movimenti/19 ottobre
Il leninismo fluido
di Maria Matteo
Note a margine del #19O, il corteo dell'#assedio.
Lenin si collocava agli incroci
di un labirinto dove si intersecavano il vecchio autoritarismo
di marca giacobina, il partito come avanguardia cosciente e
ristretta, l'idea della rivoluzione come sommovimento da guidare,
indirizzare in una transizione tutta collocata nel dopo. Utopia
da venire, destinata a scontrarsi con il realismo di un processo
che doveva trovare il proprio compimento storico in un domani
inattingibile nell'immediato. La rottura rivoluzionaria, nella
prospettiva leninista, non attuava il domani desiderato ma assegnava
al partito padrone e padrino il compito di determinarne i tempi
e i modi.
Le distopie owelliane ancora oggi sono il migliore specchio
della prima parte del secolo breve. C'è chi descrive
Orwell come vaticinatore del nostro oggi. Secondo quest'approccio
l'evoluzione della tecnica sarebbe all'origine del grande fratello
globale, dettato dalle leggi della pubblicità mercantile,
capace di irretire con la seduzione piuttosto che obbligare
con la violenza. Orwell era un mero cronista dei propri tempi:
non pensava al futuro ma raccontava, giocando con i numeri,
il suo 1948. L'asfissiante burocrazia di 1984 evoca gli
scenari cupi dell'agrimensore K, più che satelliti, droni,
telecamere, microchip che seminano ovunque la propria bava elettronica.
Il grande fratello ti tortura con ferocia, ma piegarti non gli
basta, vuole anche sedurti. Il modello, insuperato, di sadismo
seduttivo è il Dioniso delle Baccanti di Euripide, che
lascia sbranare la sua vittima solo dopo averla sedotta. Senza
seduzione non c'é piacere. Né solido potere.
Orwell racconta l'Unione Sovietica, è un pittore dei
totalitarismi del secolo breve, la sua non è narrativa
di anticipazione. Winston Smith è uno stralunato testimone
dei suoi tempi, un'eco dei processi staliniani. Anni luce dal
nostro oggi. Il novecento, con il partito di massa, con Stalin,
Mussolini, Hitler mette in campo dinamiche collettive dove la
seduzione puntella e mantiene stabile l'organizzazione gerarchica.
Per la prima volta i mezzi di comunicazione fanno da megafono
ai dittatori, ne espandono il potere seduttivo, al di là
delle adunate, delle grandi folle che riempiono le piazze.
Oggi gli eredi di quel percorso, pur ambendo a dirigere il processo
di trasformazione non riescono più a riproporre con efficacia
il modello partito. La fluidità, caratteristica dei movimenti
a cavallo tra i due millenni, rende difficile ripensarne una
riedizione, sia come partito della rottura rivoluzionaria, sia
come struttura interna alle dinamiche istituzionali democratiche.
La potente ondata libertaria che, nelle proprie innumeri articolazioni,
ha attraversato gli ultimi quarant'anni, è a tal punto
pervasiva che nemmeno gli eredi della tradizione autoritaria
dei movimenti di emancipazione sociale, possono spazzarla via
con la sicumera di chi cavalca il destriero della Storia. Specie
quando il nobile animale ha da tempo disarcionato i propri cavalieri.
La metafora dell'orgoglio equino ci racconta di un tempo che
non soggiace né ad una filosofia della storia, né,
tanto meno, a chi vuole piegare gli eventi al disegno dei filosofi.
Nel nostro paese la diaspora seguita alla dissoluzione di Rifondazione
comunista non pare trovare approdi né terre promesse,
solo una lunga deriva senza prospettive. Si potrebbe dire che
l'eccesso di realismo che portò la compagine bertinottiana
dentro il governo Prodi, si è dimostrato un boomerang,
che è rimbalzato con violenza abbattendo chi l'aveva
lanciato. Sel, che ne ha raccolto l'eredità, si tiene
in bilico tra ambizioni movimentiste e struttura partito, facendo
leva sul carisma del leader. Più di recente l'esperienza
di Alba è rovinosamente naufragata nella triste avventura
elettorale di Rivoluzione civile. Poche gambe sembra avere Rossa,
nonostante l'appoggio della componente sconfitta della Fiom.
La normalizzazione della stessa Fiom nell'universo della Cgil
targata Camusso, non ha avuto ricadute esclusivamente sindacali,
ma significativamente politiche. La fine della cosiddetta anomalia
Fiom ha dissolto l'illusione che il sindacato potesse avere
un ruolo suppletivo del partito ormai decomposto. Un ruolo che,
per le aree post-autonome e post-disobbedienti, era essenzialmente
di tutela politica in campo istituzionale. In una sorta di patto
non scritto, gli uni garantivano una sponda movimentista agli
altri, che a loro volta svolgevano un ruolo di mediazione importante
per la salvaguardia dei loro spazi materiali e simbolici di
azione politica e sociale.
Il venir meno di un meccanismo informale ma efficace di tutele
ha scompaginato il quadro.
Il moltiplicarsi dei meccanismi disciplinari messi in campo
dai governi per contenere e bloccare ogni insorgenza sociale,
mutano le condizioni dello scontro, che si fa più crudo,
senza troppi spazi di mediazione.
La scommessa persa due anni fa
Due anni fa, in occasione della manifestazione del 15 ottobre
2011, il tentativo di alcune aree della diaspora post-comunista
e del sindacalismo di base di assumere una leadership da spendere
sul piano elettorale, si dimostrò fragile, incapace di
controllare una piazza che gli sfuggì di mano, sino agli
scontri di piazza San Giovanni, ai caroselli dei blindati, alla
violenza di stato.
Quella piazza divenne lo specchio delle convulsioni che attraversa(va)no
l'opposizione politica nel nostro paese.
Piazza San Giovanni e l'intera giornata del 15 ottobre 2011
furono una grossa fiammata in un barile pieno di benzina, che
non si estese ma si consumò in se stesso.
Se non fosse per la repressione durissima, per le condanne pesanti
inflitte, per i procedimenti in corso che rischiano di ricreare
uno scenario simile a quello che seguì il G8 di Genova,
quel giorno sarebbe stato da tempo archiviato.
A due anni da quell'ottobre le aree post-autonome hanno deciso
di giocare nuovamente la carta romana. Dopo un'estate non facile
sui fronti di lotta del Tav in Val Susa e del Muos in Sicilia,
hanno provato l'operazione complessa di estendere l'appuntamento
dei movimenti di lotta per la casa, che a Roma hanno caratteristiche
ampie e radicate, ad altre tematiche: disoccupazione, precarietà,
reddito, difesa del territorio. Il ponte tra lo sciopero dei
sindacati di base del 18 ottobre è riuscito, quello con
i No Tav e i No Muos è rimasto su un piano meramente
simbolico, senza una significativa partecipazione alla manifestazione.
La scommessa persa il 15 ottobre 2011 dalle aree istituzionali
del litigioso arcipelago della cosiddetta sinistra radicale,
è stata invece vinta il 19 ottobre di quest'anno. Grandi
numeri e grande controllo della piazza. L'operazione “contenitore”
questa volta ha funzionato. L'assedio si è trasformato
in un lungo corteo pacifico, puntellato, nella parte finale
dalle azioni di piccoli gruppi organizzati, che sapevano dove
e come attaccare, dosando con cura ogni momento, senza mai tentare
un affondo reale.
La questura ha messo in campo un dispositivo da tempi di guerra,
ma ha dato il via libera ad un percorso che lambisse diversi
ministeri, l'ambasciata tedesca, una sede di Trenitalia. Ai
piani alti c'era la convinzione che questa volta il vaso di
Pandora non si sarebbe rotto, spargendosi per la città.
Un ruolo decisivo lo hanno svolto i media, sia nel suscitare
allarmi preventivi sia disegnando un quadro falso dei tanti
buoni e dei pochi cattivi.
Gli eredi della tradizione leninista si sono candidati alla
leadership informale dei movimenti di opposizione sociale, pur
senza tentare, né probabilmente auspicare, avventure
organizzative che rischierebbero di spezzare il debole equilibrio
del 19 ottobre. Preferiscono affidarsi alle suggestioni dell'immaginario,
come leva potente capace di creare legami al di là dell'approccio
organizzativo. Hanno in questi anni saputo ridefinire un rapporto
con i media persino più spregiudicato di quello intessuto
con settori istituzionali.
Consapevoli del ruolo strategico dell'informazione, sia quella
main stream che dei social network da facebook a twitter, costruiscono
strategie comunicative sul filo del rasoio, sempre in bilico
tra la necessità di presentarsi come forza consapevole
e capace di mediazione e al tempo stesso perno dell'opposizione
più radicale. In un'epoca segnata dal trionfo di un immaginario
che consuma i propri miti molto in fretta, non si propongono
come guide ma come tutori, padrini, garanti. Una seduzione fluida,
effimera, qui ed ora. La distopia orwelliana è distante,
destrutturata dalle regole della comunicazione ai tempi del
mercato globale.
Non è tuttavia un'operazione priva di costi.
Il governo ha giocato la carta dell'efficienza del proprio apparato
repressivo nel contenere la piazza, limitando i danni. Si è
persino concesso l'apertura formale di un dialogo con i movimenti
romani per la casa, offrendo un incontro con il ministro per
le infrastrutture Lupi, chiusosi in un nulla di fatto.
Il 19 ottobre è stata un'importante giornata di auto
rappresentazione collettiva delle tante anime accatastate degli
orfani della sinistra, mescolati con tanti senza casa, precari,
qualche frammento dei movimenti di difesa territoriale.
D'altra parte i movimenti che in questi anni hanno saputo riporre
al centro la questione sociale, compreso quello romano per la
casa protagonista del 19 ottobre, hanno la loro forza nel radicamento
quotidiano nei territori, dove lo scontro ha sempre meno margini
di mediazione politica.
La durezza dello scontro in atto in Valsusa ne è il segno:
qui lo stato vuole spezzare, costi quel che costi, un movimento
che non si è mai piegato, che non ha mai accettato di
ridursi a mero testimone dello scempio ma ha deciso, pagandone
i costi, di resistere attivamente. Un movimento che, nella pratica
quotidiana, ha saputo costruire percorsi decisionali condivisi
anche nei momenti più difficili.
Più in generale i movimenti sociali di questi anni sono
stati attraversati da una tensione libertaria, che nonostante
la persistenza di una cultura autoritaria della sinistra, non
appare facilmente comprimibile, né controllabile dagli
eredi di Lenin, sia pure in versione fluida.
Per i libertari in generale e per gli anarchici in particolare
diventa sempre più urgente intersecare ed intrecciare
percorsi di autonomia reale dall'istituito che valorizzino questa
tensione libertaria.
Maria Matteo
|