Un cinema critico? Sempre più impensabile
di Bruno Bigoni
Chiunque può constatare
oggi un disinteresse di fondo per tutto ciò che si allontana
dagli standard di emozione e dalle figure che li incarnano.
Il pubblico si vuol riconoscere, il nuovo, il diverso gli è
indifferente. Non è solo una questione di spettacolarità,
di tecnologia, di soldi. È ormai accertato che esistono
standard di produzione destinati a riprodurre standard di emozione
a cui il cinema non può più rinunciare.
Il cinema ha compiuto una virata storica. Il prodotto industriale
ha vinto così la sua battaglia sui modelli di massa,
per un cinema che svuota il pensiero e ti conduce per mano nei
dispositivi appositamente costruiti per un divertimento o meglio
sarebbe dire per uno stordimento.
Trama vuota e meccanica, ritmo accelerato, performance bio-tecnologica
(di attori o di effetti speciali) costituiscono gli ingredienti
dei principali successi degli ultimi anni. Vi si riconoscono
quelli di un immaginario adolescente, uomini incapaci e donne
malandrine, linguaggi televisivi e volgarità di fondo,
il tutto nutrito di pubblicità, di fumetti, di fast-food
e di rock industriale. Il referente è sempre più
il pubblico giovane (anche se le statistiche dicono il contrario)
e l'unica finalità è produrre un cinema da grandi
numeri, osteggiando (nella distribuzione e nell'esercizio) i
prodotti artigianali, indipendenti e fuori linea.
Il mondo è diventato troppo complicato, i conflitti troppo
incerti, gli indirizzi creativi troppo astratti, la violenza
troppo statistica, perché il cinema non ne abbia subito,
industrialmente e dal punto di vista del suo stock tematico,
una modificazione sensibile. Ne risulta una semplificazione
massima.
Intorno a questo scenario, la televisione opera (ormai è
un dato accertato) per far sì che oggi un cinema critico,
un cinema di critica sociale sembri sempre più impensabile.
Crede di essersi sostituita brillantemente in quella necessaria
analisi della società, che ogni mezzo di comunicazione
di massa dovrebbe avere nel suo dna. Illusione e mala fede.
Così il cinema d'autore, cioè quel cinema che
non si modella nelle forme degli standard: per esempio un bravo
attore non ancora famoso, un soggetto spiazzante, una situazione
emozionante forte, una linea d'azione semplice, una positività
immanente dell'eroe, trova condizioni di sopravvivenza sempre
più limitate. Diventa azzardato investire su questo cinema
(costi troppo alti e di difficile reperimento), precarietà
di distribuzione (quale esercente rischierà?) invisibilità
e morte.
Questo cadavere vivente, questo zombi, questo cinema fatto di
coraggio e innovazione nasce nell'indifferenza e nel rifiuto
del pubblico. Paga la mancanza di curiosità e il desiderio
di scoprire. Fotografa la condizione di una società impossibilitata
a comprendere il suo circostante, la impossibilità di
opporre una estetica coerente al cinema standardizzato.
Bruno Bigoni
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