interviste
Noi registe
interviste di Sandra D'Alessandro a Marina Spada e di Isabel Pérez Ortega a Chus Gutierrez
Una regista italiana e una spagnola,
due storie diverse, una comune sensibilità.
Il mio sguardo, altrove
intervista di Sandra D'Alessandro a Marina Spada
Avere attenzione e vibrare per il dolore dell'altro, agire
per la giustizia sociale.
Ho incontrato Marina Spada un
paio di mesi fa, alla Libreria delle donne, dove presentava
il suo ultimo film, Il mio domani, del 2011, e ho colto
al volo l'occasione per chiederle un'intervista per A; ha accettato
subito con spontaneità e gentilezza. Marina non ama gli
applausi, i complimenti, i riflettori; però è
estremamente disponibile e i suoi lavori rivelano intelligenza,
empatia e profondità dello sguardo.
Ci incontriamo alla Fabbrica del vapore, una delle tre sedi
in cui si sta svolgendo la rassegna di cinema delle donne Sguardi
altrove. Diluvia, ed è un peccato, perché
la pioggia battente e il freddo umido penalizzano la rassegna:
chi può, se ne sta a casa.
Se sei d'accordo, Marina, comincerei dalla tua formazione.
«Sono laureata in Lettere con indirizzo musicale, per
la precisione in Storia della musica, perché qui a Milano
era l'unica possibilità di studiare quello che mi interessava,
o almeno credevo. Infatti al primo esame, quando il docente
mi ha chiesto perché avessi scelto quel corso di studi,
ho risposto che volevo fare la tesi sui Rolling Stones; al che
lui mi dice: “Guardi che ha sbagliato, avrebbe dovuto
iscriversi ad Antropologia culturale”! Ho deciso di continuare,
perché comunque conoscevo molto bene l'opera, di cui
mio padre era appassionato, e così mi sono ritrovata
a studiare da Monteverdi, da cui è cominciato tutto,
a Gianfrancesco Malipiero, ed è stato bello e interessante».
Hai studiato anche qualche strumento musicale?
«No. Per qualche anno ho seguito le tournées di
alcuni musicisti, ma non facevo niente di importante, aiutavo
qua e là, dove c'era bisogno. Ho anche lavorato a canale
96, la prima radio libera di sinistra in Italia».
|
Marina Spada |
Come è avvenuto il passaggio al cinema? Hai studiato
alla Scuola di cinematografia, qui a Milano?
«No. Nel 1979 ho vinto un concorso in Rai e sono entrata
come aiuto regista sia per programmi televisivi che film per
la televisione, che allora si facevano internamente, ed è
lì che ho imparato a fare cinema».
Caspita, hai fatto tutto prestissimo!
«Nel 1983 ho lavorato anche con Benigni e Troisi alla
lavorazione del film Non ci resta che piangere, ma è
un' esperienza che non mi ha soddisfatto, non mi è piaciuto
il modo in cui si lavorava a Roma: maschilista e direi anche
vessatorio. Però a Milano c'erano poche possibilità
di fare cinema, ecco perché sono entrata in Rai».
Se non sbaglio hai cominciato coi cortometraggi.
«Sì, ma poi sono passata ai videoritratti. Il primo,
C'era una volta l'America, del 1992, è dedicato
a Fernanda Pivano: più che un documentario è una
documentazione. Ho avuto solo tre ore di tempo, perché
era già molto ammalata. Fernanda è stata un personaggio
importantissimo, è lei che ha portato in Italia la poesia
e la letteratura della Beat Generation, che è stata un
faro per la nostra generazione, e anche per me naturalmente».
Quindi è questa la tua formazione letteraria?
«Sì, e la poesia, per la quale ho una vera passione.
Comunque il mio primo video, di solo 10 minuti, Anna dai
capelli rock, è del 1981, e ha come oggetto le donne
nelle bande giovanili a Milano. Purtroppo è andato perduto,
non l'ho più neanche io, e mi dispiace moltissimo».
Sì, è un vero peccato, sarebbe stata un'importante
documentazione storica, oltre che artistica. Gli altri videoritratti
chi riguardano?
«Lo scultore Arnaldo Pomodoro, lo scrittore Francesco
Leonetti1, quello del Gruppo
63 e poi di Alfabeta, amico della Morante, i fotografi Mimmo
Iodice, Mario De Biase e Gabriele Basilico2.
Con loro si parlava molto, cosa che oggi non si fa più,
e mi hanno dato tantissimo, mi hanno formato culturalmente e
come persona, soprattutto Gabriele Basilico. Gli facevo la posta
dal 1982, dopo la mostra “Ritratti di fabbriche”
alla Triennale. È stato in seguito invitato dal Datar
(organo del governo francese per attuare la pianificazione statale),
a documentare, insieme ad altri fotografi, le trasformazioni
del paesaggio transalpino: le opere furono esposte a Tokyo nel
1985 in una grande mostra collettiva. Ho sempre seguito il suo
lavoro. Era di grande disponibilità e gentilezza d'animo;
non l'ho mai sentito parlar male di nessuno, cosa rara negli
ambienti artistici. La relazione con lui è stata fondante.
Il mio sguardo deve molto al suo; andavamo in giro per Milano
la domenica mattina all'alba, perché la città
ci piaceva così, senza persone e senza macchine. Gli
devo la progettualità dello sguardo su Milano, soprattutto
nel mio secondo film, Come l'ombra. Gabriele diceva:
“Milano è la palestra del mio sguardo”».
Come è nata l'idea dei videoritratti dei fotografi?
Come sono stati finanziati?
«Ho fatto undici videoritratti di grandi fotografi, e
ho avuto modo di conoscerli bene; sono relazioni che restano.
Li frequenti per un lungo periodo, parli, poi fai il video.
Il culmine di questo percorso è Poesia che mi guardi
sulla poetessa Antonia Pozzi, unica non vivente, prodotto da
Renata Tardani. Trovare finanziamenti è stato un vero
problema, ma lo rifarei: non sono una cui piace lamentarsi.
Però un paese che non conserva la propria memoria e non
ha rispetto dei propri artisti è allucinante. Un esempio
è la fondazione Pomodoro, che ha dovuto cambiare diverse
sedi; adesso è vicina al suo studio, ma è piccola.
Fernanda Pivano aveva fotografie, carteggi, documentazione sulle
proprie traduzioni e i titoli concordati con gli autori americani:
tutta roba che stava prendendo il volo per l'America. Nessuno
si occupava dell'archivio. Ora è proprietà di
Benetton3».
Il tuo primo lungometraggio, Forza cani!, del 2002, è
stato rivoluzionario sul piano della realizzazione.
«È stato rivoluzionario su tutto. Per l'uso delle
tecnologie digitali, ma anche perché è stato un
vero modello di produzione indipendente: cercavamo finanziamenti
anche su internet».
Le protagoniste dei tuoi film sono tutte donne: come mai?
«Perché le donne sono diverse. È chiaro
che anche gli uomini sono diversi. Ma per le donne è
tutto più difficile. Parlo della loro solitudine».
|
Claudia Gerini in una scena di Il mio domani |
A me è piaciuto moltissimo Come l'ombra, (lungometraggio
del 2006, NdA) l'ho visto diverse volte. Mi emoziona.
«A te emoziona. Gli uomini si annoiano, dicono che in
quel film non succede niente».
A parte il fatto che non è vero che non succede
niente: c'è una tragica storia di una donna sola, immigrata,
che irrompe casualmente nella vita di un'altra donna, italiana,
inserita ma altrettanto sola, della loro amicizia, e della solidarietà
che porterà la protagonista a fare un viaggio nel paese
d'origine della amica assassinata; non mi sembra poco. Forse
gli uomini hanno bisogno dell'azione compulsiva e alienata del
cinema americano? Comunque anche nei film di Wim Wenders non
succede niente, eppure...
«Appunto».
Non ti è mai venuto il dubbio che parlino così
per invidia?
«No. E poi, invidia di che? Non mi sono arricchita, non
sono diventata famosa, e insegno ancora alla Scuola di cinematografia.
Per carità, non rinuncerei mai a questo lavoro. Per me
il rapporto coi ragazzi è fondamentale. E comunque il
lavoro non è la vita. La vita è altro. Sono i
rapporti con gli altri che contano».
Come l'ombra è un verso di una poetessa
russa.
«Sì, di Anna Achmatova. Sono stata a San Pietroburgo
a visitare la sua casa. I versi che compaiono alla fine del
film sono tratti dalla poesia A molti del 1922: “come
vuole l'ombra staccarsi dal corpo/come vuole la carne separarsi
dall'anima/così io adesso voglio essere dimenticata”».
Tutti i titoli dei miei film sono tratti da poesie: Forza
cani! è il titolo di una poesia di Nanni Balestrini;
Il mio domani è un verso di Antonia Pozzi4:
“Se chiudo gli occhi a pensare/quale sarà il mio
domani/vedo una lunga strada/che sale/dal cuore di una città
sconosciuta”.
Vuoi parlare un po' di Poesia che mi guardi?
«È il mio ultimo videoritratto, del 2009, ed è
stato un atto di coraggio decidere di produrlo, perché
cosa poteva importare e a chi di una poetessa sconosciuta, morta
suicida a 26 anni nel 1938? Mi interessava il suo isolamento
come artista e come donna. A 17 anni era fotografa, scalava
montagne, scriveva poesie. Nel video ho inserito i filmati di
famiglia, il che ha permesso di avere come protagonista l'Antonia
Pozzi vera, non una tizia qualsiasi che si aggira per il set
vestita da Antonia Pozzi. Il titolo è tratto da Preghiera
alla poesia».
La grande protagonista di tutti i tuoi film è la
città di Milano.
«Sono nata a Milano e non potrei vivere in nessun altro
posto. A volte mi capita di dire che non mi sono spostata perché
ero, e sono, innamorata di Milano e qui c'è la mia identità».
Le riprese sono davvero stupende. A volte la riconosci
subito, altre volte sembra una qualsiasi metropoli del pianeta,
come ne Il mio domani. Le immagini sono
talmente belle che non c'è bisogno di commento musicale,
anzi, a volte a me ha dato un po' fastidio, anche se la colonna
sonora era di Paolo Fresu.
«Anch'io mi chiedo sempre: ma ho bisogno della musica
per esprimere ciò che desidero? Le immagini da sole non
bastano? La risposta è: sì che bastano, e infatti
di musica nei miei film ce n'è pochissima; la colonna
sonora è forse una concessione che si fa allo spettatore,
quando non strettamente necessaria».
A proposito, lavori come i tuoi devono avere difficoltà
sia nella produzione che nella distribuzione.
«Infatti. Da qualche anno però ho un produttore
che è un vero professionista, un imprenditore serio,
che dal suo lavoro si aspetta profitti perché deve distribuire
stipendi; quindi le cose vanno molto meglio, rispetto al passato».
Chi sono i tuoi registi preferiti?
«Il giapponese Yasuj Ozu, Wim Wenders (che a Ozu ha dedicato
nel 1985 il documentario Tokyo-Ga e che ebbe a dire:
“La cosa più simile al paradiso che abbia mai incontrato
è il cinema di Ozu”. NdA), Michelangelo Antonioni,
soprattutto Il grido ma anche altri».
E Fellini ti piace? Io da giovane non lo potevo soffrire,
ma ho rivisto tutti i suoi film lo scorso anno, e devo ammettere
il suo genio. Credo di poter collocare il suo Casanova
tra i top ten.
«A me è successa un po' la stessa cosa. Non mi
piace l'immagine che fornisce della donna, troppo maschilista.
Ma La strada e ancor più Le notti di Cabiria
li trovo straordinari».
Progetti per il futuro?
«Sto lavorando a due videoritratti».
Visto che questa intervista sarà pubblicata su
una rivista anarchica, vuoi dirci qualcosa sul tuo pensiero
politico?
«Penso che politica sia avere attenzione per l'altro.
E avere attenzione per l'altro e vibrare per il dolore dell'altro,
così come agire per la giustizia sociale è di
sinistra».
Grazie Marina. Vedremo con piacere i tuoi prossimi videoritratti.
Sandra D'Alessandro
Note
- Nato nel 1924 a Cosenza, amico di Pasolini, con cui ha lavorato
a due film e fondato la rivista Officina; ha fondato
anche la rivista Che fare? e ha insegnato filosofia
ed estetica dell'arte all'Accademia di Brera.
- Nato a Milano nel 1944 e ivi morto lo scorso febbraio, è
famoso per aver fotografato le periferie e le architetture industriali
dimenticate, che il suo obiettivo fa assurgere a veri e propri
reperti archeologici. Ha fotografato le più grandi città
del mondo, nonché la città di Beirut distrutta
dalla guerra.
- È attualmente in corso una contesa tra la fondazione
Benetton e l'ex editore Michele Concina, erede legale della
Pivano, per il possesso del materiale conservato nella biblioteca.
In seguito a ciò, dal 1° gennaio 2013, i servizi
al pubblico della Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano sono
sospesi fino a data da destinarsi. (NdR)
- Milano, 1912-1938. Figlia di un avvocato e di una contessa,
nipote di Tommaso Grossi. Frequentato il liceo classico, si
laurea in filologia, con una tesi su Flaubert sostenuta con
Antonio Banfi, docente di estetica. La famiglia negò
il suicidio, considerato scandaloso, affermando che Antonia
morì di polmonite.
|
Chus
Gutiérrez durante la lavorazione di un film |
Il cinema è potere e noi donne...
intervista di Isabel Pérez Ortega a Chus Gutiérrez
La società cambia attraverso l'immaginario e se l'immaginario
lo costruiscono solo gli uomini, se la storia la costruiscono
solo gli uomini, è molto difficile cambiare comportamenti,
cliché, modelli di condotta....
Chus Gutiérrez, classe
1962, è una regista, produttrice, attrice, sceneggiatrice
e musicista spagnola, da sempre impegnata nell'indagine della
realtà e della società che la circondano: numerosi
premi e riconoscimenti hanno confermato nel tempo l'apprezzamento
del suo lavoro da parte di critica e pubblico. Negli anni '80
studia cinema a New York, dove comincia a girare i primi cortometraggi,
e sempre in questo periodo fonda il gruppo di flamenco-rap delle
Xoxenees. Tornata in Spagna, si dedica a pieno al mondo del
cinema e della televisione: dirige, recita, scrive e produce,
non lesinando incursioni nella videoarte e nel teatro, collaborando
anche a diversi progetti collettivi. Nel 2007 contribuisce alla
creazione dell'Associazione di donne del cinema e dei mezzi
audiovisuali (Cima).
Sceneggiatrice, attrice, produttrice, regista... Con quale
lavoro ti diverti di più?
«Con tutti, ora sto tenendo un corso che mi sta anche
divertendo molto. Alla fine è tutto connesso. Il lavoro
di creazione ha molto in comune con la necessità di comunicare,
di inventarsi storie. Credo che tutto il lavoro creativo abbia
molto in comune. Dato che abbiamo solo una vita, non c'è
tempo per fare tutto quello che vorresti. Quello che mi piace
di meno è la produttrice, lo faccio per necessità,
è l'unico modo per portare avanti alcuni prodotti».
Esiste il cinema delle donne?
«È più facile dire che il cinema delle donne
non esiste, no? L'altro giorno sul País è uscita
una notizia: al Festival del cinema di Berlino è stato
convocato un incontro fra cineaste, francesi e tedesche, per
discutere del perché il cinema diretto dalle donne è
il 5 virgola qualcosa per cento, quando noi donne siamo la metà
della popolazione».
Da qui la necessità di produrre determinate cose,
suppongo...
«Mah, credo di sì, ha a che vedere con questo,
sì...»
Quali sono i tuoi registi/le tue registe di riferimento,
le tue influenze?
«Be', ci sono persone di cui mi piace il percorso in generale,
ma credo anche che ci siano più pellicole che mi hanno
segnata, che mi sono piaciute nel tempo e che in alcuni momenti
possono ispirarmi. Ma me ne piacciono alcune di Woody Allen,
non tutte, mi piacciono alcuni film di Wintterbottom, mi piace
Jane Campion, soprattutto i primi film, mi piace Lezioni
di piano, mi piace Taxi driver, mi piace Blade
runner, mi piacciono un'infinità di film. Casablanca...
Non so, è che a volte e all'improvviso dici: Ah, che
film meraviglioso!
Mi è piaciuto molto Amour, di Haneke. Ma può
essere una fonte di ispirazione anche andare a un concerto o
a vedere una mostra d'arte o un'opera teatrale... l'arte è
tutta interconnessa.»
Avere un gruppo musicale con delle amiche, scrivere sceneggiature
con amici e amiche, recitare in film di amici/amiche1
o fondare una casa di produzione con anche amici/amiche. Casualità
o scelta di vita e professionale?
«Normalmente lavori con le persone che conosci e con cui
hai punti in comune, no? C'è sempre un rischio a lavorare
con amici/amiche, a volte puoi assumerti il peso dell'amicizia.
Comunque, se si dosa bene, io preferisco, sono più a
mio agio a lavorare con persone che conosco».
Perché c'è bisogno di un'Associazione di
donne cineaste (Cima)?
«Per ciò di cui abbiamo parlato all'inizio. Quando
sono entrata nel cinema nei primi anni '90 vivevamo un periodo
energetico, la fine della dittatura, l'inizio della democrazia,
era in atto un cambiamento sociale e politico. In un certo modo,
noi donne in quel momento – e i numeri lo dimostrano –
abbiamo sentito che potevamo fare quello che avremmo voluto,
non avevamo paura, potevamo sognare di fare le registe e quel
sogno si poteva realizzare. E davvero in quel momento spuntarono
come una valanga un sacco di registe. In quel decennio abbiamo
diretto il nostro primo film in 30 o 40 donne, che per quello
che avevamo alle spalle era incredibile. Ma in poco tempo, finiscono
gli anni '90 e torniamo un'altra volta al deserto del Sahara.
Con un gruppo di registe cominciamo a incontrarci, parliamo
e ci accorgiamo che non abbiamo alcun rilievo, non ci sono giovani
donne registe dietro di noi, quella fantasia per cui le donne
sarebbero state partecipi della direzione cinematografica, della
sceneggiatura... La società si cambia attraverso l'immaginario,
e se l'immaginario lo costruiscono solo gli uomini, se la storia
la costruiscono solo gli uomini, è molto difficile cambiare
comportamenti, cliché, modelli di condotta...
Ci siamo guardate attorno, e abbiamo visto che molte di quelle
che avevano diretto qualcosa negli anni '90 avevano realizzato
un solo film, e non avevano mantenuto una continuità
nelle proprie carriere. Abbiamo deciso di unirci e provare a
far sì che dal lato istituzionale si sostenesse il cambiamento:
il tema delle quote rosa, le cose non cambiano se non per imposizione,
no? Ci siamo unite in un'associazione e abbiamo cominciato a
lavorare sul piano politico. Abbiamo provato a far sì
che per i nuovi registi ci fosse una clausola per cui se eri
una direttrice donna ti avrebbero dato dei punti, o cose così...
si è cercato di fare un lavoro istituzionale perché
venisse dato un chiaro appoggio alle donne registe.
Veniva anche considerato il numero di donne che partecipavano
al progetto, non solo come registe ma anche come sceneggiatrici,
come produttrici. Siamo state in tutte le televisioni: abbiamo
portato avanti un'attività istituzionale e questo è
il risultato. Anche questo ci ha unite, ci ha fatto condividere
esperienze, ha portato alla creazione di un database di donne
cineaste: se una direttrice cerca una montatrice, la può
trovare facilmente. Adesso si sta creando la Rete europea di
donne cineaste (Ewa) – ossia abbiamo già varcato
i confini nazionali –, e anche la Rete ispanoamericana
(Mica). L'associazione di donne cineaste non è servita
solo per lavorare all'interno dello spazio nazionale, ma anche
per lavorare a un livello più globale».
Come vedi il tema delle disuguaglianze per ragioni di
sesso nel tuo ambito professionale?
«Allo stesso modo che in qualsiasi altro ambito: noi donne
lavoriamo molto bene, siamo sempre qui, alla base, siamo molto
brave nella produzione, ma quello che è difficile è
sempre arrivare al potere. E il cinema è potere, perché
è raccontare una storia attraverso il tuo punto di vista.
E tu sei una donna. Il cinema è una rappresentazione
del resto del mondo lavorativo: siamo in molte donne, ma c'è
anche uno sbarramento2 come
nell'Fmi, o nelle direzioni delle grandi aziende, guardi le
loro foto e capita che non ci sia neanche una sola donna».
|
Una scena del film Return to Hansala |
A confronto con gli anni '80, quando con le Xoxonees
hai fatto irruzione nel panorama musicale, credi che abbiamo
fatto passi avanti o indietro sui temi dell'uguaglianza?
«Credo che l'uguaglianza sia un processo molto lento,
mi sorprende quanto lo sia, credevo che sarebbe stato più
veloce. Però guardi la società e ti accorgi che
non siamo cambiati molto, andiamo avanti nella medicina, nel
mondo dei satelliti, nelle conoscenze, ma l'essere umano, il
suo progresso emotivo, è molto lento, possiamo dire che
in questo stesso momento siamo quasi come nel Medioevo. Nonostante
i progressi abbiamo ancora schiavitù, fame, sete, indici
di povertà incredibili, non solo in paesi in via di sviluppo,
ma anche nel nostro stesso paese. Non avanziamo secondo una
progressione logica né in linea retta, andiamo avanti
in alcuni aspetti e retrocediamo in altri. Ma l'uguaglianza,
be', la donna lavora fuori casa e a casa, eppure continuiamo
a non avere le armi per realizzare davvero cambiamenti profondi
nella società, a non avere accesso al potere, e ci sono
anche molte donne che imitano modelli patriarcali. Le donne
molte volte non hanno modelli di riferimento, non come gli uomini
che ne hanno in ogni ambito: nell'arte, nella politica, nella
scienza... Non abbiamo donne a cui possiamo assomigliare, in
cui possiamo specchiarci, dobbiamo costruire il nostro proprio
e individuale modo di affrontare tutto questo. Per questo il
cinema e la letteratura, la narrativa, la televisione sono così
importanti: aiutano a costruire nuovi modelli. Se analizziamo
i personaggi femminili del cinema, della narrativa, molte volte
non hanno un nome, sono le fidanzate, le amanti, le madri, le
figlie dei personaggi maschili, ma ci sono davvero ben pochi
personaggi femminili padroni delle proprie decisioni, che siano
come la maggior parte delle donne, con i loro errori, le loro
decisioni, che siamo eroine, scellerate... Ci sono pochi personaggi
nella narrativa completamente femminili. È come se si
trascinassero sempre dietro quelli maschili, che sono quelli
che decidono. Le donne hanno un ruolo congiunturale o aneddotico
nella narrativa. Se leggi spesso la pagina degli spettacoli
teatrali, e guardi ogni opera, c'è una percentuale incredibile
di personaggi maschili e femminili, e allo stesso modo ci sono
cinque protagonisti maschili e una sola protagonista femminile.
È sempre così, noi donne non abbiamo modelli.
E continuiamo con le principesse che si innamorano dei principi
e le sputtanano... be', a volte prima le salvano e poi le sputtanano.
È bizzarro che quando un uomo dirige un film nessuno
gli chieda se sta mettendo la sua visione maschile nei personaggi,
e ogni volta che è una donna a dirigere sembra che debba
far passare la sua visione del mondo attraverso il personaggio
della donna. Ma il mondo è universale, è una visione
universale. A noi donne chiedono sempre il nostro punto di vista,
non un punto di vista universale, ma lo sguardo di una donna,
ed è una cosa che ti dà fastidio, no? È
già dividere, e dire: tu sei diversa».
A quali progetti stai lavorando ora?
«Ora stiamo girando una serie web, che è un corso
che ho messo insieme, e che avrà un ottimo risultato,
perché ho alcuni alunni e alcune alunne meravigliose.
E in questo periodo ho anche girato un film che si chiama Droga
oral, che è la seconda parte di Sexo oral.
Il tema della droga continua a essere un tabù, tutti
si drogano in un modo o nell'altro, con sostanze legali o proibite,
ma è qualcosa che fa del tutto parte della nostra vita,
e non c'è una comunicazione chiara a riguardo, soprattutto
per i giovani, che sono i più esposti. Mi interessava
parlare di questo tema, di come le persone si relazionano con
le droghe in un modo o nell'altro. Sto anche girando un documentario
nel Sacromonte, a Granada, con le persone più anziane
della zona, si chiama I saggi della tribù. Lo
scopo è parlare, attraverso la memoria delle persone
che lì hanno vissuto, di com'era la vita. Nel '63 ci
sono state alcune inondazioni e sono stati sfollati tutti. Quello
che voglio è, attraverso la memoria, ricostruire com'era
quel quartiere, la trasmissione dell'arte fra le persone, come
gli uni imparavano dagli altri. Sto anche lavorando a un progetto
che probabilmente gireremo in Colombia, a Cali, e che si chiama
Delirio».
Non si può dire che tu perda tempo.
«Sono rimasta ferma per molto tempo, e ora sembra che
comincino a venir fuori delle cose...»
Cosa ne pensi dell'attuale momento di mobilitazioni che
stiamo vivendo? Il 23 febbraio c'è stata una riunione
di Mareas (letteralmente “maree”, raduni collettivi
autorganizzatisi che riuniscono diversi gruppi e associazioni
di protesta), non si sa se a livello statale o nelle principali
città. Credi ci sia bisogno di altro?
«Non ci siamo resi conto del potere che abbiamo. Credo
che il popolo abbia tutto il potere, siamo la maggioranza. Se
prendessimo decisioni che avessero davvero un risultato, per
esempio una disobbedienza fiscale. Decidiamo tutti di essere
disobbedienti fiscali... lo stato crolla in 5 minuti! Dobbiamo
prendere coscienza del nostro reale potere. Scendere in strada
va benissimo, ma dobbiamo fare azioni concrete, perché
se scendiamo in strada, scendiamo, passiamo tutto l'anno in
strada. Da luglio ci sono state oltre un migliaio di manifestazioni
a Madrid, è impressionante, ma non succede nulla. Tutti
i partiti politici che negli anni sono stati al potere hanno
davvero il controllo, hanno la sfacciataggine di fare le cose
in modo del tutto oscurantista, non puoi fidarti di nessuno.
Quello che stiamo vivendo in politica è qualcosa di disastroso.
Questo sistema che abbiamo messo in piedi, che chiamiamo democrazia,
quello che fa è far lavorare i partiti politici per quattro
anni. Non c'è un lavoro in profondità per cambiare
la situazione. Succeda quello che succeda e costi quello che
costi, lavorano per i prossimi quattro anni, per vedere se li
voti. Non c'è un lavoro in profondità su nulla,
mettono delle pezze, cambiano delle piccole cose, ma a livello
generale, le cose sono sempre le stesse. Come tutti hanno qualcosa
da nascondere, perché non so cosa sia successo in questo
paese, ma evidentemente siamo un paese un po' disonesto, lo
stiamo vedendo, si coprono tutti a vicenda. L'alternativa politica
in questo momento è disastrosa, non abbiamo neanche speranza.
Deve nascere un partito nuovo con professionisti di comprovata
onestà, che fin dal primo giorno espongano pubblicamente
tutte le loro proprietà, e che facciano lo stesso una
volta saliti al governo. Non dico che tutti i politici siano
uguali, ma la politica è stata usata come il cortile
di una portinaia, sono stati usati metodi molto discutibili».
Eh sì, e ora vediamo i risultati. Ci sono organizzazioni
e associazioni che sono anni che lo fanno vedere, ma non ci
si fa caso perché sono la minoranza.
«È importante che siano corretti nella riscossione
fiscale. Ci mettiamo da parte un sacco di soldi».
È evidente che riscuotono bene...
«Ma anche di più, se poi ci lasciano tutti e tutte
in pace. Che gli paghino uno stipendio decente, che si sentano
soddisfatti, che lavorino molto e che non ci rubino più
nulla».
Grazie Chus, continua con tutti i tuoi progetti, che ti riescano
splendidamente e ancora per molti anni.
Isabel Pérez Ortega
traduzione di Giuditta Grechi
dal n.266 del mensile anarcosindacalista spagnolo Rojo
y negro, marzo 2013 (rojoynegro.info)
Note
- In originale “amigxs”.
- L'originale riporta l'espressione, non diffusa in italiano,
“techo de cristal”, preso dall'inglese “glass
cieling” (soffitto di vetro) per indicare le situazioni
latu sensu aziendali e istituzionali in cui le donne
potrebbero accedere per qualificazione ai piani più alti,
li vedono, ma non possono di fatto fare carriera.
|