Esquel (Agentina)/
Ma l'acqua vale più dell'oro
Tra i tanti movimenti composti da comunità che si uniscono
per opporsi a un progetto di sfruttamento della natura, il movimento
No a la Mina è uno tra i più vasti, determinati
e organizzati. Conosciuto e sostenuto in tutta l'America Latina,
il movimento è nato in Esquel, città di solo 80.000
abitanti, situata ai piedi della precordigliera andina, un centro
importante della selvaggia Patagonia argentina.
Negli anni della crisi economica, lo stato argentino emanò
una serie di leggi e agevolazioni fiscali per favorire l'industria
mineraria, aprendo così i cancelli all'arrivo di compagnie
straniere, che estrassero le ricchezze minerarie presenti nel
territorio argentino. L'obiettivo è stato senz'altro
raggiunto, visto che oggi in Argentina si contano oltre 150
progetti di estrazione mineraria.
A Esquel in particolare arrivò l'impresa canadese Merdian
Gold, pronta ad aprire una miniera a cielo aperto per estrarre
l'oro dai monti di Esquel. Se inizialmente, per disinformazione
o per passività, la cosa non suscitò particolare
malcontento nella città, presto le cose cambiarono. Un
gruppo di attivisti riuscì a inoltrarsi in un'area controllata
dalla compagnia mineraria e a filmare delle immagini incredibili:
il fiume era passato dalla sua naturale colorazione azzurra
a uno spaventoso colore giallo. Il video del rio amarillo
(fiume giallo) fece presto il giro della città e dell'intera
provincia del Chubut, e i cittadini di Esquel – per la
maggior parte persone trasferitesi lì per godere la tranquillità
e la salubrità della vita patagonica – aprirono
gli occhi e cominciarono a organizzarsi, autoconvocando riunioni
di vicinato, adottando la formula “vicini informano vicini”.
Al grido “el agua vale mas que el oro” (l'acqua
vale più dell'oro) tutta Esquel cominciò a informarsi
e informare riguardo le spiacevoli conseguenze del progetto
minerario, presto denominato dai cittadini “el saqueo”
(“il saccheggio”).
I motivi di maggior preoccupazione riguardavano naturalmente
i danni ambientali e la salute degli abitanti. Tra i pericoli
più seri, quello dei drenaggi acidi, ovvero la formazione
nell'acqua di acido solforico, dovuto alla liberazione del solfuro
contenuto dalla roccia: i drenaggi acidi sono altamente inquinanti
e richiedono decenni o addirittura secoli prima di sparire.
Simile il discorso per i metalli pesanti, anch'essi contenuti
nella roccia e liberati tramite l'attività mineraria:
non potendo essere smaltiti dagli esseri viventi, si accumulano
nell'organismo, con effetti nocivi perfino sul sistemo nervoso.
Altro grave problema ecologico è quello dovuto all'uso
massivo di cianuro come mezzo per estrarre l'oro dalla roccia;
viene utilizzato perché altamente economico (con una
tonnellata di cianuro, costo 1.500 dollari, si possono estrarre
fino a 6 kg di oro, per un valore di oltre 140.000 dollari).
Ciò che alle compagnie minerarie non importa però,
è che il cianuro è altamente tossico: una quantità
di cianuro equivalente a un chicco di mais è sufficiente
per uccidere un uomo adulto. Ultimo, ma non per importanza:
in un solo giorno di estrazione mineraria vengono consumati
milioni di litri di acqua (senza che la compagnia mineraria
debba pagare alcuna tassa per l'uso).
|
Marcha del movimento No a la Mina |
Come se non bastassero i danni ambientali, i cittadini di Esquel
si sono presto resi conto che lo sviluppo economico promesso
dai fautori del progetto minerario non è reale, in quanto
quasi tutta la ricchezza finisce per arricchire i già
ricchi paesi stranieri; anzi, al contrario, questa attività
economica non sostenibile va a danneggiare enormemente le attività
economiche sostenibili che si praticano in Chubut, come l'agricoltura
e l'allevamento. Attività che danno impiego a molte più
persone di quelle che sarebbero impiegate nella miniera.
Come il rio Chubut, che nasce nella cordillera che sovrasta
Esquel e prosegue fino al Pacifico attraversando in larghezza
tutta l'Argentina, così il movimento No a la Mina è
presto arrivato ben oltre la città di Esquel. L'intero
Chubut si è reso conto che il problema è anche
loro e la solidarietà non è mai mancata, sia a
livello nazionale che internazionale; oggi il sito web del movimento
(noalamina.org) è uno dei principali punti di riferimento
per informazioni e ricorsi contro ogni progetto di sfruttamento
minerario presente al mondo.
Il 4 di dicembre del 2002 la piazza principale di Esquel si
riempì di cittadini che marciarono per gridare il loro
“no” al progetto minerario. Da allora, ogni quarto
giorno di ogni mese, Esquel scende in strada con una marcha
che attraversa il centro della città a suon di tamburi,
slogan cantanti, bandiere al vento, molte delle quali sono bandiere
mapuche. Ogni marcha si conclude con un'assemblea, dove
gli interventi sono aperti a tutti, per informare e per organizzare
le prossime tappe della protesta. In più di dieci anni
di lotta si sono visti anche momenti memorabili: immaginate
oltre un migliaio di persone marciare sfidando il freddo e le
intemperie dell'inverno patagonico.
La determinazione della protesta in Esquel ha portato il governo
a concedere un sondaggio ufficiale, nel quale i cittadini erano
chiamati a esprimere il loro sì o il loro no al progetto
minerario. Era il 23 marzo del 2003. Il risultato non lascia
spazio a dubbi di alcun tipo: un netto 81 per cento ha scelto
per il no. In seguito ai risultati del plebiscito, Esquel venne
dichiarato “municipio non tossico e ambientalmente sostenibile”;
le attività industriali e minerarie che richiedessero
l'uso di sostanze tossiche vennero proibite, e le zone montagnose
situate all'interno del municipio vennero dichiarate “aree
paesaggistiche protette”. (ord. 33/03)
Per di più una legge provinciale proibì in tutto
il Chubut “l'attività metallifera nella modalità
a cielo aperto e l'utilizzo di cianuro nei processi di produzione”.
La vittoria del movimento No a la Mina è stata un'inequivocabile
dimostrazione del potere che può esercitare il popolo:
l'azione congiunta di tutta la popolazione, unita e decisa,
vale di più degli interessi delle multinazionali e dei
politici.
Ma nonostante il plebiscito e il chiaro verdetto della città
di Esquel, le compagnie minerarie continuano a cercare il modo
per far partire il “saccheggio”; per questo i cittadini
non hanno mai abbassato la guardia, continuano a riunirsi, a
informare, anche appoggiando e collaborando con altre comunità
che si trovano ad affrontare situazioni simili.
E la “guerra” non si può considerare finita,
perché se a Esquel non manca la determinazione dei cittadini
contro questo assurdo progetto di sfruttamento della natura,
non manca nemmeno l'ostinazione del potere nel suo processo
di disinformazione, false promesse e repressione. Per di più,
la famosa legge anti-terrorismo emanata nel 2012 dallo stato
argentino, ha di fatto trasformato in terroristi perseguibili
penalmente anche questi liberi cittadini, preoccupati per la
loro acqua e la loro salute.
Curiose e interessanti sono le iniziative promosse dal movimento
No a la Mina in Esquel, oltre alle riunioni autoconvocate di
vicinato, che sono tuttora il cuore della protesta. L'assemblea
mensile “ufficiale” di tutto il movimento Esquel
è pubblica, aperta a tutti, e viene trasmessa integralmente
in diretta da Radio Kalewche, una radio libera fondata da Asociacion
Mapu, un'associazione che offre appoggio al popolo mapuche.
Ognuno può ascoltare alla radio tutti gli interventi
e le decisioni dell'assemblea e qualora non fosse d'accordo
può telefonare o uscire di casa e andare a dire la sua.
Inoltre, nel marzo 2012, durante la celebrazione dell'anniversario
del plebiscito, tra le varie iniziative venne organizzato una
sorta di festival, il cui fine era mostrare nella pratica tutte
le attività sostenibili che sono non solo possibili ma
auspicate da tutti; ciò per dire che dietro a un “no”
c'è sempre un “sì” ad altre cose,
ed è un “sì” consapevole e determinato
tanto quanto il “no”.
Michele Salsi
Cile/
Quarant'anni dopo
Siamo al quarantesimo anniversario del colpo di stato in Cile
che portò al potere il dittatore Augusto Pinochet, mettendo
fine al governo di Unità popolare e anche a un movimento
di lavoratori, contadini, studenti e Mapuche che a loro volta
avevano messo in atto un progetto autogestito e libertario.
(...)
Il popolo cileno, i lavoratori, gli studenti e i Mapuche avevano
un'idea tutt'altro che accomodante nei confronti del capitalismo
cileno, delle multinazionali e dell'imperialismo militare. In
quei tre anni ci sono state organizzazioni popolari e di base
che hanno portato avanti un progetto libertario e autogestito
che intendeva veramente espropriare e autogestire tutti i mezzi
di produzione e attuare una vera riforma agraria che consegnasse
ai contadini la terra e che mettesse a disposizione di tutti
i cittadini le risorse ricavate dalle materie prime (rame) contestando
fortemente il programma riformista di Salvador Allende.
Dall'altra parte il governo di Unità popolare dopo aver
fatto credere ai cileni e all'opinione pubblica internazionale
che il loro era un progetto socialista. Solo i lavoratori, i
contadini, i baraccati, gli studenti e i Mapuche lottavano con
convinzione e determinazione per l'interesse generale del popolo
e sperimentavano in molti casi forme di lotta autogestita e
libertaria occupando fabbriche, espropriando i latifondisti
per una vera riforma agraria e mettendo in autogestione la distribuzione
dei generi alimentari, spropriando tutte le grandi compagnie
di distribuzione e di vendita di alimenti, perché questi
si era fatti responsabili del mercato nero.
(...)
In diciassette anni abbiamo avuto 60mila morti assassinati dai
militari, ventimila scomparsi, 250mila esiliati, un milione
e mezzo di immigrati. Nel 1980 i militari hanno fatto la propria
costituzione che è la carta costituzionale del Cile.
Il Cile è l'unico paese dell'America Latina ad avere
ancora oggi una costituzione militare vigente.
Dal 1990 a oggi si sono susseguiti al potere i democristiani,
i socialisti e la destra, ma per i cileni non è cambiato
assolutamente nulla. Tutte le risorse naturali del paese sono
state privatizzate e oggi sono in mano alla borghesia cilena
e alle multinazionali. La riforma agraria è stata cancellata
e migliaia di contadini non hanno la terra. La terra dei Mapuche
è stata data alla multinazionale della cellulosa, il
loro territorio è stato militarizzato. Centinaia di Mapuche
sono finiti in carcere per difendere la propria terra. Il Cile
non riconosce nessun diritto ai Mapuche; nonostante la loro
opposizione e la rivendicazione del proprio territorio lo stato
cileno li ha cacciati in un angolo sempre più piccolo. (...)
Comitato lavoratori cileni esiliati
Marocco/
Il segreto per diventare un uomo libero
Il Maghreb per chi vive in Europa rappresenta un mondo così
vicino eppure così lontano, non solo per la natura, ma
anche per il modo di vivere, e l'Africa è davvero lontana,
soprattutto perché l'Africa è un posto dove si
può essere ancora liberi.
Dopo un paio di settimane spese sulla costa atlantica del Marocco
decidiamo di perderci nell'Anti-Atlas. Attraversiamo infiniti
altipiani circondati da montagne rosse, di terra arida, così
arida da essere bellissima. Si annusano atmosfere da deserto,
tende berbere lungo la strada, nomadi accampati con il loro
gregge, e fuochi accesi per la sera.
Andiamo a Tafrarout per cercare un posto dove dormire. In 4/5
ore di viaggio non abbiamo incrociato nessuno, se non due vecchissimi
mercedes pieni di persone, e un paio di camion tenuti insieme
con lo spago. Abbiamo negli occhi il color miele del tramonto
e capisco perché sono di nuovo qui in Marocco. Ci sono
posti che ci chiamano, e anche se già visitati ci chiedono
di ritornare.
Il Marocco è uno stato dove convivono diverse etnie.
In fondo quelli che noi chiamiamo marocchini non esistono, sono
una costruzione di un mondo fatto di stati, e non, come mi piacerebbe,
di popoli.
Tra le etnie che vivono in Marocco quella che più mi
affascina è quella dei berberi, uno degli ultimi popoli
nomadi. Integrati con gli arabi, i berberi vivevano tra l'attuale
Marocco e l'Egitto prima che gli arabi colonizzassero queste
terre.
I berberi parlano una loro lingua, il tamazight: nel
sud del Marocco è facile incontrare persone che lo parlano
come prima lingua. Nella loro lunghissima storia i berberi,
o meglio gli amazigh (Il femminile, tamazight,
viene appunto usato per designare la lingua berbera) non hanno
mai fatto guerre di conquista, solo vittoriose resistenze. Gli
amazigh sono stubborn (caparbi) come i posti dove vivono,
infatti vivono camminando tra il deserto e l'oceano, e non a
caso imazighen, plurale di amazigh, significa “uomini
liberi”.
Gli amazigh quando hanno bisogno di soldi vendono tappeti, gioielli
o formaggio nei suk delle città che incontrano.
Adoro i suk: si acquista cibo, vestiti, gioielli, prodotti che
gli artigiani fabbricano sotto gli occhi dei clienti. Sono luoghi
nei quali pulsa la vita.
Quando cammini per un suk gli artigiani del luogo ti guardano
da lontano, e da come sei vestito o ti comporti sanno da dove
vieni, quindi che lingua devono usare. Ti studiano senza farsi
capire, pensano a quale frase usare quando gli passerai vicino,
sanno capire se è un buon investimento offrirti del tè.
Da quello che guardi intuiscono quali possono essere i tuoi
bisogni.
Sanno che ti fermerai, e tu ti fermi. Non puoi non fermarti
a guardare come tessono nel loro laboratorio la lana, cuciono
la pelle, modellano la ceramica, battono il ferro. I lavori
artigianali sono qualcosa che mi affascina, mi incuriosisce.
In una società come la nostra dove sembra che conti solo
la testa, saper usare le mani per costruire qualcosa ha un che
di magico.
Se compri un cappellino, non acquisti solo un indumento, ma
apprezzi il lavoro che ci sta dietro, la fatica per produrlo,
il fatto che è un pezzo unico. E quel lavoro lo puoi
vedere, si consuma nel laboratorio nel quale sei entrato. Il
prezzo è una conseguenza, tanto che non ha bisogno di
essere esposto, e varia in base al materiale, la lavorazione,
la dimensione, le ore di lavoro, e soprattutto il cliente. Dipende
da quanto sei simpatico e quanto ci sai fare. Acquistare in
un suk non significa passare alla cassa, acquistare significa
contrattare, è un'arte che presuppone doti recitative
e capacità economiche.
Se non sai quanto costa un kg di pane lascia perdere, non hai
termini di confronto, rischi di farti del male. Puoi sempre
applicare la teoria dell'1/3 ma non sempre ti permette di valutare
correttamente un affare, e comunque puoi offendere. Quelli che
odio sono i “biancovestiti”, tipicamente hanno una
camicia bianca, i bermuda e indossano cappelli di paglia. Loro
hanno i soldi e non contrattano, o se lo fanno è solo
per far vedere agli amici quanto sono bravi. Comunque, in un
modo o nell'altro, rovinano la piazza.
|
Tappeti in vendita nella bancarella di un suk |
A Trafarout non volevo comprare un tappeto, l'avevo già
comparato un anno fa a Fez.
Ma mi aspettava e quindi: inshallah.
È stata una trattativa estenuante, durata ore. Abbiamo
parlato dell'Italia, del Marocco, della crisi, della politica,
del Ramadan. Abbiamo bevuto due tè. Ho fatto per andarmene
due volte. Ho conosciuto la moglie e i figli. Abbiamo srotolato
il negozio di tappeti, ma avendone ben chiaro uno in particolare.
Per Mohammed era chiaro sin dall'inizio che l'avrei preso, ma
si parlava di lui parlando degli altri tappeti. Che tecnica
di vendita sofisticata! Hanno perfino istituito un kindergarten
(giardino d'infanzia) per tenere a bada i bambini.
Nussardim, un amico marocchino che ho conosciuto a Lisbona,
mi ha spiegato che prima di negoziare sul prezzo occorre che
chi vende scenda almeno tre volte.
Qui vale tutto, ma soprattutto occorre recitare: “Non
ho soldi”, “Sono alla fine delle vacanze”...
Solo dopo il terzo ribasso di chi vende è sensato fare
una contro offerta. Deve essere più bassa di quello che
si vuole spendere. A questo punto se il prodotto viene messo
via è inutile proseguire, la cosa può avere solo
due sviluppi: la trattativa si è chiusa con un niente
da fare e qualche parola araba, oppure quando si farà
per andare via si verrà inseguiti dicendo che va bene
e il venditore fingerà di essere arrabbiato. In questo
secondo caso l'affare l'ha fatto decisamente chi vende, ma ti
vuole dare l'impressione di aver vinto.
Se invece la trattativa continua allora occorre essere capaci
di tenere il prezzo. Tipicamente chi vende prova a farti vedere
quale prodotto puoi comprare al prezzo che hai proposto, oppure
aggiunge merce per rendere la cifra più interessante.
È qui che occorre tirare fuori le migliori doti di negoziazione.
Troppo spesso bollata con disprezzo, la contrattazione è
arte e rende i posti vivi.
Da noi i prezzi devono essere esposti in vetrina per legge.
Dietro le vetrine generalmente ci sono ragazze carine che con
un sorriso ti dicono che se hai bisogno di qualcosa puoi chiamarle.
Tutto è esposto su scaffali ed è a prova di cretino.
Non devi nemmeno essere capace di sommare, intanto paghi il
mese prossimo, devi essere capace solo di strisciare la carta
di credito.
Davanti a un laboratorio si rimane affascinati, come intontiti.
Ci vengono mostrati i passaggi dal prodotto grezzo a quello
finale. I prodotti sanno delle mani che li hanno lavorati. Gli
scaffali dei nostri negozi nascondono esattamente questa meraviglia,
la uccidono nelle ingiuste fabbriche del sud-est asiatico. Questa
dimensione prima di essere economica è sociale. Il luogo
dove si commercia è un luogo d'incontro tra persone,
e noi l'abbiamo ridotto al nonluogo dei centri commerciali.
Odio i centri commerciali, ogni volta che ci entro è
come se uccidessi un pezzo d'umanità, quella che si nutre
di relazioni tra persone.
Sono a Tarfaya a riposarmi, un posto sperduto tra l'oceano e
il Sahara. Per arrivarci abbiamo dovuto percorrere una strada
che a tratti era coperta da dune di sabbia. Tarfaya era dove
Saint-Exupery veniva a riposarsi dopo aver sorvolato il deserto
con il suo biplano. Nell'unica via della città soffia
il vento che alza la sabbia, muove le lamiere e rotola oggetti
sulla terra. Gli abitanti del posto riposano aspettando il tramonto,
quando il Ramadan gli permetterà di bere e mangiare.
C'è un caffè con wifi, carico qualche foto su
istagram e aggiorno i miei appunti. Navigando su internet scopro
che su berberi.com hanno pubblicato una posizione:
“We are looking for a guy 43 years old, he must love desert
life. His duties are: goats sheppard and carpets maker. Skills
required: funny stories writer. We offer the secret to become
a amazigh. (Stiamo cercando un ragazzo, età 43 anni,
deve amare la vita nel deserto. I suoi compiti sono: pastore
di capre e artigiano dei tappeti. Capacità richieste:
scrittore di storie divertenti. Offriamo il segreto per diventare
un amazigh, “un uomo libero”). Ho applicato... inshallah.
Gianluca Luraschi
gianluca.luraschi@gmail.com
Carrara/
Largo Ugo Mazzucchelli
Ugo Mazzucchelli (1903-1997) è stata una delle figure
più note del movimento anarchico a Carrara nello scorso
secolo. In particolare per il suo ruolo durante la lotta
antifascista e nell'immediato dopoguerra. Uomo d'azione, ha
legato la propria vita in quegli anni anche ad azioni clamorose
(quali la fuga dal carcere di Massa), a un'intensa attività
militare contro le truppe nazi-fasciste, e ricoprì tra
l'altro l'incarico di “esattore”, per un prestito
forzoso presso i benestanti della zona, per riscuotere i contributi
risultati infine volontari, in favore della lotta partigiana.
Nel secondo dopoguerra, con la Cooperativa del Partigiano e
altre iniziative, fu tra i protagonisti dell'attivismo degli
anarchici locali per la ripresa della vita sociale ed economica
dell'area apuana. Esponente della Federazione Anarchica Italiana,
fu attivo in numerose iniziative e associazioni, tra cui quelle
dei partigiani (in particolare la Federazione Italiana delle
Associazioni Partigiane, Fiap). Furono dovuti alle sue iniziative,
il monumento ad Alberto Meschi, a Gaetano Bresci, a Franco Serantini
a Pisa e il monumento a tutte le vittime del fascismo, con la
partecipazione della Fiap e il patrocinio del Comune di Carrara.
Negli ultimi tempi sono state proprio le due associazioni partigiane
Anpi e Fiap ad essere tra i promotori di una raccolta di firme
e di altre iniziative per l'intestazione, in città, di
una via o di una piazza a due comandanti partigiani, rispettivamente
l'anarchico Ugo Mazzucchelli e il comunista “Memo”
Alessandro Brucellaria.
A Carrara, dove già ci sono via Camillo Berneri, via
Gino Lucetti e piazza Sacco e Vanzetti, è stata
deliberata la titolazione di un largo a Ugo Mazzucchelli con
il relativo assenso da parte della prefettura, ultimo atto necessario
per procedere ormai alle definitive e prossime inaugurazioni.
Abbiategrasso (Mi)/
In difesa del Pagiannunz
Se in una domenica illuminata dal sole primaverile Milano
vi sembrasse ancora troppo grigia prendete la bicicletta e percorrete
l'alzaia del Naviglio Grande; strada facendo incontrereste una
cittadina chiamata Abbiategrasso. A 20 km dalla Darsena, con
i suoi 30.000 abitanti, è conosciuta soprattutto per
il Castello Visconteo eretto nel 1382.
Proprio qui tra circonvallazioni, strade provinciali e fabbriche
abbandonate al degrado sorge un'area in cui la natura ha voluto
prendersi gioco di provetti lottizzatori e costruttori esaltati:
un luogo da cartolina, per i più romantici, un vero e
proprio rifugio per la fauna selvatica. L'area è alimentata
dalla roggia Cardinala, che porta acqua alle terre in questione
e che a lungo andare ha creato un'area umida di grande valore
ambientale, dove vivono specie protette che dovrebbero essere
tutelate da direttive europee, nazionali e regionali. Tantissimi
gli animali che abitano queste terre: tritoni crestati, rospi
smeraldini, raganelle, orbettini, natrici dal collare, biacchi,
germani reali, barbagianni, aironi rossi, cavalieri d'italia
e aironi cenerini.
Quest'oasi urbana è affettuosamente chiamata “Pagiannunz”
(Parco Giardino dell'Annunziata, dal nome dell'antico convento
che sorge alle sue spalle) dai cittadini che da un anno a questa
parte stanno cercando di difenderla attraverso la creazione
del Comitato per la difesa del territorio abbiatense. Infatti
l'area è al centro di un grande progetto di urbanizzazione:
il Pgt prevede che su quest'angolo di mondo ancora incontaminato
venga edificato un centro commerciale di 19.000 mq.
|
Abbiategrasso (Milano).
L'area umida chiamata Parco Giardino dell'Annunziata (Pagiannunz) prima dell'intervento
delle ruspe |
Quella del Pagiannunz è una triste storia che si muove
a colpi di ordinanze comunali per fermare i lavori e di conseguenti
ricorsi al Tar della società “proprietaria”
del terreno: l'Essedue di Bergamo; società che non ha
avuto esitazioni nel bloccare l'acqua, fonte di sostentamento
per l'ecosistema creatosi, e nel portare ruspe all'interno dell'area,
devastandola.
Ma ancora di più, quella del Pagiannunz è una
bella storia di lotta dal basso, di persone volenterose e coraggiose
che non hanno voluto accettare la distruzione del proprio territorio,
che non si sono piegate davanti all'illusione del falso benessere
portato dal cemento e dall'urbanizzazione e che non hanno avuto
paura davanti all'ennesima prepotenza del denaro.
Tante le attività portate avanti dal Comitato per sensibilizzare
i cittadini sul tema, ma ancora più numerose le iniziative
di dissenso nei confronti dello scempio ambientale: dai concorsi
per i bambini delle scuole abbiatensi ai presidi e ai cortei
che più volte hanno attraversato la città. L'ultimo
capitolo del Pagiannunz è stato scritto nella seconda
metà di settembre.
È giovedì 19 settembre: la proprietà si
presenta all'alba sul “luogo del delitto” armata
di avvocato e di ruspa. Le piante vengono estirpate insieme
al resto della vegetazione, l'approdo degli aironi viene devastato
e vengono scavati canali di scolo per fare in modo che l'area
si prosciughi. È un attimo e associazioni, comitati e
semplici cittadini sono pronti alla mobilitazione. Nella notte
riescono a fermare la ruspa per qualche ora, ma i “lavori”
proseguiranno fino alla mattina successiva.
|
19 settembre. Il Pagiannunz dopo la devastazione |
L'intervento delle autorità giunte sul luogo per controllare
eventuali irregolarità è praticamente inutile,
parlano di ulteriori accertamenti. Le ruspe intanto proseguono.
Al sorgere del sole non si vedranno né gli aironi volare
né si udirà il gracchiare di rospi e raganelle.
Nel frattempo un mezzo di dimensioni molto più grosse
rispetto a quelli che avevano lavorato finora nell'area giunge
sul posto a dar man forte alla distruzione.
Manca qualche ora a mezzogiorno e il comune emette l'ennesima
ordinanza per fermare i lavori in una zona di pregio ambientale.
Troppo tardi. Le scavatrici si allontanano dal Pagiannunz.
L'area umida non c'è più. Ci sono alberi tagliati,
piante estirpate, nidi distrutti, profondi solchi nel terreno,
segni di pneumatici, rifiuti di qualche ruspista affamato e
il rumore del traffico alle proprie spalle. Per la proprietà
forse tutto è pronto per la costruzione di quel discusso
centro commerciale che servirà a schiacciare le piccole
attività dei negozianti locali, prima di vederlo fallire
lasciandosi alle spalle disoccupazione e cemento.
Per la proprietà forse... ma non per coloro che da sempre
si sono opposti all'ennesimo scempio del territorio.
Forse infatti l'ultimo capitolo della storia del Pagiannunz
può ancora essere scritto: da lunedì 23 settembre,
appena quattro giorni dopo quello che si pensava essere l'epilogo
della vicenda, l'acqua è tornata a bagnare i terreni
e qualche airone è tornato a volare sul luogo del misfatto.
Quindi, se per caso in quella famosa domenica primaverile decideste
di passare per Abbiategrasso, guardate i campi arati e le fabbriche
dismesse e provate a immaginare che lì un tempo gli aironi
volavano a pelo d'acqua e che nella notte i barbagianni cantavano
alla luna. Oppure vedendo un luogo ricco di vegetazione dove
gli uccelli cantano e volano a pelo d'acqua, potete giustamente
pensare che la natura si è ripresa il suo spazio.
Camilla Galbiati
|