NO TAV 1
La storia, le storie. Itinerari No Tav
di Maria Matteo
Il costituirsi di comitati popolari di lotta, di assemblee di città e quartiere, di coordinamenti di base, di reti di resistenza e mutuo appoggio ha restituito a tanti il gusto della partecipazione diretta, la consapevolezza di poter e voler contare, mettendo a nudo i meccanismi della democrazia reale.
È l'ultimo giovedì
di marzo. Siamo al bivio tra la strada che scende al cancello
dell'area occupata presso la Centrale Iren e quella che sale
alla Ramats. Si arriva stropicciandosi gli occhi per la levataccia.
Per chi viene da Torino la sveglia ha suonato alle 4. La primavera
si mostra nei germogli bianchi che sfidano il freddo di una
mattinata dal sapore invernale.
Aspettiamo. Arrivano i primi mezzi. Quasi tutti, nel vederci,
fanno subito dietro front, qualcuno si ferma ma capisce subito
che oggi gli tocca il giro lungo, su per la statale 24, poi
l'autostrada e lo svincolo che immette direttamente nel cantiere.
Mezz'ora in più e il pagamento del pedaggio.
Comincia a nevicare. Fiocchi fitti, neve bagnata. C'è
chi saltella, chi racconta di altre mattine, di altre lotte,
chi cerca rifugio in auto.
Intorno alle 9 e un quarto arrivano i carabinieri in assetto
antisommossa con quattro uomini in borghese – digos o,
forse, ros. Sono di fuori, gente mai vista. Uno si lamenta che
gli tocca fare pasqua a 500 chilometri da casa, che quello è
il suo lavoro, che ha cinquant'anni e dei figli. Intanto prende
i documenti e minaccia denunce per violenza privata. I poliziotti
dal volto umano sono peggio della neve che infradicia le giacche
e gela le ossa. L'ineffabile capitano dei carabinieri Mazzanti,
calzando improbabili scarpe nere lucide come specchi, ridistribuisce
i documenti. Poi si va.
Un momento di ordinaria resistenza all'occupazione militare.
I giochi della politica, i riflettori dei media sono lontani,
lontanissimi.
La mia è l'analisi di chi sta dentro, un'analisi interessata,
in tutta l'ambiguità semantica del termine.
Lo sguardo che abbraccia il presente con l'ambizione di coglierne
un senso che oltrepassi l'istante è necessariamente uno
sguardo orientato, uno sguardo che assume l'esserne parte come
condizione costitutiva. L'occhio non deforma ma da forma. Quel
che conta è riconoscerlo e mostrarlo nella sua irriducibile
soggettività, una soggettività che si nutre del
confronto con altri e si indaga a sua volta. Nell'osservare
un movimento politico e sociale di cui si è parte, l'interrogare
il proprio sguardo è un passaggio obbligato. D'altro
canto assumere un punto di vista, scorgendo le possibilità
che questo offre nella concretezza delle relazioni sociali e
politiche, favorisce sia l'analisi che l'azione. Distinguo i
due piani per mera comodità analitica.
In altre parole l'avere uno sguardo curioso nel trovare quel
che si desidera non deforma l'analisi, ma ne costituisce uno
dei possibili orizzonti di senso.
Il territorio come baluardo
La lotta contro il supertreno in Valsusa ha attraversato lunghi
anni, tempi diversi, orizzonti di significato in continua mutazione.
Sulla spinta del movimento No Tav le lotte contro le nocività
e le grandi opere hanno avuto un impulso notevole in tutta la
penisola, mettendo spesso in difficoltà i governi, che
hanno dovuto fare i conti con la rivolta e la resistenza delle
popolazioni locali.
L'emergenza ambientale, ormai non più mascherabile con
gli artifici retorici o la propaganda, è stato il detonatore
dei tanti focolai di lotta che si sono accesi intorno a inceneritori
e discariche, impianti a turbogas, tav, rigassificatori, centrali
a carbone.
Queste lotte, al di là delle ragioni immediate, hanno
aperto una falla nel fianco delle politiche di predazione e
saccheggio delle risorse attuate per decenni nel nostro paese,
spesso senza reale resistenza da parte di popolazioni irretite
dalla promessa di posti di lavoro, prosperità, progresso.
Le lotte territoriali hanno sancito l'indisponibilità
degli abitanti di intere aree del paese a veder irrimediabilmente
compromesso il proprio habitat, indisponibilità che i
governi non riescono più a monetizzare, perché
salute, qualità della vita, ambiente non sono ritenuti
mercanteggiabili. Ma non solo. Il costituirsi di comitati popolari
di lotta, di assemblee di città e quartiere, di coordinamenti
di base, di reti di resistenza e mutuo appoggio ha restituito
a tanti il gusto della partecipazione diretta, la consapevolezza
di poter e voler contare, mettendo a nudo i meccanismi della
democrazia reale.
Il territorio e la sua difesa divengono baluardo contro l'irrompere
devastante della merce. Una merce sempre più incorporea,
omogeneizzata, virtuale nonostante il peso e la concreta destinazione
d'uso. La materialità dell'aria, dell'acqua, del suolo,
degli alberi, della “natura” rimaterializzano lo
spazio sociale. Le relazioni si ri-costruiscono intorno ai luoghi
di vita da difendere, ricostruire, reinventare.
In altri ambiti – tradizionalmente attraversati da movimenti
sovversivi dell'ordine sociale – è prevalsa la
rassegnazione, il tiriamo a campare, la solitudine favorita
dalla frantumazione sociale. Nelle lotte ambientali, ecologiche,
territoriali si è ricostruita una comunità di
lotta. Ne è derivata una critica agli apparati istituzionali,
che ha prodotto sia a forme di reale autonomia politica e sociale,
sia sperimentazioni di stampo meramente cittadinista.
Di fatto le comunità in lotta sono state il miglior argine
ai movimenti antimoderni di stampo fascista, dove la retorica
del suolo, delle piccole patrie, della comunità escludente
prova ad erigere steccati per fuggire la piena destrutturante
dell'oltre-moderno.
La narrazione costitutiva del movimento No Tav della Val Susa
si emancipa sin dalle origini e, via via, in modo sempre più
netto, dalla mera difesa di interessi particolari per tentare
di assumere il punto di vista dell'interesse di tutti. Un afflato
universalistico che la ancora alla modernità, senza tuttavia
il peso di una filosofia della storia che ne determini a priori
le analisi, i percorsi, le prospettive organizzative.
Questa miscela si è rivelata solida nell'orientare la
costruzione di percorsi collettivi che riuscissero a mescolare
senza annullarle le tante anime che costituiscono il movimento.
Ne sono nate intersezioni nuove e alleanze sulla carta improbabili.
Il processo di liquefazione della infinita diaspora postcomunista
avrebbe potuto trascinare con sé anche un movimento,
che ha alcune robuste radici in questa tradizione. I No Tav
ne sono usciti indenni, perché la pratica del'azione
diretta, della partecipazione dal basso, la costruzione di zone
autonome di elaborazione e lotta, ne hanno impedito la cristallizzazione
in un modello unico, così come l'imporsi di una qualche
egemonia.
Parimenti una solida tradizione non violenta, sia cattolica
che laica, ha retto all'impatto con la violenza delle forze
dell'ordine, mantenendo una radicalità d'azione preziosa
perché rara. Anni luce dalla triste epopea genovese del
2001, quando la non violenza divenne il paravento che consentì
di liquidare le aree più radicali, isolandole e delegittimandole.
Nel movimento No Tav le pratiche adottate sono diverse ma comune
è la scelta di non ridursi a indignati che gridano nel
deserto, lontani dal conflitto. Innocui. “Siamo tutti
black bloc” non è uno slogan, ma un grimaldello
che smonta il giocattolo che ha imbrigliato, diviso e annullato
la forza del movimenti nati a cavallo tra i due secoli.
Gli anarchici impegnati da lunghi anni nel movimento, tra un
presidio e una barricata, tra un pranzo condiviso e una notte
di lotta alle reti, tra un'assemblea popolare e una giornata
di lavoro sui sentieri, hanno incontrato, appoggiato e sperimentato
pratiche di azione diretta, condivisione delle decisioni, solidarietà
che segnano ogni esperienza autenticamente libertaria. Nei momenti
più alti tanti di noi hanno potuto assaporare il gusto
di un'insurrezione popolare consapevole della propria urgenza
etica e politica. Un laboratorio che ha rotto l'immaginario.
Compreso il nostro. Intersecare e agire un'insurrezione popolare
apre spazi di sperimentazione e trasformazione che era pressoché
impossibile immaginare sino a poco prima. Quando si spezza l'ordine
materiale dell'oppressione, quando la paura cambia di campo,
inducendo l'avversario alla resa, muta anche l'ordine simbolico.
Una breve aurora che presto trascolora nell'alba, ma nondimeno
ci ha consegnato un retaggio attingibile a lungo, la consapevolezza
che l'orizzonte del possibile non è chiuso, che la straordinaria
plasticità del capitalismo in un'epoca schiacciata dalla
intollerabile pesantezza dell'effimero, non riesce sempre a
contenere l'erompere di vite che si emancipano nella lotta dalla
vischiosità del presente.
Le seduzioni della delega
Vent'anni di movimento. I bambini che partecipavano alle prime
manifestazioni sul passeggino oggi sono diventati ingegneri
di barricate, geometri di presidi, cuochi da campo, tessitori
di una tela che si allunga, mentre la trama sottesa si irrobustisce.
Gli ultimi due anni sono stati durissimi. La scelta di trattare
la questione in termini di ordine pubblico, fatta dopo il fallimento
delle mediazioni istituzionali, è un segnale di incapacità
dei governi di riportare all'ovile una popolazione irrimediabilmente
ribelle, perché le armi della seduzione e quelle della
corruzione non hanno intaccato la tela robusta del movimento.
La parola è passata alla forza, impiegata in modo sempre
più violento e spregiudicato, pur mantenendo una certa
oculata discrezionalità nello scegliere a chi distribuire
fogli di via, denunce, arresti.
Le campagne mediatiche e la repressione lavorano ai fianchi
i No Tav nella speranza che prevalga la tentazione a lasciar
perdere, a cedere di fronte alla forza, a dare per scontata
la sconfitta. I No Tav non sono disponibili a diventare i testimoni
dello scempio e non si arrendono.
Oggi il movimento è ad un bivio. Non è la prima
volta, probabilmente non sarà l'ultima.
La vittoria elettorale del Movimento cinque stelle ha mandato
in parlamento un gran numero di oppositori alla Torino Lyon.
Le seduzioni della delega istituzionale allungano la propria
tela di ragno sugli oppositori alla Torino Lyon.
La presenza di No Tav in parlamento è vista con favore
in alcuni settori di movimento, che vi intravedono la possibilità
di aprire crepe nel fronte avversario, pur nella consapevolezza
che l'azione diretta popolare è la scelta di tutti i
No Tav. Altri, specie nei settori antagonisti a caccia di nuove
tutele, si smarcano dal grillismo ma aprono un'esplicita interlocuzione
con i neoparlamentari del movimento del padre/padrone/padrino
genovese.
Sono comunque convinta che i No Tav non si faranno facilmente
irretire da nessuno. Ampie fasce del movimento, nel recente
passato, hanno saputo tagliare nettamente con formazioni e partiti
che pure erano alle proprie radici. I percorsi di autonomia,
quando crescono lentamente tra le generazioni, piantano nuove
e più profonde radici. Difficilmente estirpabili.
La pretesa di Grillo di essere l'unico argine al divampare di
una vera rivolta sociale nel nostro paese si potrebbe liquidare
come semplice smargiassata, se la sua operazione di marketing
politico via web non contenesse alcune pericolose insidie.
Grillo assume – e deforma – i linguaggi, i temi,
le aspirazioni dei movimenti. La spinta partecipativa, la sfiducia
nei confronti del sistema politico, la consapevolezza che il
sistema è irriformabile, la tensione verso una maggiore
equità nella distribuzione delle risorse, l'attenzione
per i temi ambientali sono all'origine del suo successo. Il
Movimento 5 stelle ha saputo intercettare un malessere diffuso
e dargli una forma politica, sebbene sia la brutta copia, la
ghignante caricatura di un percorso di libertà. La mimesi
dell'accesso alla facoltà decisionale tramite web, funziona.
Ma occorre capovolgere la prospettiva. Grillo e la sua armata
brancaleone non sono un argine al divampare di una rivolta sociale
simile a quelle scoppiate in Grecia, Slovenia, Spagna, ma il
mero surrogato di una rivolta che non c'è.
In Val Susa la rivolta e la resistenza vanno avanti, giorno
dopo giorno. Grillo annuncia l'era della trasparenza assoluta
ma sta inaugurando un panopticon. Seduzioni ed insidie di una
casa di vetro. I No Tav le case le costruiscono di legno e di
pietra, le abitano e ne fanno presidi di resistenza, luoghi
dove si incrociano i sentieri di chi cammina e ragiona sul proprio
andare. In questa primavera che fugge e non si fa afferrare,
mentre nevica sulle scarpe lustre del capitano dei carabinieri,
ogni giorno qualcuno rinuncia al tepore del proprio letto e
si mette di mezzo.
Maria Matteo
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