprire
le meraviglie di queste lingue, in particolare del gallurese,
che è la mia lingua madre2.
L'incontro con Sandro Fresi ha significato arricchire la mia
ricerca linguistica con la sua ricerca, musicale e linguistica,
con un grande rigore sul piano filologico.
Iskeliu non è solo un gruppo musicale ma anche
un'associazione culturale di cui sei presidentessa.
L'associazione nasce da un gruppo che ha fatto un percorso di
tipo etnografico e musicale. Cerchiamo di ritrovare le strade
della tradizione della Sardegna e della Gallura in particolare.
È una terra che, trovandosi al centro del Mediterraneo,
ha assorbito e rielaborato influenze di vari popoli e noi cerchiamo
di recuperare, a livello musicale ma non solo, queste tradizioni,
per valorizzarle e farle conoscere.
Da attenta studiosa delle lingue sarde come valuti le
liriche che De André ha cantato proprio in queste lingue?
Ho vissuto molto bene quelle canzoni. Quando noi galluresi ascoltiamo,
ad esempio, Zirichiltaggia (parola che contiene peraltro
un fonema impronunciabile per chi non è nato qui) sentiamo
una persona che è riuscita ad entrare completamente nel
nostro modo di vivere, di essere, di sentire, lo sentiamo come
uno di noi. Perché De André non ha fatto una semplice
traduzione di un testo, è proprio entrato nella testa,
nel modo di pensare del pastore sardo che litiga col fratello,
utilizzando una serie di frasi idiomatiche tipiche della nostra
zona e cogliendo anche il senso dell'umorismo tipico di questo
territorio. Poi c'è l'Ave Maria sarda che è
un pezzo tradizionale a cui tutti i sardi sono affezionati.
Lui ne ha fatta una rivisitazione che lascia tutti senza fiato,
sardi e non. Noi quindi, come sardi, siamo orgogliosi di aver
avuto questa attenzione da parte di un artista così importante.
Vorrei dire però che sono stata molto colpita anche dall'attenzione
che ha dedicato al popolo rom in Khorakhané. Mi
ha colpito perché è un'attenzione così
vicina, così vissuta dal di dentro. Proprio come era
stato per il popolo sardo, verso cui ha avuto un graduale avvicinamento
fino quasi al volersi fondere, conoscere fino in fondo una minoranza,
una cultura altra, un essere altro da sé.
Genovese antico e moderno, gallurese e sardo, napoletano,
portoghese e romanés... com'è l'uso degli idiomi
in De André?
Apparentemente spontaneo ma in realtà particolarmente
e attentamente studiato, nel senso che De André entra
dentro quelle lingue per cogliere il lato più vero delle
culture alle quali vuole avvicinarsi. Perché una lingua
non è solo un modo di parlare ma diventa proprio il modo
di esprimere il pensiero in una determinata cultura e questo
significa che per poter raccontare un popolo, un'identità,
è necessario entrare dentro la lingua di quel popolo.
E questo è proprio quello che fa De André, riuscendo
a cogliere sfumature di realtà molto lontane dalla sua.
Come ti sembra la Sardegna tratteggiata da canzoni come
il Canto del servo pastore o Disamistade?
Anche dopo l'episodio del rapimento lui ha continuato ad amare
i sardi e il Canto del servo pastore coglie con grande
sensibilità alcuni degli aspetti più intimi del
nostro modo di sentire, gli aspetti più teneri del nostro
modo di vivere la nostra terra. Questa figura del pastore io
la sento particolarmente vicina.
Renzo Sabatini
Note
- www.iskeliu.it
– iskeliu@tiscali.it
- Lingua romanza derivante dal corso, parlata in Gallura, regione
nord-orientale della Sardegna.
(interviste realizzate via telefono nel novembre e dicembre
2007. Registrate presso gli studi di Rete Italia – Melbourne.
Andate in onda nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale:
“In direzione ostinata e contraria”, dedicata ai personaggi
delle canzoni di Fabrizio De André).
In
direzione ostinata e contraria
Con
queste due interviste, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio Marcon e Gianni Novelli (“A” 378,
marzo 2013).
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