Dove fiorisce il rosmarino
Intervista a Luca Nulchisdi Renzo Sabatini
“Un luogo dove le tensioni sociali esistono. Ma sono temperate
dal contatto diretto con la natura e da una profonda moralità
che si estrinseca nel rispetto di alcuni valori fondamentali“.
Così Fabrizio De André descriveva la Sardegna.
Luca Nulchis, musicista sardo, fondatore del gruppo Andhira,
parla del rapporto profondo del cantautore con questa terra.
Gli Andhira1
nascono da una ricerca che affonda le radici nella musica popolare
sarda ma poi va alla ricerca di altro. Lo stesso nome del gruppo
ha un preciso significato evocativo. Raccontaci di questo vostro
percorso artistico.
“Andhira“ è una parola che ritroviamo in
molti testi della tradizione orale della Sardegna. Evoca un
concetto di nomadismo, sia in una concezione intima, come condizione
interiore dell'essere umano, che in una concezione fisica, come
gruppi di esseri umani che si spostano sul territorio. Il senso
di questo termine c'è piaciuto come identificazione anche
della nostra musica, perché per noi è difficile
pensare di catalogare il nostro bagaglio musicale dentro un
genere preciso. Perciò abbiamo preso in prestito questo
vocabolo per rappresentare la nostra musica. Così nel
2000 è nato il gruppo per realizzare una serie di progetti
che in realtà erano in cantiere da tempo.
A un certo punto del vostro percorso c'è l'incontro
con le canzoni di De André, da cui nasce: Sotto
il vento e le vele, un lavoro discografico molto raffinato
e innovativo. Perché questo incontro con l'opera dell'artista
genovese?
Si è trattato di un'esperienza molto particolare perché
non si tratta di un progetto nato a tavolino. Anzi, vista l'importanza
del personaggio è un progetto che ci ha posto di fronte
a molte difficoltà. Questo lavoro nasce dall'invito della
Fondazione De André a partecipare ad un'iniziativa all'interno
del carcere di San Vittore, con le detenute, proprio con lo
scopo di portare la poetica di De André all'interno del
carcere. Noi all'inizio siamo un po' cascati dalle nuvole perché
questo lavoro non era proprio nei nostri programmi e ci siamo
chiesti cosa potevamo fare, perché davanti a un artista
così non è che puoi cavartela con delle cover.
Per questo abbiamo proposto una sorta di incontro virtuale fra
noi e lui, utilizzando come filo rosso la Sardegna, perché
lui aveva scelto la Sardegna come la terra in cui vivere una
parte importante della sua vita. Abbiamo intessuto il progetto
su questo legame che ci univa: la Sardegna, terra dove noi siamo
nati e che lui aveva scelto. Tanto è vero che alla fine,
nell'album, sono presenti pochissimi pezzi suoi, proprio perché
non è un tributo ma il tentativo di un incontro su un
piano, direi, quasi psicologico, come un incontro virtuale alla
ricerca del suo modo di vivere la Sardegna.
E secondo te come l'ha vissuta, De André, la Sardegna?
Secondo noi De André ha vissuto un rapporto particolare
con questa terra perché ne ha colto delle sfumature che
solo una sensibilità come la sua poteva cogliere, restituendola,
tra l'altro, in maniera mai folcloristica o biecamente confezionata.
Lui ha amato la Sardegna nel bene e nel male e non ha nascosto
né sentenziato mai niente. Il suo sguardo sull'isola
è stato molto sottile, nel senso che ha voluto immergersi
in questa cultura, non l'ha vissuta da turista, altrimenti si
sarebbe comprato direttamente una villa in qualche posto della
Costa Smeralda. Questo gli ha permesso di capire a fondo la
cultura sarda. Naturalmente si tratta pur sempre di un suo sguardo,
della sua angolazione. Però uno sguardo molto acuto,
molto sottile, molto corrispondente al sentimento che noi sardi
tendiamo ad avere.
Da Zirichiltaggia del 1978 a Disamistade
del 1996, c'è molta Sardegna negli ultimi venti anni
dell'opera di De André. Come sono queste canzoni che
parlano della Sardegna o che a volte parlano nelle lingue della
Sardegna?
Anche quando si è avvicinato alle lingue sarde lo ha
fatto sempre in modo molto rispettoso, restituendo spaccati
di vita, vicende, sentimenti, senza mai trasformare queste canzoni
in operazioni posticce, folcloristiche. Per esempio in un brano
come Zirichiltaggia non ha approfittato delle facili
speculazioni musicali che si possono fare sulla tradizione.
Tuttavia la situazione descritta è estremamente tagliente
e ci fornisce uno spaccato realistico. Questo lo trovo estremamente
rispettoso, anche considerati i tempi di allora, ma anche di
adesso, con questa globalizzazione del suono, dove i suoni sono
in realtà letteralmente rubati alle rispettive tradizioni.
De André, a parte le canzoni, ha parlato molto
della Sardegna, forse più di quanto abbia parlato di
Genova. Amava molto la natura ma vedeva anche la predominanza
di certi valori, quali il rispetto per gli anziani e per i bambini,
che in altre zone riteneva erosi dalla modernità e che
in Sardegna vedeva ancora forti. La condividi questa sua visione,
ti ci ritrovi?
Sì. Lui ha colto molti aspetti. Penso che abbia avuto
modo di elaborare una serie di idee vivendo qui e se avesse
avuto la possibilità di vivere più a lungo probabilmente
avrebbe sviluppato e approfondito quelle idee. La scelta di
vivere in Sardegna è stata determinata da una serie di
motivi tra cui quello che si tratta di un luogo dove ancora
è possibile, se lo si vuole, ricondursi a delle percezioni
che ormai, nelle grandi città o in certi ambienti sociali,
sono perdute. Penso che questo gli abbia permesso di cogliere
anche i lati più nascosti, se vogliamo anche quelli più
contraddittori di quest'isola. Tutto questo senza mai giudicare
o sparare sentenze. Tutto quello che ha restituito sulla Sardegna
è come una fotografia, o meglio un suo sguardo. E ciò
che ha restituito io lo trovo molto veritiero, sempre considerando
che si tratta comunque di un suo sguardo, tanto è vero
che alcune considerazioni le ha modificate nel corso degli anni,
perché ovviamente con il trascorrere del tempo la comprensione
che si ha delle cose cambia.
Nell'agosto del 1979 De André e Dori Ghezzi vengono
rapiti e tenuti prigionieri per quattro mesi. Fabrizio stabilisce
un rapporto con i carcerieri, due pastori, cercando di capirne
la psicologia. Alla fine, liberato, dirà che i veri prigionieri
erano loro, i due pastori, e offrirà il suo perdono.
L'amore di De André per la Sardegna non sembra essere
stato scalfito da quell'episodio. Tu cosa ne pensi?
Sì, lui e Dori Ghezzi lo hanno dimostrato in molte occasioni
e ho anche avuto modo di constatarlo di persona una volta che
siamo andati a Roma per partecipare all'inaugurazione della
piazza dedicata a De André2.
Il giorno dopo ci siamo visti con Dori per salutarci e Valeria,
una delle cantanti degli Andhira, ha avuto una sorta di sbalzo
umorale sfogliando un libro che Dori ci aveva regalato, perché
aveva visto una particolare fotografia o forse un articolo di
giornale e ha esclamato: “ma questo è il sequestro“.
Si è subito vergognata di aver tirato fuori davanti a
Dori un argomento così doloroso. Ci siamo tutti un po'
messi in tensione, invece Dori, dolcissima, con grande sincerità,
ha detto a Valeria che quell'episodio era stato fondamentale
nella loro vita ed è servito anche a far loro capire
quanto amassero la Sardegna; che in qualche modo quell'episodio
ha rafforzato una serie di sentimenti e di cose che nel corso
del tempo avevano colto di questa terra. Da questa esperienza,
per quanto minima, vissuta con Dori in quel momento, ho avuto
la sensazione che questa cosa non solo è sempre stata
vera nel loro cuore, ma è anche una cosa molto singolare
e in qualche modo un insegnamento per chi è capace di
leggere queste loro parole.
Come in un film western
Un'idea maturata dopo il rapimento è stata quelle
di mettere a confronto la Sardegna e i nativi americani, come
culture indigene lontane geograficamente ma vicine per molti
aspetti culturali e storici, in particolare per aver subito
lo stesso destino di aggressioni imperialistiche, sfruttamento
e abbandono. Per noi che viviamo in Australia questo confronto
si sarebbe potuto fare con i popoli aborigeni. Tu, da sardo,
come hai vissuto questo paragone che ti avvicina ai Cheyenne?
Penso di averlo vissuto un po' come tutti i sardi che hanno
amato De André (e siamo in tanti). Ci riconosciamo in
questa visione, ma non solo: il modo in cui lui ha restituito
questo aspetto rende quell'opera internazionale. Cioè
non siamo solo noi sardi che possiamo leggerci nella sua opera.
Perché De André descrive una situazione che in
realtà è accaduta un po' dappertutto e che ancora
continua a succedere. Qui possiamo riallacciarci al discorso
sul rapimento, perché anche la condizione del bandito
De André è capace di leggerla nell'ottica dell'uomo
prigioniero nella propria terra, quindi non identificato come
il male ma semmai come vittima di una situazione di oppressione.
Questo è un aspetto fondamentale e ci rende anche chiaramente
il pensiero di De André sui popoli oppressi.
Ad esempio in Quello che non ho si
parla di praterie e il protagonista sembra essere, appunto,
un Cheyenne. Ma De André disse che quella canzone rappresentava
anche la psicologia dei suoi carcerieri.
Certamente, anche se bisogna tener conto che i suoi testi sono
spesso polivalenti, non così espliciti, e sta anche a
chi ascolta trarne degli spunti, decidere se il protagonista
è appunto un sardo o un indiano. Comunque questo continuo
rimando e abbinamento tra la cultura degli indigeni americani
e la Sardegna è estremamente valido, lo dico proprio
da sardo. C'è stato un momento, alla fine degli anni
settanta, in cui in Sardegna ci sentivamo un po' di vivere come
se fossimo in un film western e noi eravamo gli indiani, proprio
come De André ha colto. Io vengo da un paese del centro
della Sardegna che è situato ai piedi del Supramonte,
quindi molto rappresentativo delle cose che ci stiamo dicendo.
Beh, io ricordo questi altipiani del mio paese dove un po' tutti
salivano a cavallo e ci sentivamo davvero un po' indigeni. Da
noi venivano spesso anche gli Inti Illimani3
che avevano degli amici nel nostro paese. E ricordo che quando
venivano c'era una fortissima solidarietà, perché
ci riconoscevamo con quel popolo oppresso in maniera molto forte.
Insomma mi pare che De André abbia identificato questa
cosa in maniera molto corretta.
Voi avete incluso Disamistade nel
vostro lavoro discografico, una canzone che tra l'altro è
stata ricantata in inglese dai Walkabouts4.
Cosa ci vedi in questo testo, che per un non sardo potrebbe
apparire anche un po' misterioso?
Tra i brani di De André Disamistade è forse
quello che amo di più e, per tornare al filo del nostro
discorso, è un brano che fornisce uno spaccato di uno
degli aspetti della società sarda. Si tratta di un brano
in cui si sarebbe potuti facilmente scivolare nel folclore,
ma De André non l'ha fatto, neanche nella lingua. Infatti
il titolo è in sardo ma il brano è in italiano,
ma in un italiano che ha un potere così evocativo da
permettergli appunto di affrontare questo tema con una traslazione
del linguaggio. Assolutamente un capolavoro.
De André ha cantato anche la figura del servo pastore
con particolare poeticità. In realtà si tratta
di gente particolarmente sfruttata. Secondo te questo Canto
del servo pastore rientra in quella che potremmo definire
la “poetica degli oppressi“ di De André,
cioè la sua determinazione a cantare sempre i più
emarginati di una società? Oppure questa figura rappresentata
quasi come un sioux al bivacco è un po' troppo romantica?
Forse tutti e due. Come dicevo, spesso c'è questa doppia
pista nei testi di De André e ti puoi ritrovare a vivere
e assimilare due sentimenti che possono essere anche fra loro
contraddittori, e forse anche in questo risiede la magia della
sua poesia. Secondo me, insomma, un po' l'uno e un po' l'altro.
Cioè da un lato il servo pastore di De André conserva
questa sua immagine un po' romantica, quasi bucolica, dove si
mette l'accento anche sui dettagli, sui particolari del luogo,
sulla contemplazione della natura che lo circonda. Dall'altro
è chiaro che torna il discorso che abbiamo fatto prima,
perché qui De André racconta una figura emarginata
che fa parte di un popolo emarginato e di cui nessun altro ha
mai parlato.
Ma queste riflessioni sulla Sardegna fatte da un autore
genovese sono state apprezzate dai sardi?
De André è molto amato in Sardegna e non solo
da quando lui è scomparso, anche da prima, da sempre.
Ci sarà certamente, sia fra gli addetti ai lavori sia
fra la gente comune, una parte che non si è mai trovata
in sintonia o che non si è riconosciuta in quello che
lui ha detto della Sardegna. Però, quello che io ho potuto
vedere, girando l'isola, è che lui ha coinvolto la gente
proprio sentimentalmente, intimamente, a fondo. Tanto che per
la maggior parte dei sardi è stato impossibile non amarlo.
Abbiamo detto che non c'è folclore posticcio nella
poetica di De André. Ma che ne pensi dell'uso delle lingue
sarde, della metrica, della musica?
È stato un uso molto rispettoso, proprio perché
non ha avuto l'intenzione di ricalcare, per esempio, la forma
ortodossa della poesia sarda, magari utilizzandola folcloristicamente.
Si è trattato di un atteggiamento libero e rispettoso
allo stesso tempo. Ha scritto della Sardegna ma non ha fatto
dei brani “sardi“ e questo è fondamentale
per capire il rispetto che emerge da quella poetica, nei confronti
della tradizione sarda.
E fra gli artisti sardi che si dice?
Qualcuno non è mai entrato in sintonia, perché
ci sono degli artisti che si identificano magari in un unico
genere musicale, in una corrente. Lui invece depistava, faceva
scelte controcorrente. Basti pensare all'arrangiamento rock
dell'Ave Maria sarda, un brano che appartiene alla tradizione
più antica dell'isola. Però direi che più
che un disaccordo si sia trattato di una non affinità
e più dal punto di vista musicale. Dal punto di vista
poetico pochi si azzarderebbero a dare giudizi negativi.
Sul piano politico De André, che si professava
anarchico, ha anche appoggiato un certo tipo di separatismo
sardo, sottolineandone la diversità rispetto a quello
“rozzo e scurrile“ della Lega nord. Questo tipo
di scelte rientrava anche nel suo vagheggiare un ritorno a forme
di governo più comunitarie, più vicine alla gente.
Tu cosa ne pensi?
Frequentare il movimento indipendentista sardo penso che sia
stato un modo per capire meglio quali erano le spinte che muovevano
i sardi in quel periodo a parlare di indipendenza. Però
non credo che si sia trattato di una militanza di tipo politico,
visto l'atteggiamento che ha sempre avuto nei confronti dei
movimenti politici. Basti pensare che lui ha sempre sostenuto
il movimento anarchico ma senza legarsi in modo militante e
politico. Questo appoggio al movimento indipendentista sardo
per De André ha avuto il significato di riconoscere nel
popolo sardo un popolo oppresso alla ricerca di un riscatto.
|
Gli
Andhira - da sinistra: Elena Nulchis, Cristina
Lanzi, Luca Nulchis ed Egiziana Carta |
L'umanità del bandito
Questa attenzione di De André verso i popoli
oppressi lo ha portato a parlare di rom, palestinesi, indiani
e anche di sardi. Ciascuno con la sua peculiarità ma
tutti accomunati dal fatto di essere costretti alla marginalità
per poter difendere la propria cultura e identità. Tu
ti senti in buona compagnia accanto a questi altri popoli?
Assolutamente sì. Ed è un sentimento che condividiamo
in molti qui in Sardegna. In qualche modo è come se lui
avesse creato una fratellanza fra popoli che magari sono anche
molto distanti e di cui noi stessi non sappiamo un granché,
dei quali però percepiamo una forte vicinanza, anche
se sono situazioni geograficamente distanti. Questa forse per
i sardi è stata la cosa più forte e per questo
dico che De André qui è molto amato, perché
si è creato questo sentimento di condivisione che in
tanti sentono.
La canzone Franziska, secondo quanto
raccontato da De André, è stata ispirata da racconti
dei carcerieri ai tempi del sequestro. A quanto pare i vari
banditi come Mesina erano visti dai due pastori come eroi romantici
alla stregua di Billy The Kid o, per quanto riguarda l'Australia,
Ned Kelly5.
Che ne pensi?
È sempre il particolare sguardo di De André sul
mondo. Con questo sguardo De André considera il bandito
e la sua condizione umana in modo distinto da come lo considerano
gli altri: la società ti dice che il bandito è
l'uomo malvagio, l'uomo da condannare. Lui invece spulciava
nella condizione del bandito per cercare di capire realmente
cosa fosse, coglierne l'umanità, senza giudicare e sentenziare.
Spesso da queste canzoni ma anche dalle interviste, esce fuori
questa sua capacità di comprensione: lui comprende che
la situazione degli oppressi contiene anche questi aspetti,
per cui si è costretti a darsi a una vita che la società
giudica immorale, perché in realtà non ci sono
alternative. Non è una scelta ma una condizione alla
quale non ci si può sottrarre.
Insomma, questo mosaico di testi, pensieri, canzoni e
interviste sulla Sardegna restituisce una immagine della tua
terra che condividi?
Non è un'opera omnia, ovviamente, non c'è tutta
la Sardegna, però in quello che lui ha restituito mi
posso riconoscere ampiamente. Naturalmente lui aveva il suo
sguardo particolare, un suo punto di osservazione. Quindi resta
un punto di vista personale. Ma vista l'acutezza e la sensibilità
del personaggio direi che ci si può fidare. Anche sentimentalmente
io, come sardo, mi ritrovo in tutte le tracce della sua ricerca
e di come ha restituito l'immagine della Sardegna. Probabilmente
avrebbe potuto raccontare anche molte altre cose.
Pensi che questa opera sia servita anche a far cadere
qualche pregiudizio sui sardi?
Questo non lo so, perché la gente è tosta da convincere!
A noi capita di viaggiare molto, facciamo più concerti
fuori che in Sardegna. E devo dire che continuo a trovare mentalità
stereotipate nei confronti dei sardi, anche se viviamo nell'epoca
della globalizzazione e c'è questo maggiore tentativo
di comprendere l'altro e circolano certi messaggi che parlano
di uguaglianza. Ma sono falsi, vengono più dalla testa
che dal sentimento e quindi certi stereotipi in realtà
sopravvivono.
Torniamo in chiusura a parlare degli Andhira. Tu ci hai
raccontato, all'inizio della nostra chiacchierata, che avete
lavorato su De André quando Dori Ghezzi vi ha coinvolti
in questo progetto con le detenute del carcere di San Vittore.
Com'è andata quell'esperienza, che tipo di reazione hanno
avuto quelle detenute?
A noi non era mai capitato di affrontare una situazione forte
di questo tipo e siamo arrivati a San Vittore con mille interrogativi.
Quando si parla di certi temi e magari lo si fa attraverso la
poesia di De André la commozione è facile e avevamo
paura che finissimo tutto in lacrime! Volevamo evitare questo
e invece ci siamo cascati in pieno. L'attenzione delle detenute
è stata fortissima e si è creata un'energia molto
intensa. Siamo arrivati all'ultimo brano, che era il Recitativo,
da Tutti morimmo a stento, che avevamo scelto perché
è estremamente rappresentativo di quelle tematiche. Quindi
immagina: il Recitativo fatto in un luogo di quel tipo, con
tutto il significato che si porta appresso, recitato da Lella
Costa, che è stata bravissima... insomma, l'abbiamo finita
a piangere come vitelli, proprio come non volevamo fare, perché
volevamo evitare di ostentare commozione. Invece niente, l'emozione
ci ha fregato a tutti! Questo per dire che è stato talmente
emozionante il contatto con le detenute che è andato
oltre il nostro controllo. La tensione era altissima. Dopo lo
spettacolo siamo riusciti anche a stare un po' con loro, nei
limiti che ci hanno concesso, quindi qualcuno di noi è
riuscito anche a fare due chiacchiere. Per noi era l'esordio
e anche simbolicamente lo ricordiamo come una potenza, una cosa
difficile da dimenticare.
Se avessi avuto la possibilità di parlare direttamente
con De André, magari proprio di queste canzoni che riguardano
la tua terra, cosa gli avresti detto?
Piuttosto che parlare dei brani mi sarebbe piaciuto entrare
nel discorso più generale della Sardegna, del popolo
sardo, degli aspetti psicologici. Avrei avuto timore di parlare
dei brani. E poi sarebbe stata bella una cena assieme. Insomma,
non vivere solo un'esperienza intellettuale. Ecco, mi sarebbe
piaciuto cenare assieme o fare una bella passeggiata nel bosco
e una bella chiacchierata, ma non necessariamente una cosa intellettuale.
Vuoi chiudere con un'ultima riflessione?
Ci sarebbero tante altre cose da dire... mi ha fatto piacere
parlare di popoli oppressi ma qui in Sardegna ci sono tanti
altri argomenti importanti che magari avrei voluto sfiorare,
dalle industrie alle servitù militari... ma mi rendo
conto che nello spazio di un'intervista non si può parlare
di tutto. Però forse potremmo concludere su una nostra
scelta di vita che ha un po' a che fare con i temi di questa
intervista. Noi abbiamo scelto di vivere fuori dalla città
e spesso ci troviamo a ragionare su questo aspetto: cosa ci
dà vivere in un luogo che ci fa riscoprire delle cose.
Da piccolo una volta sono inciampato su una pietra e sono caduto
a terra e così ho scoperto che stando a terra si potevano
vedere bene tutti i fiori piccoli gli insetti e le altre cose
che stando in piedi non si vedono mai. Questo per dire che ci
sono delle situazioni che ci passano sotto gli occhi per tutta
la vita e magari non le vediamo mai. Noi abbiamo scelto di vederle
e per questo abitiamo in campagna. Questo mi riporta alla scelta
di De André di vivere in campagna in Sardegna. Mi rimanda
a questo aspetto del suo rapporto molto intimo con il circostante.
Lui ricordava che il circostante non sono solo le persone. In
noi c'è sempre questo aspetto molto autoreferenziale,
pensiamo che il mondo sia fatto solo di esseri umani, invece
il mondo è fatto di mille altre cose, di terra, di insetti
di fiori... riappropriarsi di questo, riscoprire questo aspetto
rappresenta una crescita. C'è chi decide di perdersi
queste cose. Noi invece, come De André, abbiamo deciso
di non perdercele.
Renzo Sabatini
Note
- Gruppo musicale nato nel 2000. Informazioni sulla storia e
il lavoro artistico sono reperibili nel profilo Facebook della
band.
- Inaugurata nel 2002 grazie a un progetto di riqualificazione
di uno spazio urbano nel popolare quartiere della Magliana,
nella periferia sud occidentale della città.
- La band cilena si trovava in tournée in Europa quando,
nel settembre 1973, l'esercito cileno, con il sostegno della
Cia, scatenò un sanguinoso colpo di stato. Gli Inti Illimani
trascorsero i 15 anni del loro esilio in Italia.
- Formazione statunitense nata a Seattle nel 1984, la cui musica
è basata sull'innesto di elementi folk su una base rock.
- Ned Kelly (1854-1880), un Mesina australiano. Kelly
si diede alla macchia dopo aver ucciso tre poliziotti in uno
scontro a fuoco divenendo un “bushranger“ (nell'inglese
australiano, l'equivalente del nostro “brigante“).
Riuscì a sfuggire alla caccia con grande destrezza per
oltre due anni ma venne infine catturato, condannato e impiccato.
Nel folclore australiano Kelly è considerato un eroe
popolare e le sue gesta sono raccontate e celebrate in numerose
opere.
(Intervista realizzata via telefono nel maggio 2007. Registrata
presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in onda
nell'ambito della trasmissione radiofonica settimanale: “In
direzione ostinata e contraria“, dedicata ai personaggi
delle canzoni di Fabrizio De André).
In
direzione ostinata e contraria
Con
questa intervista, prosegue la pubblicazione su “A”
di una parte significativa delle 27 interviste radiofoniche
realizzate da Renzo Sabatini e andate
in onda in Australia nel programma “In direzione
ostinata e contraria” sulle frequenze di Rete Italia
fra il maggio 2007 e l’agosto 2008. In tutto si
è trattato di sessanta puntate (ciascuna della
durata di circa quaranta minuti, per un totale di quasi
40 ore di trasmissioni), nel corso delle quali sono state
trasmesse le 27 interviste e messe in onda tutte le canzoni
di Fabrizio De André. Si tratta dunque della più
lunga e dettagliata serie radiofonica mai dedicata al
cantautore genovese.
Se proponiamo questi testi,
è innanzitutto per dare ancora una vlta spazio
e voce a quelle tematiche e a quelle persone che di spazio
e voce ne hanno poco o niente nella “cultura”
ufficiale. E che invece anche grazie all’opera del
cantautore genovese sono state sottratte dal dimenticatoio
e poste alla base di una riflessione critica sul mondo
e sulla società, con quello sguardo profondo e
illuminante che Fabrizio ha voluto e saputo avere. Con
una profonda sensibilità libertaria e – scusate
la rima – sempre in direzione ostinata e contraria.
Precedenti interviste
pubblicate: a Piero
Milesi (“A” 370, aprile 2012), a Carla
Corso (“A” 371, maggio 2012), Porpora
Marcasciano (“A” 372, maggio 2012), Franco
Grillini (“A” 373, estate 2012), Massimo
(“A” 374, ottobre 2012), Santino
“Alexian” Spinelli (“A” 375,
novembre 2012)); Paolo
Solari (“A” 376, dicembre-gennaio 2012-2013);
Gianni Mungiello,
Armando Xifai, Alfredo Franchini (“A”
377, febbraio 2013); Giulio
Marcon e Gianni Novelli (“A” 378, marzo
2013); Sandro
Fresi e Paola Giua (“A” 379, aprile 2013).
la redazione di “A” |
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