Il futuro arcaico
di Mary Daly
“Teologia in lingua materna” l'ha chiamata Luisa
Muraro: vale a dire una riflessione sulle categorie del religioso
che prende avvio dall'esperienza della maternità, del
rapporto madre/figlio, e quindi da una scrittura in cui un'esperienza
vitale si fa conoscenza e pensiero mediante la lingua che impariamo
a parlare per prima, nell'ascolto della voce materna; e poi
da lì dire e parlare di Dio e di tutto il resto nella
prossimità con l'essere corpo, con il groviglio di emozioni
e sensazioni che ci abitano. Più prosaicamente i più
ne parlano in termini di “teologia femminista”.
Quale sia l'espressione che si preferisce, certo è che
la teologia declinata al femminile è oggi uno degli ambiti
più interessanti della riflessione religiosa, insieme
a pochi altri (teologia del pluralismo religioso, ecoteologia,
teologia animale), non a caso poco o punto frequentati nelle
facoltà pontificie.
Colei che, nel nostro tempo, può essere a buon diritto
considerata una delle iniziatrici di questo filone di ricerca
è stata Mary Daly, figura purtroppo poco conosciuta al
di fuori della classica nicchia di settore. Tratteggiamo, in
breve, i momenti salienti della sua vita pubblica. Dopo aver
compiuto rigorosi studi presso istituti cattolici negli Stati
Uniti e a Friburgo, conseguendo i dottorati in teologia e in
filosofia, iniziò a insegnare presso il Boston College,
retto dai gesuiti, entrando ben presto in rotta di collisione
– correva l'anno 1968! – con le autorità
dell'istituto per la sua opera La Chiesa e il secondo sesso
(in italiano nel 1982, presso Rizzoli). Ma il suo libro più
famoso è senz'altro Al di là di Dio padre,
del '73 (uscito in italiano nel 1990 per conto degli Editori
Riuniti). La stessa autrice ebbe a dire in seguito che il titolo
sarebbe potuto essere semplicemente Al di là di Dio;
Daly mostra come la costruzione stessa di un divino trascendente
crei simbolicamente una struttura piramidale in cui alcuni dominano
e altri sono dominati. Non solo: con l'identificazione di Dio
con il maschio tale gerarchia diviene sessuata, cosicché
Mary Daly giunge a sostenere come la visione sessista della
Chiesa sia connaturata alle sue premesse teologiche fondamentali.
In tale saggio è contenuta la sua famosa affermazione:
“se Dio è maschio, il maschio è Dio”,
mostrando come la religione cristiana finisca per legittimare
l'esercizio del potere maschile all'interno del nostro orizzonte
sociale e culturale. Dal canto suo Mary Daly proponeva di non
attribuire a Dio un'immagine fissa e oggettivante che ne ingessasse
le potenzialità, bensì – distante da un
Dio dalle sembianze antropomorfe – volle sempre riferirsi
al divino non come a un sostantivo ma come verbo intransitivo
che non ha fine, in continuo divenire, dunque fonte continua
di vita e di trasformazione.
Successivamente Mary Daly si convinse che non era possibile
eliminare le immagini maschili dalla parola Dio poiché
l'ordine simbolico del cristianesimo risultava irrimediabilmente
compromesso con i dispositivi oppressivi della società
patriarcale. Pertanto intraprese l'esodo dal cristianesimo,
rivolgendo la sua energia all'individuazione di un “futuro
arcaico”, tutto al femminile, a cui attingere. Questo
è il motivo di uno dei suoi ultimi lavori. Quintessenza.
Realizzare il futuro arcaico (pubblicato da Venexia, 2005).
Il testo si presenta con una struttura formale a cavallo tra
il saggio e il romanzo: alcune donne che vivono nell'era biofila
dell'anno 2048, grazie a un'energia femminile primordiale che
rende possibile lo scavalcamento delle barriere spazio-temporali,
richiamano Daly dall'anno 1998, affinché racconti loro
del miserevole stato in cui vivevano le donne nella precedente
era necrofila, dominata dal patriarcato. Questo testo, pur collocandosi
in una prospettiva dichiaratamente post cristiana presenta comunque
punti di contatto con la letteratura apocalittica, con il suo
corredo di visioni (il tema del viaggio spazio-temporale), con
il simbolismo numerico, con il principio-speranza che alimenta
un presente irrespirabile.
Questa in sintesi, estrema sintesi a dir la verità, il
percorso intellettuale di Mary Daly.
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Mary Daly |
Nel gennaio del 2010 Mary Daly è morta e nel maggio dello
stesso anno, presso la facoltà valdese di teologia di
Roma, si è tenuto un convegno in suo onore, con l'apporto
del Coordinamento teologhe Italiane. Gli atti di questo incontro
sono ora disponibili nel volume Un vulcano nel vulcano. Mary
Daly e gli spostamenti della teologia (Effatà edizioni,
Torino, 2012, pp. 112), curato da Letizia Tomassone. Studiose
di religioni, filosofe e teologhe (fra cui Chiara Zamboni, della
Comunità filosofica Diotima, Luciana Percovich, Elizabeth
Green, oltre alla stessa Tomassone) riflettono e si confrontano,
partendo da punti di osservazione differenti, su ciò
che ha lasciato in eredità la studiosa americana e le
vie di fuga che è possibile intravedere. Ma il libro
si presenta bene anche come un'introduzione al pensiero della
filosofa e teologa statunitense.
Qui, in conclusione, desideriamo compiere una breve nota a margine
sui temi trattati nel volume, in punta di piedi, quanto lo consente
lo spazio di una recensione.
Mary Daly in Al di là di Dio padre sosteneva che
l'attuale regime sociale è opprimente non solo per le
donne ma anche per gli uomini e che, di conseguenza, il cammino
di liberazione riguarda entrambi i generi. Come annota E. Green
nel volume, “il sistema simbolico cristiano è fonte,
quindi, di una falsa coscienza femminile ma anche di una falsa
coscienza maschile” (p. 41). In seguito Daly abbandonerà
questo tipo di considerazioni compiendo il salto verso il separatismo
femminista (verso cui alcuni degli interventi del volume collettaneo
dissentono). Qui, per forza di cose, il commento è dalla
parte maschile, la quale vede e sente con tutta la persona quanto
vi è di insopportabile nel giogo patriarcale, ma sente
al contempo come la possibilità dell'oltrepassamento
si giochi in due. Non dobbiamo confondere la parte con il tutto;
come scriveva a suo tempo Luce Irigaray: “la natura umana
è due”, altrimenti rischiamo di ricadere in una
sbrigativa visione dualistica (bene/male=femminile/maschile),
del tutto simile a quella che Daly denuncia come tratto deleterio
del cristianesimo. Come conclude il suo intervento la pastora
e teologa Daniela Di Carlo, è bene “avere la consapevolezza
che l'umanità racchiude in ciascuno dei due generi zone
di ombra e di radianza” (p. 72). E da lì, provando
a fare i conti, ripartire.
Premesso ciò, colpisce nella produzione di Mary Daly
la capacità di procedere per sfondamento di orizzonti,
creando nuove prospettive e nuovi piani, anche sul piano linguistico
(sarebbe auspicabile che prima o poi qualcuno si cimentasse
a tradurre il suo Wickedary del 1987 – “dizionario
assolutamente geniale quanto intraducibile”, afferma L.
Percovich nel volume). Un esempio: Daly parla di futuro arcaico,
scaturito da una fuoriuscita dal tempo lineare con la sequenza
ordinata passato-presente-futuro, proponendo una diversa visione
in cui nel presente possono emergere le forze del passato che
a loro volta spalancano verso un futuro altro rispetto a quello
previsto e prevedibile. In ciò molto simile al futuro
primitivo di John Zerzan, tanto criticato anche nell'area
libertaria; con la differenza che Daly attinge al passato del
neolitico e dell'età del rame (l'epoca della società
matrifocale e del culto della dea, quella indagata da Marija
Gimbutas, per intenderci), mentre Zerzan va ancora più
indietro, sino al paleolitico delle società di raccoglitori-cacciatori,
laddove non è ancora sopraggiunta quella separazione
dalla natura da parte dell'essere umano, da cui si origina tutta
la genealogia del dominio che attraverso vari e complessi passaggi
giunge a noi. Il tutto non per una pulsione regressiva, ma verso
un andare avanti ben differente dall'idea di progresso dei vari
pianificatori, degli esegeti della governance e dei futurologi
di turno.
Federico Battistutta
Un mosaico
di ricordi
La
prima volta che conobbi Gaetano, il principale personaggio de
Il sabotatore di campane (Edizioni Spartaco, Santa Maria
Capua Vetere, 2013), il testo ancora era adagiato su un comodo
formato A4, tenuto insieme da una spirale blu e andava a finire
in modo diverso da quel che ora leggerete nella versione definitiva.
Ho avuto il piacere di poterne discutere con l'autore prima
ancora che il libro prendesse la sua forma definitiva e il privilegio
di seguire un processo creativo proprio sul più bello
di ogni storia... ovvero su come poi andrà a finire.
Già allora avevo trovato questo lavoro ambizioso, con
una storia accattivante, costruita come un mosaico di ricordi,
aneddoti con espliciti richiami a fatti realmente accaduti ed
epoche realmente trascorse, riportati alla luce tramite il personaggio
principale, ma anche sapientemente costellato di innumerevoli
altre figure, archetipi e intrecci che lo rendono letterariamente
avvincente oltre che di stimolante velata critica ai tempi moderni.
Gaetano è figlio di un padre anarchico, cresce in un
piccolo paesino ma poi si crea un vissuto intenso, ricco di
incontri ed esperienze legate ad un'epoca storica ricca di eventi,
di figure e di tanti dolori che fanno di lui ora un uomo con
un unico obiettivo, una sorta di missione speciale: sabotare
tutte le campane delle chiese, per impedire loro di suonare.
Un gesto simbolico, in parte in memoria del terribile eccidio
avvenuto nel '44 da parte dei fascisti, in cui solo il prete
si era salvato proprio perché complice, in parte perché
legato al ricordo di un maestro di pensiero e di vita, Libero.
Tra i vari campanili che vorrebbe imbavagliare, quello di Roccapelata,
un anonimo paesino in autentica via di estinzione, dove la gente
se ne va o muore e dove non succede mai nulla di eclatante...
tanto che sindaco e assessori, perfetta incarnazione del politico
medio di un'Italia corrotta e sopita, si prodigano e si arrovellano
da tempo sul come rianimare con un fatto sensazionale, posto
poi su un piatto d'argento, l'interesse speculativo sul paesello.
Nella buia notte in cui Gaetano prevede di mettere a tacere
le campane di Roccapelata però qualcosa va storto; il
sacerdote lo scopre e, durante l'animata discussione, scivola,
batte la testa e muore. Gaetano decide di costituirsi, è
vecchio e stanco; si dichiara subito colpevole. Ma il paese
non vuole lasciarsi sfuggire un'occasione del genere. Un fatto
di cronaca nera così grave è proprio ciò
di cui ha bisogno per far parlare di sé a livello nazionale.
La fame di fama è troppo acuta per essere messa a tacere
con la verità scomoda e per nulla sensazionale, almeno
per la stampa. Così a poco a poco tutti rivelano, chi
in questura, chi direttamente ai giornali, fatti e testimonianze
che, oltre alla confusione, portano la quasi totalità
degli abitanti nel registro degli indagati. E finalmente il
paesino riempe le sue stanze d'albergo sempre vuote con telecamere
e giornalisti. Fino all'assurdo, ma che così assurdo
poi non è. E l'unico, solo, vero colpevole non viene
tenuto in considerazione, anzi, viene accusato di volersi fare
pubblicità, voler coprire qualcuno, o essere pazzo.
Paolo Pasi, già autore di diversi romanzi, giornalista
e assiduo collaboratore di “A” rivista anarchica,
con questo suo ultimo romanzo rende omaggio e riporta alla luce,
tra le righe, tutto un mondo estremamente affascinante e al
contempo ai più dimenticato o sconosciuto, ascrivibile
nel portato della cultura e della storia libertaria, che rimanda
a tanti personaggi anarchici e situazioni passate, a lui e a
noi care che fanno magistralmente capolino fra i ricordi, i
parenti e i vissuti del vecchio Gaetano, che un po' fa commuovere,
un po' fa sorridere e un po', mentre ci racconta una storia
anarchica, ci fa sognare, ma sopratutto ricordare.
Gaia Raimondi
Contro il gigante,
le micro-pratiche
Più
che un'introduzione per profani al post-anarchismo, una summa
divulgativa: l'ultima fatica di Michel Onfray, Il post-anarchismo
spiegato a mia nonna (Elèuthera, Milano, 2013, uscito
in Francia nel 2012 per le Editions Galilée) è
una sorta di manifesto programmatico (del post-anarchismo o
di Onfray stesso?), un agile pamphlet scritto brillantemente
da un comunicatore abile, ricco di asserzioni e propositi militanti,
ma che non lascia spazio per analisi e approfondimenti.
Il filosofo francese offre una serie di imperativi: bisogna
fare piazza pulita del vittimismo, abbandonare la “sinistra
del risentimento”, i pensatori mummificati, i testi ottocenteschi
citati come un vangelo anarchico e mettere in discussione i
dogmi della dottrina (lo stato è davvero il male
assoluto? Le elezioni sono sempre delle trappole?). Più
in generale, bisogna dequalificare la teoria tout court,
che tenta di piegare il reale a sé anziché comprenderlo,
e abbandonare la morale del principio, da Platone a Kant. “D'altronde,
se il principio non funziona, poco importa: è il reale
che ha torto, mai il principio”, commenta sarcasticamente
Onfray.
In opposizione all'anarchia del risentimento derisa da Nietzsche,
vittimista e rancorosa, e all'anarchia dell'utopia, passiva
e anti-pragmatica, il filosofo francese propone una post-anarchia
positiva, pratica, immanente, esposta attraverso il “principio
di Gulliver” (perché non di Lilliput?), ovvero:
il gigante va affrontato attraverso una serie di micro-pratiche,
dall'istruzione popolare alla disobbedienza civile, perché
“se ci sarà la rivoluzione non arriverà
dall'alto, ma dal basso, in modo immanente, contrattuale, capillare,
rizomatico”.
La prima parte del libello è strettamente autobiografica:
la genealogia di un carattere antagonista.
Secondo Onfray non si diventa anarchici con lo studio o la lettura
che risveglia le coscienze, o per lo meno non in prima istanza.
La condizione prima è “una ribellione istintiva
nei confronti dell'autorità”, un concetto che solletica
la vanità e la pancia di tanti libertari viscerali (come
la sottoscritta). I toni brillanti e una scrittura mai monotona
rendono estremamente piacevole la lettura di questo “autoritratto
con bandiera nera”, dall'iniziazione intellettuale, avvenuta
nella bottega di un barbiere “alquanto atipico”
che gli fa scoprire Volin alla creazione dell'Università
popolare di Caen, una delle scelte di vita pratiche e militanti
(come quella di non candidarsi alle presidenziali o di non vivere
a Parigi) che Onfray rivendica con orgoglio e una punta di autocelebrazione.
La seconda parte è meno aneddotica e più operativa.
Si inizia mettendo ordine nella biblioteca, decidendo cioè
quali padri dell'anarchismo sono stati effettivamente tali e
quali sono invece da destituire. Nel mare magnum del
pensiero anarchico Onfray sceglie senza tentennamenti chi salvare
e chi buttare agli squali. Salva Proudhon, vero padre, secondo
lui, dell'anarchia positiva (riprendendo soprattutto la sua
tesi contro “l'albinaggio capitalista”) e, naturalmente,
Etienne de la Boétie. La prima testa a cadere è
invece quella di Stirner, solipsista immorale e intransigente
(al contrario di ciò che pensa Saul Newman, che lo vede
come un anticipatore del post-strutturalismo – con il
quale però Onfray è in sintonia per quanto riguarda
la simpatia nei confronti di Nietzsche). Si prosegue poi con
Bakunin, sanguinario e neo-hegeliano; Godwin, troppo messianico;
Tolstoj, a cui un convinto razionalista come Onfray non può
certo perdonare la fede cristiana.
Se i suoi giudizi, per quanto suffragati da attente letture,
ci appaiono un po' tranchant, non dobbiamo dimenticare
che abbiamo a che fare con un pensatore che ama fare filosofia
con l'accetta, abituato ad attaccare i nemici teoretici anche
sul piano personale. Si pensi ad esempio all'invettiva anti-freudiana
(in parte, a onor del vero, condivisibile) de Il crepuscolo
di un idolo (2010), in cui il povero Sigmund viene definito
“cocainomane”, “onanista” e “incestuoso”.
Dopo essersi divertito a smontare la “chiesa anarchica”
con la gioia sadica di un bambino che distrugge un castello
di sabbia, Onfray torna alle proposte costruttive, legate alla
dimensione del quotidiano, alla micro-politica che agisce per
il qui e l'ora, oltre la critica fine a se stessa, oltre ai
dogmi: un pensiero libertario contemporaneo che ha fatto i conti
con Nietzsche e la French Theory. In sostanza, senza ambizione
di esaustività didascalica rispetto a ciò che
rappresentano il post-anarchismo e il post-strutturalismo, Onfray
ha l'indubbio pregio di mantenere vivace il dibattito, facendo
anche proposte interessanti, e ben rappresentando lo spirito
anti dogmatico del post-anarchismo. Nel farlo però mette
molta carne al fuoco, che in queste 90 pagine non ha modo di
essere trattata con sufficiente profondità. Tra le questioni
messe in campo, uno degli aspetti più controversi e opinabili
è sicuramente l'analisi troppo sbrigativa del capitalismo:
“un modo di produzione delle ricchezze” da non confondere
con il liberalismo: “un modo di ripartizione delle ricchezze”.
“Per questo”, sostiene Onfray, “potrebbe esistere
un capitalismo libertario, proprio come c'è stato un
capitalismo sovietico o come c'è un capitalismo ecologico,
verso il quale sembra che ci stiamo dirigendo”.
Insomma, nella stesura di questo vivace manifesto gli approfondimenti
teorici sono stati delegati altrove, alla riflessione del lettore,
magari. Indubbiamente si tratta di una lettura avvincente e
che stimola il dibattito, ma che a mio parere lascerà
la nonna di Onfray con non pochi dubbi irrisolti.
Laura Antonella Carli
Nessun genere
di autorità
Il
nuovo libro di Luisa Muraro, Autorità (Rosemberg
& Sellier, 2013, pp.128, € 9,50), è un testo
che si definisce incompiuto, una sorta di bozza pittorica di
un quadro da costruire.
A dire il vero, l'autrice da molti anni si occupa di riflettere
attorno al tema dell'autorità materna, e credo che chiunque
abbia iniziato da giovane a leggere i testi del neo-femminismo
italiano non possa non aver almeno sfogliato L'ordine simbolico
della madre.
Dunque l'autrice sembra volersi tutelare da alcune, seppur scontate,
ficcanti obiezioni al tema proposto, critiche alle quali neppure
questa recensione vorrà sottrarsi, tentando di evitare
banalità di senso comune.
Muraro cerca di riconsiderare l'opinione diffusa che vede autorità
e autorevolezza come due poli non comunicanti di una radice
comune, sottolineando che la caratteristica etimologica dei
termini riguarda piuttosto l'autore o l'autrice, come soggetto
“autorevole”.
Pur comprendendo la necessità di riscrivere significati
in significanti esistenti, con un legittimo ricorso a fonti
scientificamente fondate quali l'etimologia, penso che Deleuze
avesse ragione a sostenere che se una parola diventa oscura
o obliqua, sia meglio inventarne una nuova. Autorità
è un termine nato etimologicamente per significare qualcosa
di diverso (quanto diverso?) dall'utilizzo odierno, tuttavia
questo approccio non è sufficiente ad evitare di fare
i conti storici e politici con il suo attuale significato. A
voler essere precise, “autorità” è
una pratica, non un mero termine o un significato. L'autorità
esiste nel momento in cui essa esercita il suo ruolo dominante
in relazioni asimmetriche e diseguali, condizione necessaria
per la sua attivazione.
Se esiste, com'è vero, un problema niente affatto banale
con le prospettive egualitarie – spesso di maschi liberi
ed eguali, in una fondazione escludente di donne libere ed eguali
– trovo da sempre piuttosto scivolosa l'opposizione, impropria,
tra differenza ed eguaglianza, poiché nella mia esperienza
di donna ho visto molte, troppe volte la sua ricaduta sensibile
nella diseguaglianza (l'etimologicamente più corretto
contrario di eguaglianza).
L'autrice, inoltre, non sembra esente da alcuni autoritarismi
formali, quando gerarchizza chi conosce e chi non conosce la
“verità” dell'oggetto della discussione.
Un esempio, o due a riguardo: “Quando, ai luoghi comuni
della nostra cultura scarsa e confusa circa il senso
dell'autorità, si somma la repulsione personale, la
mente deraglia”; “I ribelli per partito preso
non sono le persone più temibili per i detentori del
potere, non più delle persone perbene che si sentono
male all'idea di trovarsi nell'illegalità. Tutti costoro,
per un verso o per l'altro, che sia per trasgredire o che sia
per obbedire, attribuiscono alle leggi più significato
di quello che hanno e inconsapevolmente aspirano a essere
comandati da un potere assoluto” (il corsivo è
mio).
Com'è evidente, queste frasi malcelano un chiaro esercizio
di autorità e di potere, espresso in modo un pochino
ipocrita: sebbene sia Muraro a voler salvare il ruolo dell'autorità
nella nostra società (a scuola, nelle organizzazioni
collettive e sociali, in famiglia), chi si macchia realmente
della colpa – perfino inconscia! – di desiderare
la sottomissione al potere assoluto sono coloro i quali lottano
contro di esso con “troppa” veemenza. È un
sofisma antico, perdurante in particolare nei gruppi di colonizzatori:
la colpa della violenza esercitata dal gruppo dominante sul
subalterno sta nell'esercizio di resistenza di quest'ultimo...
come a dire, non è colpa nostra se vi uccidiamo, è
colpa della vostra resistenza che ci costringe a difenderci.
Et voilà, l'autorità come pratica, anche
concettuale.
“Penso, per i paesi occidentali, alle rivolte giovanili
di mezzo secolo fa, che ebbero tanti aspetti fra i quali una
definitiva contestazione dell'autorità dei padri e dei
professori. Ciò non significa che allora tutto sia andato
per il meglio ai fini della conoscenza e della libertà
(...) sarebbe fuorviante assumere che la cancellazione dell'autorità
sia come tale proficua o benefica (...) come si fa altrimenti
a educare i più giovani, a insegnare, a fare un minimo
di ordine nella vita associata, a organizzare un'impresa difficile?”.
Potrei rispondere, brevemente e con un pizzico di sarcasmo,
che molte anarchiche e anarchici di epoche passate, presenti
e forse perfino future, avrebbero molto da insegnare a Luisa
Muraro!
E non solo in tema di pedagogia libertaria, ma di sperimentazione
sociale anti-autoritaria, organizzazione collettiva senza stato,
economie alternative anticapitaliste, relazioni egualitarie
tra i generi (che non significa che siamo tutti uguali, con
alcuni più uguali di altre), convivenze
antispeciste eccetera.
Mi torna alla mente la sconfitta dei Consigli di fabbrica degli
anni venti del secolo passato, e Malatesta che ammoniva dall'arrestare
la radicalità della lotta, pena pagare con interessi
eccezionali la repressione. Fu il fascismo, all'epoca. Malatesta
parlava con esperienza profonda delle connessioni di potere,
evidenziando quanto l'autorità e il potere fossero esattamente
il gancio al quale la feroce risposta autoritaria allacciò
le sue dure catene.
Negli anni settanta, per riprendere una frase anonima ma autorevole
del maggio francese (senza autore e autrice, un'autorevolezza
“informale”, vergata sui muri parigini), si iniziò
a capitolare quando la rivolta cominciò a cedere “un
poco”. È possibile chiedersi quanto abbia aiutato
le donne cedere un poco all'autorità materna nelle riflessioni
e pratiche di liberazione, ad esempio disperdendo il cammino
indispensabile verso la sperimentazione del rifiuto delle relazioni
di potere e autorità, che tanto ancora nuocciono e hanno
fatto male alle relazioni tra donne.
Purtroppo non si è approfittato della differenza,
ma imitato l'ideatore “autoritario” maschile.
Credo che sia davvero il momento di instillare un dolce nettare
di anti-autoritarismo e libertà in tutte quelle prospettive
di liberazione – femminile, maschile, di ogni specie o
provenienza geografica – che oggi sono urgenti come l'aria
da respirare.
Forse, per risolvere il dilemma “autorità sì,
un poco/autorità no, per niente”, si potrebbe proficuamente
leggere di nuovo lo spinoziano Deleuze. Cito a memoria: “Bisognerebbe
dire che ogni tristezza è un nostro difetto di potere.
Non esiste 'potenza' cattiva, se è cattiva è il
più basso grado di potenza, e il più basso grado
di potenza è il potere. Cos'è infatti la cattiveria?
È impedire a qualcuno di fare ciò che può,
di realizzare la sua 'potenza', così non c'è potenza
cattiva, ci sono cattivi poteri. La confusione tra potenza e
potere è rovinosa perché il potere separa sempre,
la gente, ogni cosa. Il potere separa la gente da ciò
che essa può”.
Martina Guerrini
Lo “sguardo perso”
di Simone Weil
La
clown di Dio. A dispetto del titolo piuttosto bizzarro e
delle aspettative di ilarità dell'incipit, la lettura
del breve saggio di Monica Cerutti Giorgi (Edizioni Zero in
Condotta, Milano 2013, pp. 105, € 8,00), risulta piuttosto
ardua. Si legge: “Divertitevi! Divertirsi è cosa
molto seria; richiede abbandono e impone disciplina. È
una vera passione! Spossante, non c'è che dire: non so
come, tanto meno perché, ma c'è gusto”.
Al termine della lettura – e concluderla è già
un bel traguardo – più che divertiti, si arriva
spossati. Ancora: “Qualcun altro ha esclamato: Convertitevi!
No, dico: Ricreatevi e divertitevi”. Le
esortazioni dell'autrice, purtroppo, non sono accompagnate da
uno stile agile, accattivante, coinvolgente, intrigante. E forse
questa è la grande pecca. Pertanto, sarebbe stato interessante
riuscire a restituire quella leggerezza – propria di una
clown di Dio – capace di trasportare su questioni serie,
ma con il giusto distacco. In questo caso, il sano divertimento
sarebbe stato assicurato e il pubblico di lettori potenziato
e appagato.
Tuttavia, con sforzo empatico si può entrare nell'orbita
dell'autrice e lasciar fluire, a nostra volta, quei rimandi
che la lettura stessa, comunque, suscita. Anche perché
l'idea generatrice è degna di interesse.
Monica Cerutti Giorgi dipinge una clown goffa, strampalata,
scoordinata. Un'aria estraniata dallo sguardo perso. Maldestra
e ironica verso la sua fragilità, ma permeata da una
grazia intima, pura. Pensatrice poetante. Visionaria. Creatura
celeste. Profeta del presente. Indomabile. Ma è ancora
più curioso se in quei panni misteriosi troviamo M.lle
Simone Weil. A Le Puy, quando si mette alla testa del movimento
dei disoccupati, è la Vergine Rossa. Oppure per strada
è l'Anticristo. Ma farebbe pensare anche a una moderna
Pulzella d'Orléans. Lei è una paracadutata sulla
scena del mondo da un Dio acrobata che la caccia per amore.
Nella vivace colorata grafica di Mariella Bernardini, la funambola
dai tondi occhialetti da miope, “in divisa scura da operaia-miliziana
anarchica” rimane sospesa. I fili la trattengono, mentre
dietro, nell'alone dai contorni di luce c'è ancora lei,
estranea e altra da sé. E questa prospettiva inedita
di Simone Weil risulta davvero accattivante.
Tuttavia, la scrittura di Monica Giorgi andrebbe ulteriormente
alleggerita da virtuosismi e dotata di maggior chiarezza, ritmo
e colore. In tal caso, si potrebbe prestare a una riscrittura
per la scena teatrale, a più voci. Ma presupporrebbe
sempre un lettore-spettatore disposto a farsi agile acrobata,
per seguire senza perdersi la labirintica traiettoria tempestata
di concetti densi, concisi, ripresi, sospesi. Pena l'abbandono
della scena. Infatti, l'autrice si accorda con lo stile da equilibrista
della scrittura weiliana e ci restituisce un altro concentrato,
un altro distillato puro. Da sorseggiare, con calma, a piccole
dosi. Giorgi gioca con la prospettiva straniante della clown
di Dio. Coglie ironia, humor, leggerezza che albergano negli
scritti e nel temperamento di Simone Weil, la toccata da Dio,
dalla follia d'amore. Davvero una mancanza che la scrittura
del saggio non riesca a rendere questa leggerezza!
L'ispirazione latente è dichiarata nelle note: “Prendere
sul serio quella dose di follia che ci è riservata nelle
intuizioni più felici”. Con riferimento a uno scritto
freudiano, è il sottofondo che accompagna la scrittura
del saggio. L'autrice individua “il tratto d'inizio alla
vita simbolica” fin dai primi scritti.
Ancora bambina, la trasformista clown di Dio si cuce addosso
il costume di un lutin du feu, piccolo demone alla buona,
scherzoso, capace di rendere ridicole le cose serie. Arma tuttavia
capace di trasformare l'ingiustizia in giustizia, la follia
in verità.
Ma lei è anche un fruit foll, frutto bacato, umile.
Tuttavia capace di una conoscenza immediata, intuitiva. La sventura,
la mancanza, diventa un eccesso di ricchezza. Perché
i folli hanno un bisogno distruttivo: fame e sete di giustizia.
Hanno fame d'amore. Così si fa complice degli ultimi,
dei diseredati e invita ad ascoltarli nella loro verità.
Anche negli scritti della maturità, Giorgi coglie l'intuito
profetico, e quella dose di follia che fa abbandonare lo slancio
intellettualistico per fare esperienza fisica, esserci in presenza.
Entrare dentro le cose. Per essere e sapersi operaia, oppure
contadina, ri-orienta i fili del suo paracadute per approdare
nella bellezza dell'esperienza in fabbrica e di vendemmiatrice.
Non basta.
Durante la crisi dei Sudeti, la filosofa militante vuole essere
dentro lo scenario, paracadutata a Praga dove erano in corso
scontri tra polizia e studenti. Prevalgono i doveri verso l'essere
umano. Intuisce la forza dell'azione. “Parto per la Spagna”.
Vuole vivere la vita, alla ricerca della verità dentro
l'esistenza. L'intellettuale interventista sceglie di esserci
tra gli operai e i contadini nelle loro rivolte sociali. Si
arruolerà nella Colonna Durruti, sul fronte di Aragona,
durante la Guerra civile spagnola. E, in seguito, in piena guerra
elaborerà il “Progetto di una formazione di un
corpo d'infermiere di prima linea” ispirato e agito sui
dettami della più lucida delle follie: l'Amore. Servono
fatti. L'arma vincente è la forza spiazzante del coraggio
unito alla tenerezza materna. Le donne farebbero in campo quello
che hanno da sempre saputo fare: esercitare il potere della
cura. Simone Weil da donna ha saputo proporre un modello femminile
di follia d'amore, come risposta alla ferocia inumana sul fronte
dell'immaginario bellico maschile.
La prospettiva dalla quale l'autrice guarda alla clown di Dio
consente di riconsiderare la peculiarità del sentire,
esserci, amare propria del femminile. Peculiarità che
va accolta per l'insita potenzialità di creare le condizioni
per una vita più autentica, dotata di significati profondi,
la cui verità è visibile nell'operosità
dell'azione.
Per Mara Paltrinieri, nella sua nota conclusiva al saggio, Simone
Weil, insieme a Etty Hillesum e Marìa Zambrano... obbedendo
alla legge dell'amore sono le vincitrici della Seconda guerra
mondiale. Si potrebbe aggiungere anche Frida Malan, figlia di
un pastore evangelico valdese. Paracadutata al di qua delle
Alpi, nelle Valli Valdesi sulla scena della follia della guerra,
rappresenterebbe l' emblema di un passaggio di testimone anche
nel dopoguerra. Come in Simone Weil il suo amore per la giustizia
non è disgiunto dalla libertà. E l'azione si rende
concreta nella realtà delle piccole cose, dove è
racchiuso tutto il grande sentire dell'amore. Amore, contagio
benefico. Motore propulsivo dell'umanità.
Il saggio suscita un'altra sollecitazione. Poiché “i
piani del paracadute non vanno a senso unico”, siccome
alla follia della guerra si può contrapporre la follia
d'amore, quale altra eredità ci viene lasciata oggi dalla
clown di Dio? All'inizio del terzo millennio, il paracadute
sospeso e distaccato aleggia sulla follia dell'edonismo consumistico.
Ognuno è chiamato a dare il proprio libero consenso a
un amore folle, capace di uscire dagli schemi precostituiti,
che fagocitano tutto e tutti nel loro ingranaggio perfetto.
Per tradursi in azioni concrete fatte di piccole cose, ma dalla
forza straordinaria capace di grandi cambiamenti sorprendenti
e incredibili, condizione per un nuovo umanesimo civile. E,
per quanto possibile, con leggerezza. Proprio come tanti lutin
du feu, e tanti fruit foll, sulle orme delle capriole
della clown di Dio. Perché l'idea generatrice è
originale e invita a sua volta a riflessioni che consentono
di vedere oltre. E questo è il merito del saggio.
Claudia Piccinelli
Sindacalismo rivoluzionario
a Torino, un secolo fa
Mi
fa piacere segnalare il bel libro Il sogno nelle mani.
Torino 1909-1922 che, come recita il sottotitolo, raccoglie
passioni e lotte rivoluzionarie nei ricordi di Maurizio Garino,
edito da Zero in Condotta (Milano, 2011, pp. 261, e 15,00).
Frammentariamente pubblicate e utilizzate, le memorie di Garino
(1892-1977) che venne intervistato da Marco Revelli nel 1975,
ci riportano con vivace immediatezza ad un periodo cruciale
della storia del movimento operaio italiano del quale Garino
stesso, come sindacalista e anarchico, fu protagonista e testimone
di primo piano, attraversando tempi di rivoluzione, riformismo
e reazione.
Appare fuor di dubbio che, come ha osservato Marc Bloch, è
necessario sempre tenere di conto la “plasticità
della memoria”, in quanto questa agisce da meccanismo
potente in grado di rielaborare e potare i ricordi; ma, non
di meno, “la storiografia – riprendendo Carlo Ginzburg
– può alimentarsi nella memoria, perché
le memorie sono un documento storico, nel momento in cui vengono
trascritte oppure registrate al magnetofono, dalla persona in
questione oppure da un terzo. E la memoria può trarre
alimento dalla storiografia: si legge un libro di storia e magari
si integrano in maniera consapevole o inconsapevole i propri
ricordi”.
Quella “vecchia” intervista tra Garino e Revelli,
ossia tra chi aveva fatto la storia e chi cercava di recuperarla,
conferma proprio questa reciprocità, a sua volta integrata,
precisata e sviluppata da ulteriori documenti, riflessioni e
ricerche a cura di Tobia Imperato, dedicatosi per anni a questo
progetto, nonché di Guido Barroero, Maurizio Antonioli,
Cosimo Scarinzi. Inoltre vi è stato aggiunto un ormai
raro contributo di Pier Carlo Masini su anarchici e comunisti
nel movimento dei Consigli a Torino.
Gli avvenimenti, le persone, le questioni e i conflitti che
emergono dal racconto di Garino, anche se circoscritti ad un
periodo limitato e per lo più relativi al contesto torinese,
sono innumerevoli e in grado di aprire utili porte per quanti
studiano quel decisivo passaggio della storia sociale; ma, a
mio avviso, quella più stimolante – anche per coloro
che di solito non si appassionano alle vicende passate della
lotta di classe – riguarda la quotidianità vissuta
da Garino assieme a migliaia di compagni di lavoro e di rivolta
nei luoghi di socialità e aggregazione nei quartieri
proletari: luoghi non meno importanti, per implicazioni e sviluppi,
dello spazio della fabbrica, allo stesso tempo coagulo di antagonismo
ma anche di alienazione.
E anche Cosimo Scarinzi sottolinea, da parte sua l'importanza
di questa “ricostruzione dell'intreccio fra formarsi di
una generazione militante, lotte di fabbrica, comunità
operaia e proletaria sul territorio, dialettica fra culture
politiche” in questi luoghi, fossero i Circoli socialisti,
quelli libertari di Studi sociali o le Case del popolo: tutti
accomunati da frequentazioni simili, trasversali ai “partiti
sovversivi”, e in grado di produrre sia relazioni personali
che, attraverso strutture di autoformazione come la Scuola Moderna,
saperi da condividere in modo orizzontale e consapevolezze di
un'altra condizione umana.
Le descrizioni di questi ambienti che Garino ci offre, valgono
più di ogni attuale astruso dibattito sull'identità
perduta della sinistra e meritano d'essere parzialmente anticipate:
“fondai con altri giovani compagni, tra cui il povero
Ferrero, il Circolo di Studi Sociali, cioè la Scuola
Moderna [...] il programma delineato in quei tre punti: lotta
sindacale, lotta politica e lotta culturale... erano tre temi
che spingevano avanti per far crescere la coscienza socialista
negli operai [...]. Allora c'era quel tipo di operaio lì,
che dopo dieci ore di lavoro aveva ancora la forza di venire
al Circolo a discutere di Marx, di Bakunin, di Stirner. Su cento
ne troviamo cinque che erano così, che sapevano perché
Stirner era in disaccordo col comunismo, e con tutte le altre
forme di collettività. Ma c'erano! Io questo problema
me lo sono posto varie volte; secondo me era la sostanza che
derivava dalle lotte mazziniane fatte nel secolo precedente,
che rimaneva ancora [...]. Credo che questa parola, volontarismo,
spieghi tante cose. Ecco perché “Quello sa questa
cosa, io non la so! E allora mi faccio avanti”. E uno
con l'altro ci si formava una coscienza. Naturalmente molti
operai andavano a giocare alle bocce [...]. Noi ci occupavamo
anche di poesia, si declamava”.
E, all'interno di questi luoghi, punto di riferimento per i
lavoratori torinesi, ma anche immigrati dal resto della regione
e non solo (come la consistente comunità operaia proveniente
da Piombino), si andarono maturando scelte radicali individuali
e collettive in grado di mettere ripetutamente in crisi il potere
politico ed economico, attraverso pratiche di lotta portate
avanti in prima persona dai lavoratori che si sentivano in grado
di soppiantare in tutto e per tutto il padronato e i governanti,
occupando fabbriche e dando vita a scioperi insurrezionali.
Non casualmente, a Torino, il sindacalismo rivoluzionario si
dimostrò a lungo forte, ben oltre la sua rilevanza numerica,
tanto da influenzare e condizionare pure altre tendenze (basti
pensare a Gramsci che ebbe a definirlo come “l'espressione
istintiva, elementare, primitiva, ma sana della reazione operaia
contro il blocco con la borghesia e per un blocco coi contadini”);
emblematica a proposito l'ammissione di Garino che pur era stato
un dirigente della Fiom: “Noi eravamo per l'azione diretta,
eravamo un pochettino soreliani, in sostanza. Non tanto, eh!”.
Marco Rossi
Ripensare il cibo
(pensando ai bambini)
Cake
book (traduzione italiana: Il libro delle torte,
pp. 28, euro 14,00) è la settima uscita del catalano
Martí Guixè per la casa editrice mantovana Corraini
Edizioni, che propone libri e opere grafiche di artisti e designer
contemporanei (tra cui Bruno Munari), nonché narrativa
e libri educativi per bambini. Cake book si situa in
una terra di nessuno, dove l'età ha a che fare più
che altro con lo sguardo. Con una radicalità di approccio
agli oggetti. Qui, a chiedere di essere ripensato tout court,
non importa se da un bambino o da un adulto, è il food.
Ventotto pagine in brossura per un “draw here” (“crea
qui” in senso lato) che non ha niente a che vedere con
i classici albi da colorare destinati ai più piccini.
In realtà Cake book è una bella sfida:
difficile per i piccoli, quasi impossibile per i grandi. E tuttavia
una sfida intrigante, ironica, raffinatissima, che vale la pena
di cogliere. Una sfida utile, che fa appello all'originalità
oltre i condizionamenti.
“Ex-designer” per sua stessa definizione, Martí
Guixè (classe 1964) ha studiato interior design a Barcellona
e industrial design al Politecnico di Milano ed è uno
dei più interessanti critici dello styling contemporaneo.
Si ostina infatti a credere che l'oggetto non sia una funzione
e basta, ma possa e debba farsi nostro attraverso “brillanti
e semplici idee di una curiosa serietà”. Una specie
di rivoluzione, insomma. Che presuppone consapevolezze elitarie.
Di gente libera, ben distante dagli intruppamenti odierni.
Il tema del cibo rientra negli interessi di Guixè dal
1995 e la sua, a mio modo di vedere, è una scelta di
campo molto opportuna, di un eccezionale portato simbolico.
Si pensi soltanto, per esempio, al dibattito tuttora in corso
sugli ogm. Ma anche, per restare in un ambito legato all'infanzia,
al problema del sovrappeso dei bambini e degli adolescenti.
Cos'è il cibo? Qual è l'immaginario che vi associamo?
Di più: esiste in merito la possibilità di un
immaginario “altro”? Guixè parte per il suo
viaggio con bagaglio leggero e antenne speciali, e sfoglia l'argomento
con acume e gentilezza. In Cake book il suo tratto sembra
dire: “Coraggio, perché non tiri fuori qualcosa
di te? Divertiti!”.
Un imperativo davvero molto impegnativo, perché se Cake
book richiede una partecipazione attiva da parte dei fruitori
(un'idea ormai consolidata nell'editoria per bambini), gli spunti
proposti – numerose varietà di dessert, tovaglioli,
alzatine, bicchieri privi di qualsiasi connotazione –
possono perfino dare il panico.
Emanuela Scuccato
Cinema/
Nero su bianco
Analizziamo
l'ultimo film di Quentin Tarantino, il western (anzi, southern)
Django Unchained, ovvero l'epopea di uno schiavo nero
nell'America pre-guerra civile che viene liberato da un cacciatore
di taglie bianco contrario alla schiavitù, il quale diventa
il suo mentore e lo aiuta a liberare la moglie ancora in catene.
È possibile considerarlo un film del filone “black
image in protective custody”? È questo il titolo
di un saggio del critico americano Ed Guerrero, in cui, riferendosi
ad una serie di buddy movies degli anni ottanta –
film con protagonista una coppia solitamente mal assortita,
ad esempio poliziotto e criminale che gli deve dare una mano
o poliziotto serio e poliziotto scapestrato – egli analizza
l'immagine del personaggio di colore di volta in volta protagonista
di questi film. Per citarne due su tutti, enormi successi commerciali
di Eddie Murphy di inizio ottanta: 48 ore e Beverly
Hills Cop. In queste pellicole il protagonista nero è
sempre “accompagnato” da dei bianchi. Nel primo
caso, il rude poliziotto Nick Nolte che costringe il galeotto
Murphy ad aiutarlo in una caccia all'uomo; nel secondo, i simpatici
e un po' pasticcioni poliziotti di Beverly Hills Reinhold e
Ashton che devono controllare le mosse di uno spericolato detective
di Detroit – sempre Murphy.
In questi film, sostiene Guerrero, il personaggio nero è
inserito in un discorso narrativo che ne consente l'emersione
come “eroe” (o anti-eroe che però aiuta l'eroe
[48 ore]) solo a patto di essere la spalla o avere come
spalla dei bianchi che rappresentano il sistema. Questi sono
infatti poliziotti, e anche se rudi come il Nolte di 48 ore
sono comunque la Legge – “il bene” –
che dà la caccia ai fuorilegge –“il male”.
Quando anche Murphy è un poliziotto, lui è lo
sregolato e tocca ai pazienti cops bianchi stargli dietro
come babysitter. È come se questi film dicessero: “ti
lascio emergere, ma decido io dove collocarti e ti tengo d'occhio”.
Dei discendenti, se vogliamo, del capostipite del genere blaxploitation,
Shaft il detective, nel quale il protagonista Richard
Roundtree, un investigatore privato di colore, si destreggia
tra poliziotti bianchi che se lo tengono buono per sapere cosa
succede nel ghetto e mafiosi neri che lo vogliono assoldare
per una missione. Il poliziotto bianco Charles Cioffi è
qui un italoamericano bonaccione che “vuole impedire un
bagno di sangue ad Harlem”, e alla fine, pur facendo a
modo suo, Shaft gli dà la dritta su dove trovare i criminali
(o quel che ne resta) da lui cercati. In altre parole, collabora
con l'autorità. Ancora una volta l'outsider nero
in realtà non mette in discussione veramente le regole
del sistema.
È possibile inserire Django Unchained all'interno
di questo filone ideologico? A mio avviso, no.
In Django la spalla bianca dell'eroe è il raffinato
quanto letale cacciatore di taglie Cristoph Waltz.
Tedesco, emigrato in America dopo aver abbandonato la sua professione
di dentista per cercare fortuna come bounty hunter, il
dottor King Schultz – questo il nome del personaggio di
Waltz, con richiamo immediato a Martin Luther King – dall'inizio
alla fine del film uccide schiavisti bianchi, libera schiavi
neri (tra cui Django, interpretato da Jamie Foxx) e impartisce
lezioni di classe (e cultura) a feroci e ignoranti proprietari
di piantagioni. Quanto di più lontano dai poliziotti
che cercano di contenere e “normalizzare” i blacks
con cui hanno a che fare visti all'interno delle pellicole precedenti.
Il dottor Schultz libera, acquistandolo, Django, ma contestualmente
uccide anche i suoi padroni bianchi. La conquista della libertà
è battezzata nel sangue, e sangue continuerà a
essere versato per tutta la durata del film dall'eroe nero e
dal suo mentore bianco. Sangue di schiavisti ma anche di “semplici”
fuorilegge, perché il dottor Schultz, e poi lo stesso
Django quando si unirà a lui come aiutante, in quanto
cacciatore di taglie è un “rappresentante del sistema
penale degli Stati Uniti d'America”. Anche lui quindi,
come i poliziotti bianchi trattati in precedenza, è un
pezzo del sistema e, culmine del paradosso, lo stesso ex schiavo
nero Django lo diventerà (come l'Eddie Murphy poliziotto
di Beverly Hills Cop). Ma, a differenza dei buddy
movies degli anni ottanta, o di Shaft, qui il bianco
che rappresenta la Legge offre al nero la possibilità
di farsi una coscienza sulla canna del fucile, e di prendersi
qualche bella rivincita sui suoi oppressori.
Schultz non controlla e non contiene Django, anzi, gli permette
finalmente di esplodere e scatenare la sua giusta ira.
La prima esecuzione di Schultz che vediamo è inoltre
quella di uno sceriffo. Tarantino qui impallina il western classico
e “all american” alla John Wayne e si mette decisamente
dalla parte degli anti eroi, tutti bastardi che non cercano
gloria, di leoniana memoria, da Per un pugno di dollari
a Giù la testa.
Quando poi Schultz, discutendo con Django le sue prospettive
future, gli dice che per l'ex schiavo, “libero o no”,
sarebbe comunque troppo pericoloso andare in Mississippi, ci
troviamo di fronte a un'aperta critica al sistema, che pure
viene “usato” da Schultz. L'emancipazione formale
offerta dalla legge attraverso l'acquisto monetario della libertà
è in realtà ben poca cosa rispetto alle condizioni
reali del contesto sociale in cui Django si muove, e in cui
il razzismo è endemico e strutturale, perché a
fondamento dello stesso modo di produzione di quell'epoca –
e cioè a fondamento della fortuna economica dell'America
stessa, che le permetterà di affermarsi come superpotenza
di lì a qualche decennio. Un pezzo di carta attestante
il proprio status di “uomo libero” non protegge
certo dalle pallottole dei razzisti bianchi.
In una sequenza molto divertente, membri del Ku Klux Klan vengono
raffigurati come bambini scemi e capricciosi. Questa sequenza
avrà certo sollevato critiche da parte degli adepti del
politically correct, per i quali sarebbe stata probabilmente
più corretta una rappresentazione disumanizzante dei
membri del Kkk, ma in realtà essa coglie nel segno, perché
ci mostra benissimo i tratti caratteristici dell'atteggiamento
razzista, stupidità e ignoranza, e li mette alla berlina.
E alla berlina, in Django, viene messo l'intero sistema
socio-economico-culturale basato sullo schiavismo. Non solo
i bianchi, ma anche i neri collaborazionisti. Dagli Head
house nigger – il personaggio di Steven interpretato
da uno strepitoso Samuel Jackson, più fedele di un cane
al suo padrone, e infatti sarà lui a smascherare Schultz
e Django penetrati in incognito a Candyland, la piantagione
dell'orrendo schiavista Di Caprio – ai negrieri neri,
come il personaggio che Django deve interpretare per intrufolarsi
a Candyland dove è tenuta ancora in catene la sua amata.
È tutto il sistema che deve saltare, compresi e forse
in primis quei neri che lo fanno funzionare seppellendo la propria
coscienza e vendendosi al padrone bianco per un piatto di lenticchie
un po' più grosso di quello che viene dato agli altri.
E infatti alla fine Django, pur avendo già liberato la
moglie, torna a Candyland per uccidere tutti, e in modo più
doloroso degli altri Steven, e far saltare in aria tutta la
baracca.
Anni luce di distanza, quindi, dagli stereotipati e innocui
buddy movies degli anni ottanta, o da quello Shaft
in cui un nero apparentemente supercool semplicemente
manipola ma non sovverte le regole di quel gioco che lo vuole
comunque subalterno al potere bianco.
E infine, anche la critica a Tarantino da parte del regista
black Spike Lee, autonominatosi portavoce dei neri con una coscienza,
secondo cui Django Unchained sarebbe insultante nei confronti
della “sua” gente perché la schiavitù
fu un olocausto e non uno spaghetti western, non regge. Perché
è una critica ancora tutta interna al politically correct
e alle rappresentazioni cinematografiche che evidentemente,
secondo Lee, dovrebbero esserne imbevute, mentre Tarantino se
ne frega come se ne è sempre fregato, intuendo che, forse,
ammantare di “correttezza politica” la rappresentazione
della violenza del sistema è il miglior modo per nasconderne
le contraddizioni e, quindi, perpetuarlo.
Michele Lembo
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