Litigare
ok,
ma per bene
È uscito recentemente Litigare con metodo. Gestire
i litigi dei bambini a scuola (Erickson, Trento, 2013, pp.
104, e 17,00), di Daniele Novara e Caterina Di Chio, che riprende
sostanzialmente gli atti del Convegno organizzato dal Centro
psicopedagogico per la pace e la gestione dei conflitti di Piacenza,
svoltosi nella città emiliana lo scorso dicembre. L'obiettivo
è quello di demolire una serie di pregiudiziali rispetto
al significato del concetto di conflittualità nei rapporti
tra bambini. Il conflitto non equivale alla “guerra”,
ma è l'esatto contrario della violenza, perché
comprende l'altro nel proprio orizzonte, senza escluderlo, eliminarlo
e distruggerlo. Occorre superare il paradosso negativo che considera
il conflitto un male assoluto. La conflittualità, il
rapporto litigioso, la contrarietà, costituiscono fattori
che presentano una straordinaria opportunità educativa,
di crescita e autoconoscenza, in quanto sussistono esclusivamente
dove si verifica relazione, dove sono impliciti i presupposti
dello “stare insieme”.
Si impara da bambini a litigare. Anche se prevale, da parte
del mondo adulto, una modalità colpevolizzante di affrontare
i conflitti infantili.
Il termine conflitto, dal latino conflictus, derivato
del verbo confligere, composto da cum e fligere,
presuppone dunque il prefisso che indica lo “stare insieme”,
lo “scontrarsi insieme”. Il conflitto, il litigio,
la contrarietà costituiscono un presupposto relazionale
della condivisione, nello stare insieme, nella conoscenza, nella
reciprocità delle dinamiche comportamentali tipiche del
mondo infantile, nei rapporti microsociali della relazione,
che caratterizzano anche il contesto adulto.
Attualmente la società sta attraversando un momento pedagogicamente
critico per cui è importante realizzare un progetto comune
di matrice educativa. Il fattore fondante di un percorso pedagogico
creativo e proficuo consiste nell'affrontare con consapevolezza
gli inevitabili conflitti per tentare di trasformarli in occasioni
di crescita arricchenti e di conoscenza vicendevole e reciproca.
L'impegno necessario da parte di pedagogisti e educatori, appassionati
e preparati, consiste nel cercare una terza via educativa. Un
approccio pedagogico attento ed efficace, come il metodo maieutico,
offre una proposta operativa naturale, e per questo rivoluzionaria,
alternativa e innovativa, per aiutare i bambini a vivere bene
il conflitto, la contrarietà, le discrasie relazionali,
in un apprendimento primario che potranno attualizzare e praticare
nelle esperienze esistenziali quotidiane, lungo tutto l'arco
della loro vita. L'apparato educativo, il sistema formativo,
tramite approcci pedagogici di carattere maieutico, possono
creare e aprire una terza via educativa nei rapporti interrelazionali
tra pari, bambini e adulti, senza presupporre un intervento
esterno nell'ambito della situazione conflittuale, ma imparando
a mediare e a gestire la contingenza e il contesto, che provocano
contrasto e contrarietà, dall'interno della circostanza
che si vive nell'attualità del presente, nel qui e ora.
Come pedagogisti crediamo nell'intima creatività del
fanciullo, fin dai primi anni di vita, e nell'importanza di
attivare, a partire dal litigio e dalla conflittualità,
dinamiche comportamentali che conducano alla gestione dei conflitti
e a contesti di pace, a livello microrelazionale, che stimolino,
successivamente, il mondo adulto a favorire e creare presupposti
di dialogo e gestione delle contrarietà e ad attivare
processi di pace tra persone, popoli, genti e minoranze, a livello
macrosociale, globale e universale, così da attivare
percorsi che comportino lo scambio, il confronto esperienziale
per superare il conflitto e i disagi impliciti in vari contesti
relazionali e nella civiltà contemporanea.
L'approccio pedagogico maieutico deve operare per attivare processi
di pace che investono le varie realtà in conflitto, per
porre per sempre fine agli scontri bellici e alle cosiddette
e surrettizie guerre umanitarie, preventive, sdoganate per missioni
di pace: dal particolare all'universale.
Laura Tussi
Ancora bufale su piazza Fontana
Quando la smetteranno?
Aveva iniziato Paolo Cucchiarelli con Il segreto di piazza
Fontana (Ponte alla Grazie, 2009), un testo infarcito di
invenzioni su Pietro Valpreda e Giuseppe Pinelli. Un ponderoso
volume (700 pagine) costruito su una serie di falsità,
con infiltrati fascisti (Mauro Meli) nel Circolo anarchico Ponte
della Ghisolfa mai esistiti, con presunti stragisti (Claudio
Orsi) che il 12 dicembre 1969 si trovavano a centinaia di chilometri
da Milano, per finire con l'accusa all'attuale direttore di
“A” Rivista anarchica di essere l'anarchico (in
realtà mai esistito) che non avrebbe allora confermato
l'alibi di Pinelli. Accusa che gli costò una ritrattazione
a pagamento sul Corriere della sera e su La Stampa.
Nella richiesta di archiviazione inoltrata al gip, nel maggio
2012 dai pm di Milano, e accolta nell'ottobre scorso, circa
l'ultimo stralcio di indagini sulla strage di piazza Fontana,
le tesi di Cucchiarelli relative all'esistenza di una “doppia
bomba” e al coinvolgimento di Valpreda e Pinelli sono
state definite di “assoluta inverosimiglianza”,
così come “le dichiarazioni della fonte anonima
in questione, utilizzate dal giornalista, palesemente prive
di fondamento”. Non è dunque mai esistito il fantomatico
mister X citato dallo stesso autore come fonte delle proprie
“scoperte”.
L'ossessione del doppio
Nello stesso solco Stefania Limiti che ha invece teso, con alcune
sue pubblicazioni, a rivisitare la storia di questo secondo
dopoguerra producendosi in evidenti forzature della realtà.
Illuminante l'introduzione de Il complotto. La controinchiesta
segreta dei Kennedy sull'omicidio di JFK (Nutrimenti, 2012),
con postfazione del solito Cucchiarelli, in cui si ipotizza
che lo “schema operativo” approntato per assassinare
nel 1963 il presidente americano sia stato utilizzato anche
per la strage di piazza Fontana, con Valpreda al posto di Lee
Oswald, mero burattino nelle mani di fascisti e servizi segreti
(la stessa tesi de Il segreto di piazza Fontana). Emerge
in questi due autori un'autentica ossessione per il “doppio”
(le doppie bombe, le doppie identità), per cui tutti
i protagonisti, loro malgrado, si palesano unicamente come marionette
nelle mani degli apparati o dell'estrema destra. E non solo,
siccome l'appetito vien mangiando, dal “doppio”
si passa ora al “quadruplo”. A quando il raddoppio?
|
Enrico
Maltini, autore della recensione
pubblicata in queste pagine, è co-autore
del volume “e a finestra c'è la morti.
Pinelli: chi c'era quella notte”
(Zero in condotta, Milano 2013,
pagg. 168, € 10,00).
Maltini, negli anni a cavallo della strage
di stato, fece parte (con Giuseppe Pinelli
e alcuni altri) della Crocenera Anarchica.
L'altro co-autore, Gabriele Fuga,
avvocato, ha curato su questa rivista
per un periodo (negli anni '80) la rubrica
“L'avvocato del diavolo”.
Stralci dal loro libro sono stati pubblicati
in “A” 378 (marzo 2013) |
Il mutante
È infatti la volta de L'infiltrato di Egidio Ceccato
(Ponte alle Grazie, pp. 324, € 14,00, introduzione di Paolo
Cucchiarelli), di genere fantastico, se non avesse la pretesa
di considerarsi un lavoro storico. Il libro è infarcito
di frasi del tipo: “Un elemento cardine di questa strategia
è l'infiltrazione...”; “...a un certo punto
l'anello anarchico si agganciò a quello dei gruppi marxisti-leninisti
e nazimaoisti e ambedue finirono manovrati da menti di Ordine
Nuovo e Avanguardia Nazionale...”; “...l'Andreola
metteva a segno la sua infiltrazione...nel gruppo rivoluzionario
di Feltrinelli e in quello anarchico...”; “...Chittaro
Giuseppe aveva nel corso del 1969 infiltrato i circoli anarchici
milanesi...”; “ ...viene infiltrato tra i gruppuscoli
anarchici e dell'estrema sinistra...”; “E lo stesso
Feltrinelli fu un ingenuo strumento nelle mani dei servizi e
della destra, che lo fecero saltare letteralmente in aria mettendo
in mano all'editore-bombarolo dei timer difettosi preparati
appunto da quel Gunter che si era conquistato la fiducia tanto
incondizionata quanto malriposta dell'imprenditore...”
E via di questo passo, tra “anarco-marx-lenin-nazimaoisti”(?),
infiltrati, traditori e vittime ignare.
La storia narrata, incentrata sulla figura di un diabolico pluri-infiltrato
di nome Berardino Andreola, è completamente campata in
aria, come dimostriamo in queste brevi note. Avremmo potuto
anche lasciar perdere, ma non possiamo accettare la presunzione
– non solo di Ceccato – di poter tranquillamente
affermare, senza prova alcuna, che gli anarchici sono perennemente
preda di infiltrati e manipolatori, in balia di ogni burattinaio
di passaggio e che così fu anche a Milano al tempo della
strage di piazza Fontana.
L'infiltrato sarebbe tale Berardino Andreola, già coinvolto
nel 1975 nel fallito sequestro in Sicilia dell'ex senatore democristiano
Graziano Verzotto. Un delinquente comune, figlio di un maresciallo
dell'Ovra e lui stesso fascista, più volte condannato
per truffa, traffico d'armi e altri reati comuni, ma dipinto
da Ceccato come abile spia di un oscuro servizio tedesco. Ebbene,
ai tempi di piazza Fontana e negli anni seguenti, questa stessa
persona si sarebbe “trasformata”, a fini di provocazione,
assumendo nel tempo le generalità di ben altri quattro
personaggi, variamente infiltrandosi tra gli anarchici e non
solo.
I personaggi via via interpretati sono: un confidente di Allegra
e Calabresi di nome Giuseppe Chittaro Job, poi un tale Giuliano
De Fonseca, in seguito tale Umberto Rai e infine un uomo chiamato
Gunther. Tutti costoro sarebbero la stessa persona, ovvero l'Andreola.
Fin qui si potrebbe trattare di fantasie innocue, di cui il
Ceccato si assume la responsabilità.
Ma l'autore dà anche per certo che il Chittaro si sarebbe
davvero infiltrato fra gli anarchici, insistendo sui: “...contatti
di Chittaro/Andreola con gli anarchici milanesi...” (ma
quando mai?). Ma non solo, perché lo stesso Andreola
sarebbe poi entrato in relazione, questa volta con il nome di
Umberto Rai, ancora con “noti anarchici” e con Giangiacomo
Feltrinelli, ed è con il nome di Gunther, sotto il traliccio
di Segrate nel 1972, che l'Andreola/Gunther ne avrebbe volontariamente
causato la morte, grazie alla manipolazione del timer che l'editore
stava maneggiando, per poi dedicarsi, con il nome di De Fonseca,
al depistaggio delle indagini sulla sua morte. Il tutto senza
fornire il minimo riscontro o una prova. Sarebbe invero stata
sufficiente qualche verifica per evitare figuracce e rendersi
conto che si tratta di persone del tutto diverse tra loro. Una
verifica sull'età ci dice che Andreola nacque a Roma
nel 1928; Chittaro, come da rapporti di polizia e da certificato
anagrafico di nascita, a Udine nel 1940; Rai nasce a Milano
nel 1923, come da documentazione della questura di Milano e
dal mandato di fermo del 15 dicembre 1969, mentre il Gunther
risulta nato fra il 1927 e il 1931. Quanto alle morti, si sa
di Andreola nel 1983, a 55 anni e di Gunther nel 1977.
Da altre verifiche si apprende anche che nel 1975 l'Andreola,
dal carcere di Palermo, si propose come informatore sulle Br
ai giudici di Torino, che dopo averlo sentito lo bollarono per
“manifesta inattendibilità” e “calunnia”.
Berardino Andreola, condannato per tentato sequestro a scopo
di estorsione, rimarrà in carcere dal 1975 fino alla
sua morte, nel carcere di Fossombrone, nel 1983.
Chi erano?
Ma chi erano nella realtà storica questi personaggi?
Per ragioni di spazio, riportiamo solo alcuni elementi, ma molti
altri ve ne sarebbero: Chittaro, di corporatura media, era un
mezzo mitomane che nel 1969 bazzicava (a suo dire) l'ex hotel
Commercio e l'allora casa dello studente occupati, nonché
i gradini del Palazzo di Giustizia di Milano, dove l'anarchico
Michele Camiolo faceva lo sciopero della fame. Uno che viveva
di espedienti, non troppo alfabetizzato, (nelle sue lettere
si legge ad esempio l'aradio, la scuadra politica...),
più volte condannato per truffa, sostituzione di persona
e anche traffico di armi (due fucili), ma che godeva di strani
agganci in Francia e Svizzera presso questure e consolati. Con
questo tizio aveva stretti rapporti il capo dell'ufficio politico
della questura milanese Antonino Allegra, che sperò fortemente
di trarre da lui confidenze determinanti per accusare gli anarchici,
tanto da inviare il commissario Calabresi a Basilea, per un
incontro con lui presso il consolato, addirittura il 13 dicembre,
giorno dopo la strage. Una trasferta che si rivelerà
del tutto infruttuosa. Anni dopo, nel 1980 – si noti che
Andreola era in carcere – il Chittaro fu oggetto di numerosi
articoli sul quotidiano Lotta continua, su l'Unità e
altri giornali, perché coinvolto in una complicata e
oscura storia di falsi documenti e depistaggi sulla morte di
Feltrinelli. Chi lo incontrò allora ricorda che il Chittaro
si vantava sempre di grande dimestichezza con l'editore.
Gunther era il soprannome di Ernesto Grassi, che non era un
traditore né un assassino e non ha manipolato alcun timer,
ma era operaio in una fabbrica di Bruzzano, con un'esperienza
di partigiano in Valtellina, faceva parte dei Gap di Feltrinelli
e la tragica sera del maggio 1972 era davvero con l'editore,
ma doveva occuparsi del traliccio di Gaggiano e non di Segrate.
Chi lo ha conosciuto descrive fisicamente Gunther come molto
piccolo e minuto. Umberto Rai era al contrario molto alto e
robusto, ex pugile ed ex partigiano, di professione pittore,
con lievi precedenti per reati comuni, fermato a Milano dopo
la strage perché in precedenza indicato da “fonte
confidenziale” (Anna Bolena) come implicato nelle bombe
sui treni dell'agosto '69. Rai frequentava allora, come molti
“alternativi”, anarchici compresi, i locali di Brera
e anche a lui furono chieste da parte di Allegra e Calabresi
e, ancora una volta invano, confidenze sugli anarchici (su Paolo
Braschi in particolare), come si ricava da un lungo interrogatorio
in data 13 dicembre 1969.
Il
Rai lavorò un paio di settimane per Feltrinelli, pare come
guardiaspalle di Rudi Dutsche, ospite dell'editore. Nel 1969,
testimoniò in Germania al processo per la strage nazista
di ebrei del settembre 1943 a Meina sul Lago Maggiore, ma fu ritenuto
inaffidabile dalla corte. Dal canto suo l'Andreola, nell'unica
foto pubblicata nel libro e scattata nel 1977, appare un tipo
normale e un po' sovrappeso.
Anche Pinelli e Calabresi
Ma le sorprese del nuovo libro non finiscono qui: l'autore non
dà nulla per certo, ma lascia intendere che anche la
morte di Pinelli e quella del commissario Calabresi sarebbero
in larga misura riconducibili al ruolo del Chittaro/Andreola:
ruolo di confidente “infiltrato negli ambienti anarchici”,
che Pinelli avrebbe smascherato quella notte in questura, condannandosi
così a morte. Mentre per Calabresi, oltre a ritenere
che: “... si fosse troppo avvicinato a verità delicate
in materia di traffici di armi ed esplosivi, non è da
escludere neppure che egli stesse indagando sulla vera identità
e sulla reale collocazione politica del soggetto incontrato
a Basilea il 13 dicembre 1969 e presentatosi col nome di Giuseppe
Chittaro”, dunque anche lui colpevole di aver scoperto
il ruolo o i ruoli giocati dall'Andreola, di cui era prima all'oscuro.
Il contenuto di fondo del libro è che la strategia della
tensione fu opera della parte più retriva della destra
italiana, con la complicità di Cia & co e il ruolo
chiave dell'Ufficio Affari Riservati, e fino a qui e senza entrare
in dettagli, siamo alla versione ormai accettata da tutti. Ma
la tesi che ci sta dentro è sempre quella degli anarchici
sprovveduti e infiltrati, del Feltrinelli ingenuo e manipolato
e, come nel libro si suggerisce, dandone per scontata la responsabilità,
anche degli “eterodiretti” militanti di Lotta continua
condannati per l'uccisione di Calabresi, che come burattini
tirati da fili malefici eseguivano i calcolati disegni delle
forze oscure della destra eversiva. Come Cucchiarelli, Ceccato
non riesce a concepire che Pinelli, Valpreda e gli anarchici
non c'entrassero assolutamente nulla con la bombe del 12 dicembre
e che quello di Feltrinelli sia stato un incidente. Chittaro
è certamente un personaggio oscuro, manipolato e manipolatore,
ma non aveva nulla a che fare con l'Andreola e se davvero tentò
di infiltrarsi tra gli anarchici, proprio non ebbe successo.
Ovviamente anche nelle pagine di questo libro, come in quello
di Cucchiarelli, fa capolino un misterioso mister X, questa
volta chiamato “Anonimo mafioso”, intento a raccontarci
vicende tanto oscure quanto indimostrabili. Siamo, in ultima
analisi, di fronte una forma di intossicazione, consapevole
o no che sia, di un pezzo di storia negli anni della strategia
della tensione. Ceccato ha detto in una intervista che: “
...su chi è stato (l'Andreola ndr) e su quanto
ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere
una nuova verità storica con cui la società, non
solo italiana, dovrà per forza fare i conti”.
Trame e complotti contrassegnarono davvero quel periodo e la
verità storica deve essere scritta. Ma un conto è
studiarla, altro è inventarla.
Enrico Maltini
Questo articolo riprende, ampliandola, una recensione pubblicata
su Il Manifesto del 16 ottobre 2013 a firma Saverio Ferrari,
Enrico Maltini, Elda Necchi.
(Post)anarchismo
queer/
Rapporti imprevedibili tra individualità e socialità
àltera, Collana di intercultura di genere diretta da
Liana Borghi e Marco Pustianaz, ha appena pubblicato il saggio
del ricercatore Samuele Grassi Anarchismo Queer un'introduzione
(ETS Edizioni, Firenze 2013 pp. 201, € 18,00). Una miscellanea
di contributi, quasi enciclopedica, per un'introduzione, appunto,
al complesso, multiforme, variegato, inafferrabile “anarchismo
queer”. “Un punto fermo, non scritto” dal
quale cominciare, considerato che sul piano teorico lo studio
è ancora tutto in divenire.
L'autore dichiara di voler esplorare connessioni possibili tra
l'etica anarchica e le teorie queer allacciandosi all'ambito
anglofono, per valutare se siano traducibili ad altri contesti
come quello italiano.
La quarta di copertina ben ne sintetizza gli assunti: “Il
queer mina alla base l'acronimo lgbt, si rifiuta di diventare
l'ennesimo prodotto-immagine della cultura globalizzata, di
essere cooptato dal neoliberismo; sfugge, sempre differente,
inassimilabile”. Ancora: “L'anarchismo oggi è
alla ricerca di nuove pratiche etiche della responsabilità,
di libertà e solidarietà per negoziare rapporti
imprevedibili tra individualità e socialità. All'incrocio
di queste due pratiche teoriche e attiviste, l'anarchismo queer
manda in crisi le opposizioni binarie come etero/omo, bianco/nero,
teoria/attivismo, e le sostituisce con espressioni singolari,
autonome, antiautoritarie, in continuo divenire antagonista”.
Samuele Grassi, nel condividere la riflessione teorica di Benjamin
Shepard, individua affinità tra prassi postanarchiche
e queer riconducibili alla scelta di “piacere” e
“democrazia diretta” versus le logiche del profitto,
mentre il concetto di libertà è basato sull'auto-determinazione
che comprende anche “esperienze eclettiche, dinamicità
e sperimentazione” e critica anti-essenzialista alla normatività.
Per una critica anti-normativa delle e sulle differenze di genere/sesso/sessualità,
classe, razza, abilità, lo studio considera gli approcci
metodologici dell'intersezionalità e dell'interculturalità,
che permettono di vedere come le prime si realizzino nell'ambito
della gestione biopolitica dei corpi, dimostrando zone di contatto
e incontro tra i due approcci e la teoria queer.
Il queer mette in crisi il concetto di identità sessuali
naturali, libera la sessualità così da poter contribuire
al cambiamento sociale attraverso “la limitazione di ogni
ordine morale imposto, a cominciare da quello che sottrae libertà
ai nostri corpi”.
Al riguardo, l'attivismo pink intende sovvertire il primato
delle strutture dicotomiche che legittimano le forme di potere
tradizionali, attribuendo al colore l'indicatore della lotta
a ogni forma di oppressione. Grassi sottolinea gli importanti
contributi nell'ambito del teatro alternativo anche in Italia.
L'aspetto ludico di certe pratiche, soprattutto quelle più
teatrali, rappresentano prima di tutto un atto di sovversione
perché viene a mancare la logica oppositiva dello scontro,
che invece è strumentale ai procedimenti con cui il potere
legittima la necessità di ricorrere alla violenza e alla
repressione da parte delle forze dell'ordine. Sono forme di
protesta antiautoritarie, modi alternativi di fare mondo, forme
ludiche di resistenza effimere e imprevedibili.
In Italia, per democratizzare desideri e pratiche sessuali,
“contro le politiche di disciplinamento dei corpi”
un approccio aperto alla sessualità è stato portato
avanti da gruppi e progetti antagonisti. Lo studio discute dei
gruppi: Antagonismogay/ Maschieramenti, FrangettEstreme, Mujeres_Libres,
Sexyshock di Bologna; A/Matrix, OrgogliosamenteLGBTIQ (Lesbian,
Gay, Bisexual, Transgender, Intersex, Queer), Phag Off! e il
collettivo Facciamobreccia di Roma; Pornflakes queer crew di
Milano e la Torino Samba Band.
La ricerca del piacere è vista in termini affettivi anziché
produttivi, come relazionalità anziché procreazione.
Le tappe della lotta al potere si esplicitano, quindi, attraverso
la pornografia come strumento di liberazione, la causa del sexwork,
come lavoro autonomamente scelto e autogestito, oppure la sessualità
restituita a una cultura delle relazioni capace di valorizzare
le differenze, lontana dai ruoli e dagli irrigidimenti identitari.
Il sesso kinky, invece, attraverso l'aspetto ludico dell'assunzione
di ruoli, smaschera la realtà oppressiva delle relazioni
di potere esistenti nella vita quotidiana
Nell'ambito della critica all'eteronormatività, il queer
delegittima il valore intrinseco alle identità sessuali
dominanti, anche attraverso un confronto con alcuni princìpi,
da quelli di democrazia, pluralismo, singolarità, ai
princìpi di etica, sostenibilità e responsabilità.
Concetto quest'ultimo ripreso dal femminismo di Judith Butler,
la quale propone “un'etica della responsabilità”
che si apre all'incontro con e tra differenze, nel momento in
cui il soggetto si rende umilmente consapevole della propria
vulnerabilità, della non completa conoscenza di sé,
aspetto che lo pone in necessaria relazione con l'Altro. E di
questo se ne deve tener conto.
Sandra Jeppesen parla altresì del compito di praticare
un'“etica nomadica e pluralista” in cui la nostra
responsabilità verso il sé è connessa alla
responsabilità profonda verso gli altri. Non c'è
libertà del sé in assenza di quella degli altri.
Sempre all'interno della ricerca di nuove pratiche etiche, nella
parte conclusiva del saggio si sottolinea che l'etica hacker
è un'etica dell'anarchismo poiché è fondamentale
riuscire ad accedere alla rete/networking, su cui si fonda internet,
per un accesso libero e condivisione libera di saperi. Di importanza
strategica l'Oral History Project, il monumentale archivio circolante
in internet, che mette a disposizione documentazione di forme
di relazionalità dissidenti e strategie politiche considerando
la mobilitazione degli affetti, per una liberazione delle norme
del sesso/genere. Comunque, aver accesso a computer, applicazioni,
gestire in modo autonomo strumenti e informazioni, rifiutando
ogni forma di autorità e controllo che possa impedire
l'accesso alle conoscenze, significa utilizzare internet e l'informatica
come una forma di arte, come strumento capace di migliorare
il mondo. Quindi, l'etica hacker è un'etica libertaria
che va oltre la contro-informazione per giungere a contrastare
il monopolio informativo.
Nel tentativo di cogliere le molteplici sfaccettature del mondo
queer, dal mio marginale punto di vista, considero importante
che le proposte, sollecitazioni, dubbi sollevati, problemi aperti
sempre soggetti a interrogazione non rimangano solo “nella
sfera intimamente pubblica” di chi ha condiviso con l'autore
il “viaggio collettivo” di collaborazione, come
si legge nei “Ringraziamenti” all'inizio del saggio.
In particolare, a proposito della circolazione dei saperi, credo
si debba affrontare il problema della divulgazione su vasta
scala per contribuire in modo costruttivo,– e non solo
nell'impianto teorico per “sciogliere rigidità
epistemologiche” –, a relativizzare gli schemi interpretativi,
a non categorizzare, a pluralizzare i punti di vista.
Dare a tutt* la possibilità di includere letture possibili
di mondi “altri” è un primo passo per non
stigmatizzarli. La sessualità dovrebbe altresì
essere al centro di una sensibilizzazione di ampio respiro.
L'autore stesso ravvisa l'assenza di leggi in tal senso, per
un'educazione sessuale nella scuola pubblica. Ma rimane aperta
la questione relativa ai luoghi, alle figure designate a parlarne,
sempre più difficile in un contesto come quello italiano
in cui sono forti le pressioni normative di Stato e Chiesa.
Un'educazione sessuale e alla sessualità rischia di proporsi
come una diseducazione, se non comprende anche il riferimento
alla sfera emotiva degli affetti, dei sentimenti, se non contempla
quantomeno la conoscenza di progetti altri, oltre la famiglia,
il matrimonio, la coppia, se non affronta la questione della
decostruzione dei generi. Perché, se è vero che
dipendiamo dall' Altr* – ma chi è l'Altr*? –
è giusto che l'Altr* ne sia reso partecipe.
Conoscere, riflettere, ma allo stesso tempo esercitare la sospensione
del giudizio sarebbe un modo per contrastare in modo efficace
gli stereotipi nei quali navighiamo, e non solo in modo metaforico,
nella quotidianità. Cominciando dal ripensare la lingua
italiana con la quale veicoliamo i nostri pensieri e idee, attraverso
la quale si esprimono e condividono “utopie rinnovabili
di un mondo migliore”, e nella quale prevale, incontrastato,
il “maschile plurale”.
Claudia Piccinelli
Anarchismo/
Più idee che movimento
“Immaginiamo che una porzione del suolo
d'Inghilterra sia stata livellata perfettamente, e che in essa
un cartografo tracci una mappa d'Inghilterra. L'opera è
perfetta. Non c'è particolare del suolo d'Inghilterra,
per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto
ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve
contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa
della mappa della mappa, e così all'infinito”.
Josiah Royce, Il mondo e l'individuo, 1899
Il
paradosso di Royce, a maggior ragione nel caso della mappa di
un movimento politico, mappa che si propone di descrivere un
fatto storico nello spazio e nel tempo, è a mio avviso
particolarmente illuminante.
Il compagno che affronta questa impresa, non solo fa parte della
mappa ma, mediante il proprio lavoro, concorre in misura superiore
alla media a costruire l'oggetto della mappa stessa.
Ne consegue che ogni storia dell'anarchismo e ogni antologia
di testi anarchici va valutata non solo col pur necessario rigore
storico e filologico, ma in primo luogo come fatto politico.
Che cosa dunque caratterizza Anarchismo. Le idee e il movimento
(Laterza, Bari 2013, pp. 164, € 12,00) di Gianfranco Ragona?
A mio avviso un interesse non usuale che data da lungo tempo,
per esperienze e vicende che altre, e pur pregevoli ricerche,
non hanno esaminato.
Mi riferisco certamente al rapporto tra anarchismo ed ebraismo,
sul quale l'autore ha scritto diversi testi, quale ad esempio
“Storia di un incontro. Un convegno su anarchici ed ebrei”
in Umanità Nova (LXXX, n. 18, 21 maggio 2000).
Soprattutto credo sia rilevante il lavoro di scavo e di approfondimento
nel merito delle vicende del movimento anarchico di lingua tedesca,
e in particolare sul contributo di Gustav Landauer alla teoria
e alla prassi anarchica. Su Landauer, fra l'altro, Gianfranco
Ragona ha recentemente pubblicato Gustav Landauer anarchico
ebreo tedesco (Editori Riuniti University press 2010).
È mia opinione, come affermavo in premessa, che nelle
ricerche serie, e quella di Ragona lo è, il lavoro di
scavo intorno alle radici e alle vicissitudini del movimento
anarchico è funzionale in qualche misura alla reinterpretazione
dello stesso anarchismo e del suo ruolo qui e oggi e in prospettiva.
Se assumiamo l'ipotesi, che può sembrare provocatoria,
che non vi sia un anarchismo ma diversi anarchismi, certamente
è dirimente il peso che si dà alle diverse vicende
che l'anarchismo ha attraversato. Ragona sicuramente ha un interesse
precipuo per la sfera etica e per i tentativi di contro società.
Non è casuale, credo, che l'esito della ricerca di Ragona
valorizzi più la funzione di stimolo culturale, pur ricchissimo,
della teoria, più che il movimento anarchico come soggetto
sociale e politico. Un'ipotesi sulla quale ho i miei dubbi,
ma che merita di essere presa in seria considerazione.
Cosimo Scarinzi
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