rock'n'roll
Con pochi soldi ma con i jeans
di Diego Giachetti
Ha senso che una rivista anarchica ricordi Little Tony?
Non era certo un “compagno”, amava le Ferrari, sembrava un simpatico tamarro, di sicuro lontano dall'impegno politico.
Eppure ha fatto parte di quel gruppo di cantanti che hanno segnato la storia del rock, almeno in Italia. Quindi...
Little Tony, alias Antonio Ciacci,
mancato il 27 maggio 2013, è stato uno dei primi a scoprire
la rivoluzione del rock'n'roll attraverso la musica e il modo
stesso di impersonarla, “vestirla” con gli appositi
abiti del rokkettaro. Il suo è stato un rock leggero
ha detto la figlia, “forse incosciente, che non ha mai
conosciuto la pesantezza della maturità” (Vanityfair.it,
4 giugno 2013), molto simile a quello di Elvis Presley, non
impegnato direttamente in denunce e proteste sociali, impolitico
dunque, nel quale il contenuto “rivoluzionario”
era unicamente affidato al corpo, alla dissacrante comunicazione
eversiva affidata alle movenze sul palco e al look. Del rock'n'roll
incarnava lo stile e la musica: il ciuffo, le giacche con le
frange, le movenze alla Elvis e anche il sound. Il suo modo
di stare sul palcoscenico assecondò quella rivoluzione
dei corpi, degli spiriti e dei cuori che era esplosa qualche
anno prima in America. Fu un interprete ma, per dirla con Gianfranco
Manfredi, “si può essere autori anche come interpreti.
Nella canzone il corpo, la presenza fisica e l'interpretazione
giusta del protagonista sono imprescindibili. Non è solo
per il testo e la musica che una canzone diventa parte del nostro
vissuto”.
È stato un cantante popolare nell'accezione fatta propria
anche da Antonio Gramsci, cioè di canzoni non scritte
dal popolo o per il popolo, ma da questo adottate perché
conformi al suo modo di pensare e di sentire.
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Rock, auto e moto: Little Tony con la sua Harley
Davidson |
In Inghilterra prima dei Beatles
Antonio Ciacci era nato a Tivoli il 9 febbraio del 1941. Nella
famiglia la musica era di casa, il padre suonava la fisarmonica
e cantava, lo zio era un apprezzato chitarrista, due dei suoi
fratelli la studiavano: chitarra e fisarmonica. Il giovanissimo
Antonio invece preferiva trascorrere il tempo libero con gli
amici scorrazzando in motocicletta. Musica e canto li scoprì
solo dall'ascolto dei primi dischi di rock'n'roll che ebbe modo
di orecchiare alla radio. Fu quello l'inizio del suo apprendistato.
Maestra fu l'esperienza. Cantando e suonando imparò facendo.
All'età di tredici anni, quando era apprendista orefice
– ricordava – andavano “i dischi di Perez
Prado, i mambi. Le canzoni di Luciano Tajoli, Claudio Villa,
Nilla Pizzi. L'avanguardia erano Marino Marini e Renato Carosone.
Poi, all'improvviso, arrivarono dischi con una musica incredibile:
in crescendo, Banana boat di Harry Belafonte, Only
you dei Platters e finalmente il rock: Tutti frutti,
cantata da Little Richard”.
Imparò a imitare Little Richard e Bill Haley, usando
testi creati in inglese maccheronico. A sedici anni imboccò
la via del cantante per caso. Era con suo padre che stava cantando
canzoni romantiche e napoletane in un ristorante di Grottaferrata.
Una comitiva di turisti americani chiese di ascoltare del rock'n'roll.
Tony si lanciò e cominciò a cantare con i fratelli.
Piacque. Gli americani lasciarono 30mila lire di mancia, una
cifra esorbitante per l'epoca. Il padre colse il significato
di quell'evento, comprò chitarre per i figli e disse
loro: “da domani farete questo mestiere”. Sull'onda
del “successo” riscontrato Tony formò una
band assieme ai suoi fratelli e iniziarono a esibirsi in trattorie,
ristoranti, balere e teatri d'avanspettacolo.
Il 18 maggio del 1957 fu tra i partecipanti al primo festival
del rock'n'roll che si tenne a Milano al Palazzo del Ghiaccio,
con Adriano Celentano, Betty Curtis, Tony Renis e altri ancora.
Si accalcarono settemila giovani “fanatici del rock”
che sembravano impazziti e le jeep della celere dovettero caricarli
più volte per disperderli. Il quotidiano cittadino Il
Giorno del 20 maggio 1957 dedicò ampio spazio all'evento.
Descrisse un pubblico volgare, poco colto (pochi studenti, molti
garzoni di macellai, salumieri, droghieri), raccolto in un ambiente
disadorno (palco rosso e polveroso, la luce gialla e squallida),
le ragazze sedute sguaiate sulle sedie di legno, i riccioli
duri sulle guance, i golfini ridotti al minimo, una pizza o
una fetta di salame in bocca.
Il ghiaccio però era rotto, nel 1958 e nel 1959 si organizzeranno
altri festival. Fu in occasione di uno di questi che al Teatro
Smeraldo di Milano fu notato da un impresario inglese che lo
convinse a partire con i suoi fratelli per l'Inghilterra. Là
nacque il gruppo Little Tony and his brothers. Aveva sedici
anni quando approdò a Londra, senza una lira e senza
sapere una parola d'inglese. La band era una delle tante formazioni
che emergevano nella Londra pre-Beatles. Incisero una serie
di brani fra cui Lucille, Shake rattle and roll,
Too Good, scritta da uno degli autori dei testi di Elvis
Presley, che si piazzò fra le prime venti nella classifica
dei dischi più venduti.
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Con i fratelli in Inghilterra |
Sgomitatore di rock'n'roll
Rientrato in Italia con pochi soldi, come ebbe a raccontare,
ma con i jeans, il giubbotto di pelle alla Marlon Brando e gli
occhiali da sole, iniziò a girovagare di locale in locale.
Una vita in salita, difficile. Avrebbe voluto continuare a cantare
solo testi in inglese, ma la casa discografica milanese Durium
impose tutt'altro contratto: se si fosse ostinato a cantare
solo in inglese lo avrebbe strappato. Accettò il compromesso
e iniziò la sua carriera artistica nell'ambiente musicale
italiano. Il quotidiano La Stampa il 18 giugno del 1959 lo definiva,
assieme a Celentano, un “incallito sgomitatore di rock'n'roll”,
entrambi “diretti eredi di Elvis Presley”. Come
Celentano e tanti altri egli visse la transizione tra l'urlo
del rock'n'roll degli anni cinquanta e la beatlesmania del decennio
successivo. Non a caso è ricordato tra gli innovatori
della nostra canzone, un “urlatore” di classe, capace
di imporre ritmicità e dinamicità a una canzone
che non riusciva a staccarsi dall'impostazione melodica.
Urlatori era il nome attribuito dalla stampa dell'epoca a una
corrente musicale e canora che nel nostro paese visse i brevi
anni del miracolo economico e incontrò una generazione
in cerca di identità. I “vecchi” la descrivevano
disimpegnata politicamente, attenta alle mode americane nel
campo cinematografico, musicale, dell'abbigliamento e del godimento
del tempo libero, da trascorrere al bar, gettonando nei juke
box canzoni dal ritmo incomprensibile (se non irritante) per
gli adulti. Questi cantanti e le loro canzoni nulla avevano
in comune con la tradizione melodica italiana o con quella di
protesta tipica del movimento operaio e delle leghe contadine.
Cantavano con una voce ad alto volume, priva di abbellimenti
e gorgheggi melodici. Erano “urlatori” giovani cantanti
quali Tony Dallara, Joe Sentieri, Adriano Celentano, Clem Sacco,
Ricky Gianco, Giorgio Gaber, Little Tony e, fra le voci femminili,
Betty Curtis, Jenny Luna, Mina, Angela e Mara Pacini (alias
Brunetta). La musica rock divenne fenomeno di costume, coincise
con una rivoluzione del gusto e del mercato la cui domanda si
basava essenzialmente sulle fasce giovanili. I giovani cantanti
italiani si appropriarono del ritmo, dei testi e dei modelli
del rock'n'roll e li tradussero nel linguaggio musicale nazionale.
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1961: l'anno di ventiquattromila baci |
Baci a tempo di rock
Il grande pubblico scoprì Little Tony al festival di
Sanremo del 1961 dove, in coppia con Adriano Celentano, portò
in gara Ventiquattromila baci che si piazzò al
secondo posto. Quel festival fu descritto come lo scontro tra
il gorgheggio e l'urlo, la canzone melodica italiana contro
il ritmo del juke box, il mandolino contro la chitarra. Sia
nel ritmo che nel messaggio evocato, la canzone rompeva prepotentemente
con la tradizione melodica e con le accoppiate sdolcinate di
cuore e amore, con i sentimentalismi stucchevoli o tardoromantici;
il rapporto d'amore era velocizzato: “Con ventiquattromila
baci/ felici corrono le ore/ d'un giorno splendido, perché/
ogni secondo bacio te./ Con ventiquattromila baci/ oggi saprai
perché l'amore/ vuole ogni istante mille baci,/ mille
carezze vuole allora/ Niente bugie meravigliose/ frasi d'amore
appassionate/ ma solo baci chiedo a te”. L'uso delle parole,
unito al ritmo rock, trasmetteva un'idea d'amore che riprendeva
i connotati delle filosofie vitalistiche e la cadenza espressiva
del futurismo, tesa appunto ad esaltare la velocità e
il movimento perenne: la sensazione profonda, dirompente. Fu
un successo.
Il tema dell'amore tra gli adolescenti fu ripreso da altre canzonette
di quegli anni le quali mettevano in evidenza la “nevrosi
del bacio”: “il bacio dei giovani [...] è
più che altro un fatto ritmico, addirittura un rito sportivo.
Nessun languore penetra il cantante quando parla di baci, li
evoca, li sogna”, scriveva Camilla Cederna su L'Espresso
del 7 luglio 1963. Un modo nuovo di porsi verso un tema vecchio,
quello delle relazioni amorose, che raccoglieva il germe di
ribellione che stava maturando in strati della popolazione giovanile
ma di cui diversi giovani già allora impegnati politicamente
a sinistra sembrava non accorgersene. Per loro le emozioni trasmesse
e diffuse con quelle frasi semplici e dirette apparivano poca
cosa, banalità consumistiche. Quelli che frequentavano
i cineforum, i circoli culturali, le sezioni di partito, ascoltavano
soprattutto i cantautori e consideravano Pavone, Celentano,
Little Tony e tutti gli altri dei cantanti commerciali, che
esprimevano il disimpegno e il qualunquismo. “Guardavamo
dall'alto in basso i nostri coetanei che palpitavano su quelle
note”, ricorderà anni dopo Gianni Borgna, precisando
però che in realtà anche il loro “cuore
soffriva”; e allora ascoltavano Luigi Tenco e Gino Paoli
perché con le loro canzoni sublimavano le cose che avrebbero
voluto dire e non potevano dire, prigionieri della ferrea legge
dell'impegno politico contro la futilità degli smarrimenti
adolescenziali” (C'era una volta una gatta, Savelli,
1977).
yè yè yè yè
Negli anni sessanta i giovani, che cominciavano a essere oggetto
d'interesse e di disprezzo, assieme e contemporaneamente da
parte della generazione adulta, furono battezzati dalle riviste
popolari di costume e dai giornali la “generazione yè-yè”.
Il termine aveva un'origine frivola e canzonettistica. Nella
canzone del 1961 Ventiquattromila baci Celentano e Little
Tony introducevano, a un certo punto, una ripetizione ossessiva
di sillabe poste dopo il verso “Ma solo baci chiedo a
te: yè yè yè yè”. L'anno dopo
ne Il ragazzo col ciuffo, yè yè yè
yè ritornava nel ritornello di una canzone nella quale
il nostro confessava di essersi fatto crescere i capelli non
per protesta, ma perché aveva scoperto che alle ragazze
piacevano i tipi così e voleva suscitare l'attenzione
di una lei. Stessa cosa faceva nel 1962 Gianni Morandi in Andavo
a cento allora.
Al festival di Sanremo del 1964 Little Tony, in coppia con Gene
Pitney, proponeva Quando vedrai la mia ragazza, una canzone
che, alla fine di ogni strofa, prevedeva un ritornello sillabico
che faceva “yè-yè”; e anche Rita Pavone
nel 1963, nel ritornello del Ballo del mattone rimava:
“con te, yè-yè”.
I benpensanti strillavano la loro incomprensione per tali insulsaggini,
per quelle parole prive di senso, per quei ritornelli banali,
per quei ritmi musicali che apparivano loro incomprensibili,
primitivi “africani” nel senso razzistico del termine.
Il termine venne genericamente usato per indicare i comportamenti
giovanili stravaganti, i loro balli moderni, gli strani gusti
musicali e l'idioma. Finirono con l'essere considerati ye-ye
tutti quei giovani che adottavano comportamenti anticonformistici
nel vestire, nel parlare, nell'ascoltare musica, nel ballare.
Si dovette però prendere atto, a malincuore, che quella
del rock non era una moda passeggera. Sul giornale dei giovani
comunisti, Nuova generazione del 21 luglio 1961, commentando
il festival del rock che si era tenuto in un cinema romano,
l'articolista scriveva: “lo spettacolo era tra i più
squallidi che si potessero vedere. I vari Ghigo, Little Tony,
Guidone, Lydia la Gatta non erano né contorsionisti né
cantanti: un ridicolo e spesso sguaiato agitarsi e un urlare
inutile”. Quando nel febbraio del 1965 a Roma all'Eur
quindicimila giovanissimi assistettero a uno spettacolo musicale
in cui si esibivano i Rokes, Celentano, Little Tony, Sergio
Endrigo, Modugno, Rita Pavone, il giudizio non era cambiato
più di tanto. Così scriveva Sergio Saviane su
L'Espresso del 14 febbraio: “Fischi, urla, strepiti. Più
che un concerto è stato un continuo spaventoso boato.
Impressione di trovarsi in un immenso gabbione di scimpanzé.
Erano urla di protesta, applausi all'americana (col fischio)
o urla di rabbia di rivolta sociale? Non lo si saprà
mai”.
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Raccolta dei successi degli anni sessanta |
Dopo gli anni d'oro
Gli anni sessanta furono molto generosi coi giovani cantanti.
Little Tony fu uno dei giovani emergenti. E non fu una “meteora”,
come poteva capitare. Resse e si affermò sia tra il pubblico
giovanile, che riconobbe in lui uno di quelli in grado di rinnovare
la canzone italiana, sia tra quello adulto, che lo trovò
simpatico e lo apprezzò soprattutto quando nel 1966 incise
Riderà (più di un milione di copie vendute);
Cuore matto, l'anno dopo al Festival di Sanremo e un
milione di copie vendute; Donna di picche nel 1968; Bada
bambina nel 1969; La spada nel cuore, presentata
in coppia con Patty Pravo al festival di Sanremo nel 1970. In
quegli anni fu uno dei cantanti più popolari e addirittura
un sex symbol adorato dalle ragazze che conquistava non con
sdolcinature sentimentali, ma col modo grezzo e autentico del
rock'n'roll. Un'adorazione che mai disdegnò, infatti,
come dice con garbo e discrezione la figlia, ebbe molte fidanzate.
A causa di una di loro, prosegue, saltò l'incontro fissato
col suo mito, Elvis Presley. All'ultimo disertò per via
di una ragazza che aveva incontrato. Pensava di poterne combinare
un altro, invece Elvis morì di lì a poco. Rimase
uno dei più grandi rimpianti della sua vita. Nel 1975
aveva reso omaggio al suo maestro incidendo l'album Tony
canta Elvis.
La fine del decennio sessanta chiuse anche la sua stagione d'oro
e ne aprì un'altra. Interpreti come Little Tony conobbero
un declino negli anni settanta, sostituiti dai cantautori e
dal rock progressivo italiano, generi musicali considerati più
colti, più in linea coi tempi della scoperta della politica
e dell'impegno da parte di larghe fasce di pubblico giovanile.
Apparentemente, stando alla critica colta e agli eventi musicali
narrati dai rotocalchi, Little Tony sembrava scomparso, non
se lo filava più nessuno. Il suo personaggio sembrava
un patetico ricordo di un tempo lontano e passato. Ma non era
così. Little Tony aveva sedimentato uno stile ben definito
nel gusto del pubblico e i suoi fans continuavano ad amarlo
e apprezzarlo, all'opposto della stampa “colta”
e dei salotti televisivi impegnati, che lo ignoravano o lo trattavano
con sufficienza. Lo descrivevano infatti come una copia provinciale
di Elvis e non gli perdonavano la sua vita “leggera”.
Coi suoi fratelli continuò a suonare in centinaia di
concerti e serate, girando in lungo e in largo tutta l'Italia.
Conobbe un certo successo internazionale, esportò con
la sua interpretazione il rock'n'roll italiano che, secondo
il suo stile, mescolava aspetti innovativi e ribellistici con
tradizioni tipiche della nostra cultura musicale popolare. Approdò
negli Stati Uniti e in Canada. In quest'ultimo paese nell'aprile
del 2006, durante un concerto a Ottawa, fu colpito da un infarto,
dal quale si riprese per continuare la sua carriera artistica
ormai prossimo ai settant'anni. Partecipò a vari programmi
televisivi popolari. Si lamentò a volte, col sorriso
sulle labbra, della critica che spesso era stata impietosa con
lui, ma al contempo si consolava constatando che la sua popolarità
era ancora grande. Era la considerazione discreta di un veterano
del rock'n'roll, la stessa che, probabilmente, avrebbe fatto
oggi leggendo gli articoli dei giornali che, a volte ipocritamente,
lo celebrano dopo la sua morte.
Diego Giachetti
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