r/esistenze
La città informale
di Laura Antonella Carli
Dharavi (Mumbai, India) è il regno dell'economia sommersa.
Kibera (Nairobi, Kenya) è un piccolo, efficiente angolo di libero mercato.
Gli slum come eterotopie, tra economia informale, spazi di resistenza e tentativi di assorbimento.
Il giardino persiano anticamente
era un rettangolo diviso in quattro parti – le quattro
parti del mondo, i quattro elementi – con al centro una
fontana o un tempio, e intorno esemplari della vegetazione di
tutto il mondo: tutto il mondo conosciuto in un unico, perfetto
rettangolo di terra.
Per Foucault è proprio il giardino persiano, riprodotto
sui tappeti orientali, veri e propri “giardini d'inverno”,
a essere l'archetipo dell'eterotopia, assieme a una varietà
di altri spazi che fanno del concetto un'espressione più
evocativa che definitoria – dai cimiteri agli ospizi,
dagli hammam ai teatri. Perfino il viaggio di nozze delle
fanciulle e, in genere, i luoghi di transizione.
Per il pensatore, ogni civiltà crea al suo interno degli
“spazi assolutamente altri”, luoghi che si oppongono
a tutti gli altri, la cui funzione è “cancellare,
compensare, neutralizzare o purificare” i luoghi in cui
si inseriscono, e giustapporre in un luogo reale –
in questo l'eterotopia si distingue dall'utopia – più
spazi che normalmente sarebbero incompatibili. Si tratta sostanzialmente
di contro-spazi, un concetto che, secondo Foucault, i bambini
conoscono molto bene: sono i nascondigli, le soffitte, il bosco,
la notte; persino il grande letto dei genitori. Luoghi in cui
è possibile rintanarsi, isolarsi, pensare all'altrimenti.
Anche la società adulta crea i suoi contro-spazi, le
sue utopie situate. Luoghi di evasione – il cinema,
il teatro, il villaggio-vacanze –, luoghi in cui racchiudere
il tempo – la biblioteca, il museo –, luoghi di
segregazione – il manicomio, la casa di riposo, il carcere.
Ogni società crea, distrugge, modifica le proprie eterotopie.
Ma cosa succede se dei luoghi altri sorgono spontaneamente?
È possibile per la società riassorbirli all'interno
delle sue dinamiche o deve necessariamente distruggerli? Ed
è davvero possibile che un'eterotopia sorga indipendentemente
dalla società entro cui nasce?
La città-alveare
Mumbai è la città più ricca ed elegante
dell'India. In seguito al boom edilizio degli anni settanta
è diventata la prima città al mondo per densità
di abitazione. A partire dalle liberalizzazioni del 1991 è
diventata anche la capitale economica del paese, il cuore pulsante
della nuova potenza indiana, culla di Bollywood e della nuova
borghesia cosmopolita che parla inglese e studia all'estero.
Accanto a questa economia trionfale però esiste un'economia
parallela: un brulicare di piccoli negozianti, sarti, tassisti,
venditori ambulanti: è “l'economia informale”
di Dharavi, lo slum più grande d'Asia.
L'India non ha seguito il modello di sviluppo dell'Asia orientale:
non possiede giganteschi distretti industriali, nonostante il
governo abbia cercato per anni di attirare le grandi imprese
creando zone economiche speciali. “Dharavi è una
zona economica speciale per poveri che si è creata
da sola” scrive Jim Yardley sul New York Times “che
incarna il fallimento della politica e la sua incapacità
di dare un alloggio decente ai milioni di immigrati che arrivano
dalle campagne”.
A Dharavi infatti vivono circa un milione di persone, distribuite
in 60mila abitazioni, soprattutto baracche. I vicoli sono così
stretti che in alcuni non filtra la luce del sole, i gabinetti
sono in comune e le acque di scolo scorrono attraverso canali
scoperti.
Nel bel mezzo della città-simbolo del miracolo economico
indiano, Dharavi è l'incarnazione della disuguaglianza:
una ferita nella metropoli. Ma allo stesso tempo è parte
attiva di questa economia galoppante: una città-alveare
estremamente laboriosa, che frutta una produzione annuale che
va dai 600 milioni a più di un miliardo di dollari.
Regno dell'economia sommersa, Dharavi offre un'opportunità
anche a chi non avrebbe mai potuto ottenere un finanziamento
o uno spazio per iniziare la propria attività: per questo
lo slum attira sempre nuovi abitanti, ed è talmente dedito
al business che alcuni studenti che ci abitano hanno deciso
di sfruttare la sua “alterità” organizzando
tour guidati per i turisti, per un prezzo che si aggira intorno
alle 400 rupie a testa (circa 6 euro). Non stupisce che questo
triangolo di terra cosparso di baracche di lamiera sia diventato
col tempo oggetto di piani di investimento e riqualificazione
da parte di politici e imprenditori. Un grande progetto approvato
nel 2006, attualmente ancora fermo per questioni burocratiche,
prevede la costruzione di spazi abitativi e commerciali gratuiti
per gli abitanti, ma anche la possibilità di intervento
per investitori privati e costruttori.
È l'economia ufficiale che irrompe tra le maglie dell'economia
informale per assorbire l'eterotopia.
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Kibera, Nairobi (Kenya), gennaio 2008. Un falegname
lavora alla costruzione di un mobile nel suo studio: una capanna
di lamiera ondulata |
Luoghi “fuori luogo”
Il caso di Dharavi non è isolato: più di un
miliardo di persone nel mondo vive nei sobborghi delle metropoli,
in quartieri costruiti spontaneamente e illegalmente da chi
li abita.
Gli slum possono essere molto diversi tra loro. Si va dal crawl
di Dharavi – un monolocale di 15 metri quadrati, abitato
in media da sei persone, che evoca molto bene la struttura dell'alveare
– alle note favelas brasiliane. In Perù,
e in particolare a Lima, le baraccopoli sono chiamate “pueblos
jóvenes”, ovvero “città giovani”
e le abitazioni più diffuse solo le collejones,
case con intelaiatura di legno e copertura di paglia e fango,
edificate per lo più su aree di proprietà del
maggior immobiliarista della capitale peruviana: la chiesa cattolica.
Molti slum, come quello di Algeri, sono semplicemente il prodotto
della degradazione di vecchi quartieri residenziali; altri hanno
richiesto un'inventiva maggiore, come al Cairo, dove circa un
milione di persone ha convertito in abitazioni le tombe di un
vecchio cimitero di mamelucchi.
La parola turca gecekondu significa letteralmente “costruita
durante la notte”, e si riferisce alla sola abitazione,
ma per estensione indica i quartieri totalmente abusivi. Qui
in Turchia, fino agli anni ottanta, alcuni di questi sobborghi
nati abusivamente sono stati regolarizzati con atti di proprietà
e quindi riassorbiti. Recentemente, alcuni di essi sono stati
addirittura riadattati e trasformati in abitazioni per la classe
medio-bassa.
Il giornalista Robert Neuwirth, nel suo libro Città
ombra (Fusi Orari, 2007), invita a non liquidare sbrigativamente
gli slum come luoghi di pigrizia e povertà, ricordando
tra l'altro come anche l'Upper east side di New York fosse un
tempo una baraccopoli. Secondo lui “gli slum non sono
luoghi disperati”, non possono essere definiti come “luoghi
dove finiscono i perdenti, ma incubatrici dei vincenti di domani”.
“Vero e proprio spot per l'ambizione umana” è
infatti definita dall'Economist Kibera, la più grande
baraccopoli africana, a pochi chilometri dal centro di Nairobi.
Come per Dharavi, si tratta di una città nella città,
un microcosmo vivo e variegato, in cui nessun gruppo etnico
predomina sull'altro. Se di notte può risultare pericolosa
(per essere sicuri di transitare indenni è possibile
“affittare” delle guardie del corpo masai), di giorno
è quasi totalmente dedita al lavoro. L'economia informale
di Kibera ha sviluppato proprie regole e proprie usanze. Ad
esempio il sistema delle lattine da mezzo litro, che nei bar
di Kibera sostituiscono i bicchieri: quando il prezzo del mais
aumenta, il proprietario del bar taglia una striscia a ogni
lattina; i clienti preferiscono questo metodo all'aumento del
prezzo, e non riducono il consumo.
Dello stesso avviso di Neuwirth è Mike Davis, autore
de Il pianeta degli slum, il quale, parlando del lavoro
di Neuwirth, commenta: “Gli uomini e le donne che emergono
da questo spaccato di vita sono i veri costruttori del nostro
futuro urbano globale”.
Tralasciando il tono da film yuppie americano dei due scrittori
(il quartiere degradato che conquista la sua fetta di felicità
attraverso la produzione e il consumo) il dato è interessante:
sobborghi come Dharavi e Kibera “fanno muovere l'economia”
attraverso un sistema informale che prende a modello l'economia
ufficiale, con la quale, a tratti, si interseca. Le due economie,
formale e sommersa, sono in antitesi e allo stesso tempo dipendenti
l'una dall'altra, fino a forme estreme di ingerenza da parte
dell'economia ufficiale. Come sostiene Davis, in virtù
del loro stesso proliferare gli slum attraggono sempre di più
la speculazione, che vede nelle abitazioni di fortuna potenziali
ottimi affari in termini di affitto o riqualificazione. In Egitto
infatti l'acquisto di suoli edificabili “è diventato
il terzo maggior investimento non petrolifero dopo l'industria
manifatturiera e il turismo”, e lo stesso accade a Lagos,
in Nigeria; a Karachi, in Pakistan, o nei sobborghi di San Paolo,
in Brasile.
Abitare altrimenti
Se le eterotopie sono, come sostiene Foucault, “la contestazione
di tutti gli altri spazi”, e se questa contestazione si
può esercitare in due modi: “o creando l'illusione
che denuncia tutto il resto della realtà come un'illusione”
(come nel caso delle case di prostituzione) oppure “creando
realmente un altro spazio reale tanto perfetto, meticoloso e
ordinato, quanto il nostro è disordinato, mal organizzato
e caotico” (come nel caso delle colonie o di alcune comuni)
– gli slum di Mumbai e Nairobi soddisfano entrambe queste
condizioni contemporaneamente.
Come le case di prostituzione, questi microcosmi denunciano
l'ipocrisia della società in cui sorgono, ponendosi come
sfacciato e inequivocabile emblema della disuguaglianza sociale:
l'altra faccia del progresso, la baracca che sorge ai piedi
del grattacielo. D'altra parte, come le meticolose colonie gesuite
citate da Foucault, la loro economia minuziosa e organizzata
ci mette di fronte a un'efficienza sorprendente, ottenuta mettendo
in campo meno forze, meno regole, meno capitale rispetto all'economia
ufficiale. Kibera, con la sua economia priva di pedaggi, in
cui non esiste il pizzo, è un piccolo, perfetto esempio
di libero mercato.
E tuttavia, come abbiamo visto, le eterotopie non sono esenti
dal rischio di sparizione: la scomparsa (relativa) delle case
di prostituzione è per Foucault l'esempio perfetto di
come ogni società sia in grado di riassorbire un'eterotopia.
Il cimitero, invece, luogo altro nella sua accezione
più drastica, ci mostra come un contro-spazio possa cambiare
ruolo e caratteristiche a seconda dei mutamenti sociali. Se
fino al XVII secolo infatti si trovava nel centro della città,
accanto alla chiesa, pur senza essere investito di particolare
solennità, proprio nel momento in cui la civiltà
ha iniziato a secolarizzarsi e a diventare più laica
– alla fine del settecento – si è cominciato
a “individualizzare gli scheletri”, a costruire
per ciascuno la propria lapide e la propria “scatoletta”,
nel contempo relegando questi luoghi ai margini della città,
come “luoghi di infezione”.
Qualcosa di analogo è accaduto per un particolare tipo
di eterotopia, molto discussa nell'attuale società europea:
il campo nomadi. Con il progressivo imporsi della stanzialità
sul nomadismo, con la crescita – a dir la verità
ancora molto lacunosa – delle nostre conoscenze della
comunità rom e sinta, e quindi con il riconoscimento
e l'individualizzazione di questi popoli da parte della società,
si è diffusa anche la pratica della segregazione in riserve,
il più possibile lontane dal centro, il più possibile
lontane dagli occhi.
Pur inserendosi perfettamente nel campo delle “eterotopie
di deviazione”, ovvero spazi – come i manicomi,
le carceri o gli ospizi – destinati a individui il cui
comportamento è considerato deviante rispetto alla norma,
i campi nomadi sembrano sfuggire in qualche modo al controllo
della società che li ha prodotti, incarnando un altrimenti
troppo radicale.
A differenza degli slum di cui abbiamo parlato, in qualche modo
funzionali o comunque riassorbili nonostante la loro alterità;
a differenza anche delle periferie europee e statunitensi (i
sobborghi londinesi, le banlieues parigine) consapevoli
dello propria marginalità e in conflitto più o
meno latente con il resto della società, e pertanto in
dialogo con essa, i campi nomadi si limitano a essere altrimenti.
La loro economia interna non ricalca quella ufficiale, se non
nelle aspirazioni al possesso di alcuni beni della società
dei consumi. Tolta la produttività e i possibili interessi
economici resta dunque solo l'imbarazzo di dover gestire un
viver altro che nessuno capisce completamente. Al di
là di quale soluzione abitativa sia più auspicabile
per i diretti interessati – la questione non è
francamente così semplice – resta il fatto che
in questi insediamenti si realizza alla perfezione quella che
Antonella Moscati, curatrice di Utopie Eterotopie (Cronopio
2006), definisce la “funzione fondamentalmente anarchica
delle eterotopie”: spazi altri come luoghi di resistenza,
non tanto per coloro che vi stanno dentro ma, forse, per alcuni
di coloro che ne stanno fuori. Si tratta di luoghi che, per
la loro stessa esistenza, contestano tutti gli altri spazi,
incarnando una differenza assoluta. Sono luoghi di resistenza
anche quando diventano spazi di reclusione. Perché insinuano
un dubbio nei confronti del nostro “incosciente e autarchico
benessere”.
Laura Antonella Carli
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