Il ritorno del gattopardo
di Nicoletta Vallorani
Tomasi di Lampedusa era un genio.
Tuttavia non credo proprio che immaginasse quanto sarebbe stata
longeva e lungimirante la frase che nel Gattopardo esce
di bocca al giovane Tancredi Falconeri, pronto ad unirsi, con
grande scandalo della sua famiglia, alle truppe garibaldine.
“Affinché tutto rimanga com'è, bisogna che
tutto cambi”.
Appunto.
Certo,
si era nel Risorgimento. Quelli erano tempi eroici. E il Gattopardo
è senza dubbio un capolavoro della letteratura. Però
in Italia, e nella vita pubblica soprattutto, il principio è
rimasto quello, non si scappa. Imbarbarito e senza prestigio
artistico, formulato male e messo in scena ancora peggio, e
tuttavia invariabilmente sempre quello: è un paese in
cui nulla cambia se non la superficie delle cose. E quella deve
cambiare, così noi gente normale ci illudiamo che finalmente
si respiri un'aria diversa.
Prendiamo l'Università, per esempio. Nonostante l'opposizione,
la resistenza, le voci che urlavano “Gelmini delenda est”,
la riforma minacciata da un paio di ministeri consecutivi e
finalmente realizzata dal ministro dell'Istruzione più
naif, per dirla in modo garbato, della nostra storia, è
diventata realtà. È entrata cioè in una
declamata fase operativa di tagli e riorganizzazioni.
Sui tagli, in effetti, non vi è dubbio. Una scure pesante
si è abbattuta sull'istituzione. Non alla cieca, però:
quello sarebbe poco professionale e cialtronesco. Se c'è
un problema economico, l'importante non è agire in modo
efficace nel campo dell'economia, ma dare l'impressione di farlo,
e sollevare un gran polverone mentre ci si atteggia a nuovi
Robin Hood. In questo, bisogna ammetterlo, siamo bravissimi.
Attori nati e bugiardi patologici, bravi proprio perché
convinti dell'assoluta verità delle nostre bugie, interpretiamo
la verità, perché semplicemente dirla sarebbe
banale e forse poco interessante. Tagliamo gli sprechi all'Università.
E per dimostrare che lo facciamo, invece di razionalizzare un
sistema di spesa a dir poco bislacco e sbilanciato e introdurre
qualche controllo, dimezziamo il finanziamento tout court. È
come se per risolvere il problema di un rubinetto che perde,
io mi facessi chiudere l'acqua. Il rubinetto perde uguale, ma
il fatto che acqua non ne cada per un po' crea l'impressione
che il danno sia stato riparato. Però prima o poi l'acqua
bisognerà aprirla di nuovo, e sarà chiaro che
il problema non è stato risolto. Così i finanziamenti
per l'istruzione universitaria sono stati dimezzati, ma quel
poco che c'è si incanala sempre per le stesse vie, che
non sono quelle della promozione della ricerca, del supporto
ai giovani studiosi e dell'incentivazione delle attività
di sviluppo. Nulla di tutto ciò.
In un paese intimamente gerarchico e velleitario, anche la scure
dei tagli è perfettamente avvezza alla lettura di Tomasi
di Lampedusa, e quindi sa bene che i rami più facili
da recidere sono quelli più bassi, e se in mezzo ci son
germogli, non fa nulla. Niente ricerca, niente nuove assunzioni,
riduzione dei dottorati, definitiva cancellazione della dignità
delle discipline umanistiche, che com'è noto sono una
valida occupazione solo per checche, rampolle di ricche famiglie
e ragazzi in apparenza sani e normali solo se in realtà
hanno qualche squilibrio mentale nascosto. Si sono incentivate
le politiche di acquisizione di finanziamenti esterni, sui quali
è mediamente aumentata – in molti atenei anche
se non in tutti – la percentuale trattenuta dall'amministrazione
centrale: una sorta di pizzo in cambio del quale non si ottiene
protezione. Sono aumentati gli studenti per aula, il che rende
alcuni insegnamenti pratici o linguistici francamente ridicoli:
provate a imparare il cinese, da principianti, essendo 180 in
una sola aula. Le tasse sono cresciute, i contributi per merito
diminuiti. Le borse di studio stanno diventando fenomeni esotici
e leggendari dei quali si favoleggia senza averle mai sperimentate.
Però la struttura è stata rimodernata. Non ci
sono più le facoltà. Si sono accorpati i dipartimenti.
Si sono rifatti tutti i regolamenti. Bene: finalmente un po'
di movimento. E però come si fa a sopravvivere a questa
travolgente ventata di novità? Come si può proteggersi
da questo tsunami – per usare un termine così di
moda – di giovanile rinnovamento? Semplicissimo. Le facoltà
non ci sono più? I dipartimenti diventano piccole facoltà,
e ne svolgono quasi tutte le mansioni. Quelle che restano fuori,
vengono restituite a nuovissime strutture di raccordo tra dipartimenti,
che si chiamano, pensate un po', facoltà. Naturalmente
bisogna eleggere ex novo ogni organo collegiale: operazione
rischiosissima per il nuovo delicato equilibrio che si sta costituendo.
Perciò come proteggersi? E come faranno i giovani e inesperti
virgulti a occuparsi di una macchina così complessa?
Nessun problema: per garantire il minimo di continuità
necessaria, rieleggiamo le stesse persone con una lieve rotazione
delle cariche. Chi era presidente diventa vice, e chi era vice
si fa presidente. Questo quando proprio non è possibile
mantenere le cariche esattamente come sono, con gli stessi nomi
ricamati sopra, per risparmiare anche sul lavoro di revisione
del sito.
In questo gioco delle tre carte, c'è una sola cosa che
va irreparabilmente perduta, ed è la nostra dignità.
La credibilità della cultura che si supponeva dovessimo
occuparci di diffondere. Il progetto formativo. Insomma queste
doti obsolete che il nostro sistema scolastico e universitario
aveva. Ma, parbleu, molto meglio internazionalizzarsi,
equipararsi al mondo. Che questo produca fenomeni diffusi di
analfabetismo di ritorno non è rilevante. Conta, come
diceva il buon Tomasi, che tutto resti uguale, in questa immobilità
assoluta che oggi appare meno sfavillante e nobile di quanto
fosse ai tempi. Più che un gattopardo, al massimo, qui
parliamo di un toporagno. Ed è anche troppo.
Nicoletta Vallorani
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